Fra tradizione e cambiamento, una controversa pratica “matrimoniale” racconta di sopravvivenza, privazione e resistenza. Nyumba ntobhu: così è detta la pratica ancestrale che prevede il matrimonio di una donna con un’altra donna per garantire continuità familiare e sicurezza economica. Un tempo considerata un’ancora di salvezza, oggi è messa in discussione dalle nuove generazioni

di Stefano Stranges
14 Dicembre 2025
Per gentile concessione di
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Nel cuore della regione del Mara, in Tanzania, presso le sponde del Lago Vittoria, il tempo sembra scorrere con la lentezza di un’epoca antica, scandito dal ritmo delle stagioni e dalle tradizioni che regolano da secoli la vita delle comunità locali. Qui, tra distese di campi di manioca e case di fango e paglia, la modernità avanza con passi incerti, scontrandosi con pratiche culturali profondamente radicate. Tra queste, il nyumba ntobhu, il cosiddetto “matrimonio tra donne”, rappresenta una delle usanze più peculiari e resistenti. L’espressione swahili significa letteralmente “casa senza un uomo” e descrive un’istituzione sociale che, sebbene oggi sempre più rara, continua a offrire un’alternativa di sopravvivenza per molte donne. In passato, era una tradizione ampiamente accettata, e considerata un mezzo legittimo per garantire la continuità del lignaggio familiare, specialmente per le donne sterili o vedove.

In queste unioni, una donna più anziana e infertile “acquista” una sposa più giovane e fertile, spesso in cambio di bestiame, assumendo di fatto il ruolo sociale del marito. La moglie giovane concepisce figli attraverso relazioni con uomini esterni alla famiglia, i quali, tuttavia, non rivendicano alcun diritto paterno. Il legame tra le due donne non è di natura romantica né fisica: la partner più anziana diventa la figura genitoriale principale, assumendo il pieno controllo sui bambini e garantendo la trasmissione del patrimonio familiare.

Tempi che cambiano

Per molte donne, questo sistema ha rappresentato una forma di sicurezza e stabilità sociale in un contesto dove il matrimonio tradizionale può essere segnato da violenza domestica e discriminazione di genere. Tuttavia, se un tempo il nyumba ntobhu era una necessità accettata e diffusa, oggi il cambiamento sociale e le nuove generazioni ne mettono in discussione la validità e i limiti. Nonostante la sua funzione protettiva, questa pratica impone restrizioni significative alle donne coinvolte. Per la sposa più giovane, il matrimonio non è una scelta dettata dall’amore né dall’attrazione, ma una decisione imposta dalla necessità. Il suo ruolo si riduce alla procreazione e alla crescita dei figli, senza alcuna possibilità di autodeterminazione. Il futuro di queste donne è spesso segnato dalla dipendenza economica e dalla subordinazione alla partner più anziana, che alla sua morte le lascia in eredità la terra e i beni familiari, ma raramente una reale autonomia, come testimoniano le storie di vita raccolte.

Attraverso i villaggi del distretto di Butiama, il nyumba ntobhu sopravvive nelle storie di donne che hanno trovato rifugio in questa tradizione, sfuggendo a relazioni segnate da abusi o alla marginalizzazione sociale. Alcune vedono in questa unione un’opportunità di emancipazione, altre ne vivono il peso come una prigione. Vi sono casi in cui il matrimonio tra donne si è trasformato in una convivenza solida e duratura, ma nella maggior parte delle situazioni la realtà è più complessa: una lotta tra l’adattamento al cambiamento e il rispetto per un sistema culturale che, sebbene arcaico, ha garantito per generazioni un’alternativa di sopravvivenza.

Oggi, con l’espandersi dell’istruzione e l’aumento delle opportunità economiche per le donne tanzaniane, il nyumba ntobhu si trova in bilico tra declino e trasformazione. Le giovani generazioni sono meno propense ad accettare un destino predeterminato, molte donne rivendicano il diritto a scegliere il proprio percorso di vita. Tuttavia, nei villaggi più lontani dall’influenza delle città, questa pratica continua a resistere, testimoniando la complessità dell’equilibrio fra tradizione e cambiamento in una società in evoluzione.

Una vita di scelte imposte

Wangombe è seduta all’ombra di un’acacia, nel cortile della sua casa di fango e paglia. È nata nel 1964 e porta i segni della poliomielite che l’ha colpita da bambina. Il suo primo matrimonio si ruppe presto: malata e incapace di lavorare nei campi, venne rispedita alla sua famiglia, dove visse anni di marginalizzazione e povertà. «Non avevo altra scelta», dice Wangombe con voce calma e decisa. «Volevo che il nome della mia famiglia continuasse, volevo qualcuno che mi aiutasse». Nel 2013, dopo anni di isolamento, decise di prendere Chausiku come moglie. La scelta non era dettata dall’amore, ma dalla necessità. Chausiku ha dato alla luce diversi figli, ma senza alcun diritto su di loro da parte del loro padre biologico: nel sistema nyumba ntobhu, i figli appartengono alla famiglia della madre.

A pochi chilometri da qui, Joyce si racconta seduta su una stuoia, mentre il sole si abbassa all’orizzonte. Venduta dalla sua famiglia per sei mucche nel 1991, ha trascorso più di trent’anni in una unione nyumba ntobhu con Angeline Wakuru, un’anziana che la scelse per garantire la continuità del proprio cognome. Ha avuto dieci figli dallo stesso uomo, ma dopo la morte di Angeline, nel 2024, l’intera responsabilità della famiglia è ricaduta su di lei. «Qui tutto dipende da me», dice Joyce, indicando i bambini che la circondano. Tra loro ce n’è una più difficile da gestire, affetta da problemi mentali. «Quando piove, non vuole rientrare in casa. Non riesco a controllarla quando la natura esplode». Nei suoi occhi si legge la fatica di una madre sola, ma il sistema sociale circostante non lascia grandi alternative.

Il peso della tradizione

Marysiana ha 42 anni e una storia amara da raccontare. «Mio padre mi ha ingannata», dice senza nascondere il risentimento. Credeva di poter studiare, diventare infermiera, ma un giorno, nel 2001, si ritrovò venduta per sei mucche e data in sposa a una donna molto più grande di lei. «Non lo sapevo. L’ho scoperto quando era troppo tardi». Picchiata, costretta a stare con uomini scelti dalla sua “donna-marito”, dopo quattro anni scappò. Tornare dalla famiglia non fu facile: la rifiutarono più volte prima di accettarla di nuovo. Oggi vive con tre figli, avuti da uomini sposati, e cerca di costruirsi una vita lontano da un passato che non ha scelto. Ma non tutte le storie sono di dolore e fuga. Magdalena Mukami e Bhoke Wambura si sono sposate con una grande cerimonia, tra danze e canti. «Ci vogliamo bene», dice Magdalena. «Siamo insieme da tanti anni, amiamo la musica e la danza, e ci aiutiamo». La loro unione sembra sfuggire alla logica dell’imposizione e rispecchiare un legame più profondo. Ma sono un’eccezione, non la regola.

Futuro in bilico

Nel villaggio di Kitaramanka, Nyabagendi Nyansiong’o, oggi settantenne, osserva il tramonto dalla sua veranda di fango. Si sposò a 16 anni con una donna perché sua madre aveva fatto lo stesso. Ha avuto tre figli da uomini diversi, ma solo Mossi è sopravvissuta. Mossi ha seguito lo stesso percorso, ma ora, a 48 anni, è rimasta da poco vedova e confessa: «Non ho più nessuno accanto a me. Avrei voluto fare una scelta diversa. Ma ho dovuto sottostare alle regole. Non ho mai avuto la possibilità di studiare. Da bambina passavo il tempo a lavorar nei campi, coltivando patate e manioca».

Sua madre ora si dice pentita di averla forzata a un matrimonio nyumba ntobhu. Mossi non è la sola a ripensare alle proprie scelte. Magret, nel villaggio di Mwibaghi, è stata ingannata: pensava di sposare il figlio di Matinde, invece era destinata all’anziana madre. «Fui data in sposa per 19 mucche», racconta. «Io avevo compiuto da poco i 18 anni mentre la mia sposa era molto più vecchia di me». Ha avuto nove figli, tutti partoriti nel periodo di matrimonio con l’anziana donna. di cui sei avuti da quattro uomini diversi, tutti scelti da lei, mentre gli altri sono del figlio di Matinde. Nonostante tutto è rimasta e ha cresciuto i suoi bambini. Ma ora che Matinde non c’è più, il peso della sopravvivenza grava su di lei. «Ho vissuto una vita che non mi apparteneva. Ora è troppo tardi per cambiare». Al mercato vende una bevanda alcolica locale chiamata toqwa, fatta con il miglio del suo orto. «Da bambina sognavo di diventare insegnante, ma a causa del contratto che stipulò mio padre sono rimasta sempre una wife priva di diritti e di possibilità di crescita personale», conclude Magret. «E neanche ora che sono vedova posso aspirare a una vita normale: non mi è concesso sposarmi con un uomo».

Declino o evoluzione?

In Tanzania, l’omosessualità è perseguita per legge e, nelle grandi città lontane centinaia di chilometri da questa regione, la maggior parte delle persone ignora persino l’esistenza del nyumba ntobhu. Chi ne ha sentito parlare lo considera un retaggio del passato, e lo stesso desidererebbero molte nei villaggi rurali della zona. «È una tradizione che deve finire», ripetono senza esitazione tutte le donne intervistate per questo reportage. Le autorità locali, pur continuando a tollerare la pratica – presente, secondo le stime, nel 10% delle comunità rurali –, cercano al contempo di promuovere campagne di sensibilizzazione per indurre le famiglie ad abbandonarla.

Per secoli, il nyumba ntobhu ha rappresentato un meccanismo di protezione per donne escluse dalla società: vedove, sterili o semplicemente prive di alternative. Offriva loro la possibilità di avere figli senza subire le imposizioni di un matrimonio patriarcale e garantiva ai bambini un’eredità sicura. Oggi, però, molte giovani non vedono più questo sistema come un’opportunità, ma come una prigione. L’accesso all’istruzione e i cambiamenti sociali stanno lentamente erodendo questa pratica. Alcune ragazze riescono a sottrarsi a questo destino, altre trovano sostegno in organizzazioni locali impegnate nella tutela dei diritti delle donne.

Eppure, nelle aree rurali il nyumba ntobhu resta una realtà ancora difficile da sradicare. Mossi Wanbula – costretta a “sposare” un’altra donna quando aveva 17 anni – ora vorrebbe viaggiare, vedere altri luoghi, ma non può. Deve sfamare i suoi otto figli, lavorare i campi senza sosta. La responsabilità della famiglia la tiene ancorata alla sua terra, a una vita che non ha scelto del tutto. «Avrei voluto sposare un uomo», dice, «ma mia madre credeva che fosse questa la via migliore per me, era convinta che mi avrebbe reso felice». Nel distretto di Butiama, tra i villaggi di fango e i campi di manioca, il passato e il futuro si scontrano. Il nyumba ntobhu non è solo un’istituzione sociale, ma il riflesso di una cultura che, pur affrontando le sfide della modernità, cerca di preservare le sue radici. Certo il nyumba ntobhu va scomparendo, ma non senza lasciare cicatrici profonde nelle vite di chi lo ha vissuto.