Di fronte ad una società e a delle anime che la compongono sempre più desertificate, aride, c’è ancora spazio per una speranza di rinascita?

di Maria Grazia Giordano
18 Dicembre 2025
Per gentile concessione di
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- Ginestra del deserto – Deserto del Negev (Israele)
La terza domenica di Avvento viene chiamata Gaudete (o domenica della gioia) dall’incipit della antifona di ingresso: “Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi. Il Signore è vicino!” (Fil 4, 4-5).
E’ dunque un invito forte ad essere gioiosi, e tale invito è ribadito da Isaia nella prima lettura: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca, canti con gioia e giubilo”. E’ interessante notare che, secondo il profeta, è il deserto che si deve rallegrare, non il giardino fiorito, la terra arida e non quella fertile. Quel deserto può ben rappresentare la vita degli esseri umani, definita “valle di lacrime” nella preghiera di origine medievale del Salve Regina e che ancora oggi, nell’epoca del trionfo della scienza e della tecnologia, tale sembra rimanere molto spesso per l’umanità.
Eppure, veniamo esortati a coltivare la gioia – ora, nel nostro presente e non nel futuro escatologico – che fiorisca come un narciso, fiore magnifico che sboccia alla fine dell’inverno e che annuncia la primavera. Il deserto dunque è luogo di fioritura, così come è il luogo dell’abitazione del più grande dei profeti, Giovanni Battista.
Quindi noi siamo chiamati a rallegrarci del nostro deserto che fiorisce, nonostante tutte le difficoltà e le amarezze dell’esistenza! Il luogo in cui possiamo accorgerci di questa fioritura è il nostro cuore, e molti sono gli autori che ci aiutano a riflettere su questo, a cominciare da sant’Agostino: “Non andare fuori, rientra in te stesso; nell’interiorità dell’uomo abita la verità” (De vera religione).
In una società dell’esteriorità, dell’apparire, del mostrarsi a tutti i costi, dobbiamo allora imparare a rientrare in noi stessi, a riconoscere la nostra anima come luogo intimo del contatto con noi stessi e con Dio: “Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un solo diamante o di un tersissimo cristallo, dove sono molte stanze, come molte ve ne sono in cielo. (…) Io non vedo nulla a cui paragonare la grande bellezza di un’anima e la sua immensa capacità; a stento possiamo capire qualcosa della grande dignità e bellezza dell’anima. Tutta la nostra attenzione si volge sulla rozza incastonatura di questo diamante o sul muro di cinta di questo castello, cioè il nostro corpo. Nel centro di questo castello, in mezzo a tutte le stanze, si trova la principale, che è quella nella quale si svolgono le cose di maggior segretezza tra Dio e l’anima” (Santa Teresa d’Avila).
Ecco, il “castello interiore” è il luogo spirituale in cui possiamo riscoprire noi stessi e coltivare una gioia profonda che permane nonostante i mali del mondo.
Un’altra donna straordinaria, Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che scelse volontariamente la deportazione nei lager dove morì nel 1943, ha sviluppato nei suoi diari una riflessione simile, per noi oggi estremamente preziosa: infatti Etty mantenne fino all’ultimo la sua serenità interiore, nonostante le terribili condizioni in cui si trovava: “C’è sempre una camera silenziosa in qualche angoletto del nostro essere e potremo pur occuparla di tanto in tanto. Non potranno certo privarci di quello spazio”.
Ecco, uno spazio interiore tutto nostro, che nessuno potrà mai toglierci, il luogo spirituale di cui ci parla tutta la tradizione monastica, in cui possiamo coltivare quella gioia profonda a cui siamo chiamati e che ci è stata regalata attraverso la morte e resurrezione di Cristo.
Sentirsi salvati, sentirsi amati, sentirsi benedetti: “La voce che ci chiama Amati ci darà le parole per benedire gli altri e rivelerà loro che non sono meno benedetti di noi” (Henri Nouwen).
Nel nostro luogo interiore possiamo percepire tutto questo e coltivare quella gioia che scaturisce dalla “buona notizia” che si fa carne per noi.