Rocca N° 1
del 1 gennaio 2026
Per gentile concessione di
https://rocca.cittadella.org/

Come i giovani sognano la loro Chiesa? Ma di ‘sogni’ si può ancora parlare? Nelle domande che i giovani rivolgono alla Chiesa, più o meno dissimulate, più o meno riconoscibili anche a quelli stessi che le pongono, si annidano importanti tracce di futuro, che delineano in positivo e in negativo il cristianesimo e la Chiesa di domani. La difficoltà principale – in cui inciampano anche molti operatori pastorali assolutamente benintenzionati – deriva proprio dall’aver l’impressione che una ‘domanda’ non ci sia. Tutti gli operatori, ma anche semplicemente gli osservatori attenti e coinvolti, ricordano che fino a circa 20-25 anni or sono i giovani erano più decifrabili, in positivo o in negativo. Come i giovani sognano la loro Chiesa: accogliente, vicina, gioiosa. Ma non hanno gli strumenti necessari per delineare il loro disagio, e meno ancora (in positivo) per esprimere i loro desideri e i punti di vista.

Forse quelli di una generazione fa – non parliamo per ora della generazione precedente, o della Chiesa del Concilio – erano più aperti e decisi nel dire ciò che suscitava la loro insoddisfazione. Forse più portati a ‘contestare’ (come si diceva con un termine già fuori moda allora, inadeguato e banale allora come sempre). Oggi può sembrare che di contestazione non ci sia nemmeno l’ombra. C’è un distacco silenzioso e sfiduciato che, proprio per questo suo modo di essere, sfugge quasi intera mente alle analisi e alle statistiche.

L’unico aspetto su cui quasi tutti concordano è il graduale uniformarsi dell’atteggiamento dei ragazzi e delle ragazze per quanto riguarda la vita di Chiesa, proprio nella sua quotidianità.

Venti-venticinque anni fa di solito i ragazzi – ora parliamo dei maschi – si distaccavano dalle strutture ecclesiali praticamente all’indomani della Confermazione; le ragazze si distaccavano pure, sia per fisiologico disinteresse sia per l’emergere di altri impegni prevalenti, ma in modo più sfumato e graduale, che non dava nell’occhio – o dava nell’occhio solo quando era già troppo tardi per operare aggiustamenti aggiustare il percorso. Oggi la tendenza a rompere i rapporti con la vita ecclesiale si delinea prima e coinvolge ragazzi e ragazze più o meno nella stessa misura.

Anche qualora il cammino di formazione rivolto a bambini e ragazzi in vista dell’iniziazione cristiana fosse in sé un’esperienza positiva (talvolta, anche se non sempre, è ricordata con piacere dai destinatari stessi), presenta comunque dei limiti importanti che sfuggono in buona parte alla responsabilità e alla consapevolezza degli operatori.

Il primo, in modi diversi, si ritrova in tutti gli ambienti che i giovani frequentano: il rifiuto dell’introspezione. È una carenza generazionale, potremmo dire, con poche eccezioni, ma non per questo meno grave.
Tanto più grave in quanto la nuova spiritualità di cui si avverte l’esigenza per una Chiesa ‘giovane’ di oggi, sarebbe in sintesi un viaggio interiore alla scoperta di sé.
Forse dipende anche dal fatto che i catechisti, in molti casi, non hanno ricevuto la formazione necessaria. Il secondo è la carenza di formazione biblica.
Il terzo è il fatto di ignorare o quasi tutto ciò che riguarda la vita fisica e i rapporti tra corpo e spirito.
Il quarto è lo sforzo di ignorare il problema della morte: a cui invece gli adolescenti pensano moltissimo ma in modo, di solito, non costruttivo né liberante.

QUATTRO ICONE DAI VANGELI

1. Il padre del ragazzo epilettico nel Vangelo di Marco (9, 14-27)

Si tratta di un episodio di guarigione; così potrebbe sembrare logico pensare che al centro si trovi proprio il malato. Invece, almeno nella prima parte, sembra che l’intervento di Gesù debba esercitarsi soprattutto sul padre (il figlio non si vede nemmeno). È il padre ad agire, a raccontare, a interpretare…

Le guarigioni, secondo i Vangeli, si trovano al centro dell’azione salvifica di Gesù. Invece nella fede della Chiesa (più ancora nelle Chiese riformate, forse, che nella Chiesa cattolica) vi è stata la crescente tendenza a collocare al centro la parola e la predicazione. Quando la tendenza comincia ad agire, parola e predicazione nella cultura occidentale erano da tempo razionalizzate, separate dalla corporeità: così, come risultato quasi inevitabile, nella Chiesa il corpo restò fuori. Invece nei Vangeli la salvezza riguarda sempre una persona: una totalità di animacorpo.

Tuttavia la salvezza non è un pronto soccorso celeste capace di rimettere a posto Regno ha sulla terra i suoi inizi, non il compimento pieno o la piena visibilità.

Alle parole di Gesù «Tutto è possibile a chi crede», il padre risponde: «Credo, aiuta la mia incredulità». Quando Gesù interviene in una situazione di sofferenza, di meno-vita, di non-vita, c’è sicuramente in lui un autentico moto di sollecitudine verso la persona a cui si rivolge, i suoi miracoli di guarigione sono anche gesti di amore e di solidarietà (è un aspetto che il Vangelo di Luca accentua in modo particolare), ma non possono ridursi a questo. Gesù cambia nel profondo la vita delle persone che incontra.

2. Il giovane ricco

La seconda icona evangelica è il giovane ricco che si incontra in tutti e tre i Vangeli Sinottici. Matteo però è l’unico a informarci sulla sua età giovanile.

Tutte e tre le versioni a una riflessione in gruppo o a una lectio si prestano in modo particolare. La versione di Matteo (19,16 30) ha colpito maggiormente l’attenzione dei lettori attraverso i secoli, proprio perché informa che si tratta di un giovane; Marco dal canto suo accenna a uno spontaneo moto di predilezione di Gesù nei confronti del giovane (“Fissandolo lo amò”), racconto molto utilizzato nella pastorale vocazionale. Da parte di Gesù, l’atto di fissare in volto la persona a cui si rivolge allude a una speciale chiamata. Questo interlocutore (continuiamo a chiamarlo “giovane”, per la forza dell’abitudine e anche per un quid di fervido e di entusiasta che sembra connotarlo) è senza dubbio una persona ottima sotto ogni punto di vista, privo di colpe e ricco di meriti oltre che di beni materiali: pratica la giustizia e osserva i comandamenti da sempre; e vuole sapere da Gesù che cosa deve fare per avere la vita eterna… Quindi è anche aperto a un “di più”; e tuttavia qualcosa gli manca. Quando Gesù lo invita a vendere tutti i suoi beni e darne il ricavato ai poveri, e poi a seguirlo, il giovane si allontana in silenzio, triste “perché aveva molti beni”. E ci chiediamo che cosa sono i suoi beni: forse non proprio le sue proprietà e le sue rendite, ma la sua stessa esemplare rettitudine, la sua rispettabilità. Spesso invece le persone chiamate da Gesù sono caratterizzate da qualcosa che non va. Non necessariamente una situazione di colpa, forse piuttosto di precarietà o di sofferenza o di emarginazione… Di questo giovane non sappiamo nulla più di quanto ne dice Matteo, ma il suo problema sembra proprio coincidere con la sua sicurezza e rispettabilità. Forse ne dipende più di quanto sia giusto, forse gli mancano la fragilità e l’esperienza del bisogno.

3. Zaccheo

La terza icona è offerta da Lc 9,1-10. L’episodio è riportato solo da Luca nel suo Vangelo. Zaccheo, il pubblicano di Gerico, è un uomo piccolo di statura (fisica e, se vogliamo, anche morale; inoltre è ricco, e questa è una notazione decisamente negativa per il terzo evangelista che mostra una forte predilezione per i poveri.

Ma Luca presenta Zaccheo anche come capace di entusiasmi generosi e spinto verso Gesù da una forza irresistibile.

Per un pubblicano è quasi impossibile essere una persona onesta, anche se lo desiderasse: il mestiere di esattore delle tasse non è retribuito, il guadagno è dato solo dal denaro in più che l’esattore riesce a estorcere alle sue vittime. Essere pubblicani significa essere odiati e disprezzati, anche perché la loro professione non si può certo esercitare con gentilezza, ma solo con la prepotenza e il ricatto; inoltre il pubblicano è un collaborazionista del nemico occupante, esercita il suo sgradevole mestiere alle dipendenze di Roma.

Zaccheo non chiede niente, vuole una cosa sola: “Vedere Gesù”. Anche a Gesù non chiede nulla, nemmeno perdono e misericordia. Come se “vedere Gesù” significasse perciò stesso la salvezza e la novità di vita.

Evidentemente è pentito della sua vita squallida, ma ciò non viene detto: questa reticenza è uno degli aspetti più efficaci del racconto. In Zaccheo non c’è nessuna lacrimosa retorica. E in Gesù non c’è nemmeno l’ombra del moralismo convenzionale. Zaccheo è convertito da Gesù senza esortazioni, senza minacce e senza promesse, senza catechesi penitenziali.

Gesù gli dice “Scendi, perché oggi devo fermarmi in casa tua” e in Israele condividere la mensa con persone ‘irregolari’, a qualsiasi titolo, significava essere coinvolti dalla stessa irregolarità.

Gesù lo fa spesso, come sappiamo. Il Vangelo non è in primo luogo un messaggio morale, anche se un rinnovamento morale ne deriva come logica conseguenza; è l’annuncio di una vita rinnovata. Di questa vita rinnovata Zaccheo, il pubblicano di Gerico, diventa il modello e il garante. Guarito da Gesù solo con la presenza e la commensalità, apparentemente senza nemmeno sfiorare i temi morali.

4. L’adultera (Gv 8,1-11)

Questo episodio è stato accettato tardi nel canone delle Scritture: lo troviamo nel Vangelo di Giovanni ma non è giovanneo (secondo la maggior parte degli studiosi è di tradizione lucana) e la sua lettura del peccato e della misericordia di Gesù è di una novità inaudita. Sottintende il rifiuto di una morale colpevolizzante, fatta di perbenismo e di ipocrisia, sottolinea la centralità della coscienza e dell’introspezione.

Le ragioni di questa soppressione sembrano soprattutto di ordine pedagogico-pastorale. È possibile che i pastori più rigoristi non vedessero di buon occhio la divulgazione di un episodio da cui risaltava da parte di Gesù una sovversiva indulgenza nei confronti di una donna accusata di adulterio (una donna della quale, per di più, in nessun luogo del racconto viene detto che fosse pentita). Ma questa pagina, in realtà, di adulterio non parla. Gesù in questa occasione sarà imprevedibile, sfuggente e provocante. Sembra comunicare il suo rimprovero e il suo insegnamento, almeno all’inizio, attraverso un apparente rifiuto della comunicazione.

Evangelicamente parlando, quelli che sono venuti a interrogarlo non sono semplicemente tradizionalisti o legalisti o ‘severi’, atteggiamenti tutti che, pur discutibili, possono essere vissuti a misura d’uomo. Il loro peccato di fondo è un altro: il fatto di non essere puri di cuore. L’ipocrisia infatti evangelicamente è il contrario della purezza. Cercano di raggiungere, per vie oblique e tortuose, un fine ben diverso da quello apparente. Gesù, che appare sempre accogliente e compassionevole verso i peccatori ‘schietti’, è invece severo fino alla violenza verbale – nei confronti dello stile ipocrita e tortuoso, della malizia che si ammanta di esemplarità. Il suo comportamento in questo caso è completamente diverso da quello che i suoi interlocutori possono attendersi. Non si lascia tirare in una discussione giuridica, non fa riflessioni morali di principio; non cerca attenuanti per l’accusata, non cerca affatto di persuadere (razionalmente) quelli che lo interpellano, non li rimprovera, all’inizio nemmeno li guarda, è come se non avesse udito.

Il gesto che compie in questa occasione è effettivamente enigmatico e costituisce un unicum nei Vangeli: chinato, scrive col dito in terra. Lo strano gesto viene rilevato non una ma due volte, quindi deve avere importanza per l’evangelista. Non c’è lettore di questa pagina che non si sia domandato che cosa mai Gesù abbia scritto.

All’insistenza di quelli che lo interrogano, risponde: il suo intento è scuotere le coscienze, non però rifiutare la comunicazione. Risponde con una frase enigmatica che, rimasta famosa e divenuta proverbi le, non ha per questo perduto la sua carica di enigma e di vibrante provocazione, arricchita da un risvolto di ironia. “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei”. Gli uomini potenzialmente omicidi che lo stanno interrogando devono capire quanto vi è di sovversivo nella sua mitezza. Gesù qui sta risvegliando la coscienza, sta facendo appello all’interiorità. Un giudizio deve effettivamente avvenire; ma nell’intimo del cuore di ciascuno.

Prima con il suo silenzio e con lo strano gesto di scrivere in terra che ci ricorda i gesti simbolico-dimostrativi dei profeti, poi con le parole, la risposta di Gesù è essenzialmente un invito a guardarsi dentro, un appello all’interiorità.

I significati più profondi dell’episodio non sono il peccato (su cui si sorvola) né il pentimento, che forse può esservi stato e forse no. Anche di questo non si dice nulla. Il messaggio di fondo riguarda l’interiorità personale, il discernimento, la vita nuova che Gesù è venuto a portare. Incontrando Gesù, sia questa donna sia gli uomini che volevano condannarla hanno incontrato la misericordia di Dio.