La nascita di Gesù. Quando il Regno entra in conflitto a partire dal basso
di Bernardo Pérez Andreo*
Ripreso da
Il Blog di Enzo Bianchi

La nascita di Gesù non può essere intesa come una scena pia o come un prologo amabile destinato a preparare una teologia successiva, perché avviene – e questo è decisivo – in un mondo già organizzato secondo la logica del dominio, perfettamente strutturato affinché pochi concentrino il potere mentre la maggioranza sopravvive nella precarietà, e proprio per questo motivo questa nascita costituisce fin dall’inizio una rottura, una silenziosa destabilizzazione, una negazione pratica dell’ordine che si presenta come naturale e inevitabile.

Gesù nasce in una società contadina impoverita, sottoposta a una violenza strutturale che non ha bisogno di essere costantemente esibita perché è stata interiorizzata sotto forma di tasse, debiti, paura quotidiana e rassegnazione appresa; Roma governa da lontano, ma governa davvero, Erode amministra il terrore con efficacia locale e Gerusalemme – attraverso il Tempio e le sue élite – legittima religiosamente un sistema che esclude in nome di Dio, così che il mondo è già chiuso quando il Regno irrompe, non come complemento, ma come contraddizione.

Maria e Giuseppe non possono essere letti come figure devozionali destoricizzate, ma come soggetti sociali concreti, appartenenti a questa popolazione in eccesso che non conta per il sistema, la cui vita è segnata dall’insicurezza materiale e dalla minaccia costante di cadere un gradino più in basso; la nascita avviene dove si svolge sempre la vita dei poveri, senza garanzie, senza protezione, senza risorse, in condizioni che non rispondono a nessun simbolismo edulcorato, ma alla durezza dell’esistenza reale e il corpo di Maria – dolorante, sanguinante, vulnerabile – diventa già una sfida frontale a ogni teologia che pretenda di parlare di salvezza senza prendere sul serio la carne ferita della storia. 

Il bambino nasce senza privilegi, senza immunità, senza protezione religiosa e questo non è un incidente narrativo o una strategia pedagogica, ma la forma storica concreta che il Regno di Dio adotta quando entra in un mondo plasmato dall’esclusione; non si tratta di un Dio che si traveste da povero per poi ritirarsi nello spazio del sacro, ma di una vita realmente esposta, collocata fin dall’inizio nel luogo sociale di coloro che non hanno alcun potere di difendersi, perché solo così il Regno può essere qualcosa di più di un’idea e diventare un’alternativa reale.

Coloro che per primi si avvicinano a questa nascita non sono i rappresentanti dell’ordine, né i mediatori religiosi, né coloro che possiedono il sapere legittimo, ma coloro che già vivono fuori dal centro, pastori e lavoratori disprezzati, uomini considerati impuri e socialmente irrilevanti, che non giungono mossi da una rivelazione straordinaria, ma da una sensibilità affinata dall’intemperie, dalla capacità di riconoscere la vita là dove il sistema non si aspetta nulla; la loro gioia non è liturgica o dottrinale, ma profondamente umana e, proprio per questo motivo, politicamente pericolosa, perché percepiscono che è accaduto qualcosa che non era stato previsto, qualcosa che non è stato autorizzato.

Mentre l’Impero proclama come «buona notizia» la nascita del Cesare e garantisce la pace attraverso la violenza organizzata, qui avviene una contro-proclamazione silenziosa che non gareggia in spettacolarità, ma in significato, affermando che la salvezza non verrà dall’alto, né sarà imposta per decreto, né sarà sostenuta con la forza, ma inizierà – se inizierà – dall’interno della storia ferita dei poveri, a partire dalla vita fragile che si ostina a esistere nonostante tutto. 

Questa nascita non annuncia una pace intesa come assenza di conflitto, ma inaugura un conflitto più profondo, perché mette in discussione la legittimità stessa di un ordine che si presenta come necessario; il Regno di Dio che qui inizia non ha bisogno di eserciti o di simboli di potere, perché la sua stessa esistenza svela la falsità della narrazione imperiale e mette in evidenza che il mondo potrebbe essere organizzato diversamente, che l’ingiustizia non è un destino e che la storia non è chiusa.

Ecco perché questo bambino nasce circondato dalla minaccia, perché il potere – anche se non comprende ancora la forma che assumerà questa vita – percepisce istintivamente il pericolo, poiché non teme tanto le idee quanto la vita che non può controllare; il Regno di Dio irrompe così come una frattura nel discorso ufficiale del mondo, come un’interruzione che non garantisce il successo, ma che stabilisce qualcosa di irrevocabile: Dio non è neutrale, Dio non si pone al di sopra del conflitto, Dio ha preso posizione nascendo dove nascono coloro che non hanno mai avuto un posto.

Questa nascita non è quindi un episodio sentimentale che prepara un messaggio successivo, ma l’intero programma condensato in una scena storica concreta: parzialità verso gli ultimi, delegittimazione del potere sacralizzato, centralità della vita minacciata e fiducia radicale che un altro mondo non inizia a partire dalla forza, ma dalla fragilità organizzata nella speranza; lì, e in nessun altro luogo, inizia la rivoluzione di Gesù.

* Articolo pubblicato il 19.12.2025 nel Blog dell’Autore in «Religión Digital» (www.religiondigital.com).
Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli