IV Domenica di Avvento (A)
Matteo 1,18-24
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
(Letture: Isaia 7,10-14; Salmo 23; Romani 1,1-7; Matteo 1,18-24)

Giuseppe, il giusto con gli stessi sogni di Dio
Ermes Ronchi
Tra i testimoni d’Avvento, tra coloro che rendono, «testimonianza alla luce» (Gv 1,7.8) e ci accompagnano al Natale, entra Giuseppe, uomo giusto che sogna e ama, non parla e agisce.
Prima che andassero a vivere insieme Maria si trovò incinta. Sorpresa assoluta della creatura che arriva a concepire l’inconcepibile, il proprio Creatore. Qualcosa che però strazia il cuore di Giuseppe, che si sente tradito. Ed entra in crisi: non volendo accusarla pubblicamente pensò di ripudiarla in segreto. Vive il conflitto tra la legge di Dio che ribadisce più volte: toglierai di mezzo a te il peccatore (cfr Deut 22,22) e l’amore per quella giovane donna.
Giuseppe è innamorato di Maria, non si dà pace, continua a pensare a lei, a sognarla di notte. Ma basta che la corazza della legge venga appena incrinata, scalfita dall’amore, che lo Spirito irrompe e agisce.
Mentre stava considerando queste cose, ecco che in sogno un angelo… Giuseppe, mani indurite dal lavoro e cuore intenerito e ferito, non parla ma sa ascoltare i sogni che lo abitano: l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. Giuseppe fece come gli aveva detto l’angelo, sceglie l’amore per Maria, perché «mettere la legge prima della persona è l’essenza della bestemmia» (Simone Weil). E in questo modo è profeta che anticipa e prepara le scelte che farà Gesù, quando infrangerà la legge del sabato per guarire il dolore dell’uomo. Eccoli i giusti: «la nostra unica regola è l’amore; lasciare la regola ogni volta che essa è in contrasto con l’amore» (sorella Maria di Campello) Maria lascia la casa del sì detto a Dio e va nella casa del sì detto a un uomo, ci va da donna innamorata, con il suo cuore di carne, in tenerezza e libertà.
Maria e Giuseppe, poveri di tutto ma non d’amore, sono aperti al mistero proprio perché se c’è qualcosa sulla terra che apre la via all’assoluto, questa cosa è l’amore, luogo privilegiato dove arrivano angeli. Il cuore è la porta di Dio.
Giuseppe prende con sé Maria e il bambino, quel figlio che non ha generato, di cui però sarà vero padre perché lo amerà, lo farà crescere, lo farà felice, gli insegnerà il mestiere di uomo, e a sognare, e a credere nell’amore. Giuseppe non ha sogni di immagini, ma sogni di parole. Un sogno di parole è offerto anche a tutti noi: è il Vangelo. E sono offerti angeli: in ognuna delle nostre case Dio manda i suoi messaggeri, come in quella di Maria; invia sogni e progetti, come in quella di Giuseppe. I nostri angeli non hanno ali, sono le persone che condividono con noi pane e amore; vivono nella nostra casa ma sono messaggeri dell’invisibile e annunciatori dell’infinito: angeli che nella loro voce portano il seme della Parola di Dio.
Avvenire 2016
Accogliere
Clarisse Sant’Agata
Il brano del vangelo di Matteo che ci viene donato in questa ultima Domenica d’Avvento che ci apre sul Santo Natale, è strettamente collegato al brano precedente dove si ricorda la genealogia di Gesù. Matteo per annunciare chi è Colui che viene, inizia raccontando tutta la storia di Israele fino ad arrivare a Giuseppe lo sposo di Maria: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.» (Mt 1,16).
A questo uomo del popolo di Israele verrà chiesto di assumere la paternità di Gesù dandogli il nome: «tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati.» ( Mt 1,21), incarnazione di Dio che non solo cammina con il suo popolo, ma che viene ad abitare dentro la nostra storia.
Il brano del Vangelo inizia con il turbamento di Giuseppe il quale non sa cosa deve fare con Maria essendo rimasta incinta prima del matrimonio. E’ combattuto perché per la legge dovrebbe ripudiarla, ma essendo un uomo giusto non lo vuole fare quindi decide di ripudiarla in segreto: «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.» ( Mt 1,19). Ed ecco che dentro a questa confusione, turbamento, interviene l’angelo dicendo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» ( Mt 1,20).
Anche Maria fa l’esperienza di un turbamento infatti di lei si dice: «A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.» ( Lc 1,29). Anche per lei dentro a questa confusione, terremoto che avviene nel suo cuore, entra l’angelo dicendo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.» ( Lc 1,30).
Un altro brano del Vangelo dove incontriamo l’annuncio dell’angelo e l’esperienza del turbamento è quella dei pastori dove si dice: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.» ( Lc 2,10-11).
Dentro a questo « buio» di Giuseppe viene a lui una luce che gli permette di vedere meglio. Lo viene a visitare un angelo che lo accompagna dentro all’annuncio che è stato fatto a Maria e allo stesso tempo anche a lui, e in questo cammino in cui impara sempre più ad abbandonarsi all’opera di Dio, gli viene affidata la sua «missione»: essere padre di Gesù e custode di Maria e del bambino che egli è chiamato a prendere con sé: «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù».
Questo annuncio che viene donato a Giuseppe non provoca uno stupore solo nel suo cuore, ma anche nel cuore di ogni uomo che si lascia raggiungere dalla Buona notizia del Vangelo. Si tratta di un mistero troppo grande per noi: Dio che scende, si fa piccolo e abita nel grembo di una donna. Per entrare dentro a questo avvenimento l’umanità ha bisogno di lasciarsi condurre, come Maria e Giuseppe non hanno posto resistenza a farsi guidare dall’angelo nel loro cammino di comprensione e accoglienza della volontà di Dio.
La presenza di Giuseppe è fondamentale perché si compia in pienezza la venuta nella carne del Figlio di Dio. Al Padre nel mistero dell’incarnazione, occorre anche Giuseppe, la sua umanità, il suo essere figlio del popolo eletto, che accolga questa venuta e dia un nome al bimbo di Betlemme.
Con l’annuncio dell’angelo a Maria si è stravolta la vita di questa coppia che stava costruendo il proprio futuro. Non basta il grembo di Maria, ma serve il si anche di Giuseppe per dare una famiglia al Figlio di Dio affinchè possa venire ad abitare in mezzo a noi.
L’umanità si è fatta grembo accogliente a partire da un annuncio che porta ad una vita nuova, «altra», anche se stravolge l’ordinario della vita e le proprie vie.
L’unico che in questo Vangelo parla è l’angelo del Signore, la figura di Giuseppe è particolare: presente, ma silenziosa. Giuseppe è colui che sa ascoltare e mettere in pratica: «destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa ( Mt 1,24) : questa è la risposta di Giuseppe all’angelo.
Giuseppe non pone neppure una domanda, ma si lascia travolgere, trasformare da quella parola che annuncia la vita. Ed è questa vita che sta per nascere che fa muovere Giuseppe, gli permette di saper accogliere, prendere come sposa Maria e come figlio il bambino che la abita. Prendendo come sposa Maria, dicendo si a lei quest’uomo dice si al dono di Dio per tutta l’umanità.
«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi.»: questo è l’annuncio che oggi ci viene fatto. Dio cammina dentro la nostra storia, la abita e la ama. Noi davanti a questo annuncio, dentro a questo mistero siamo chiamati a divenire grembo accogliente, permettendogli di abitare in noi, anche se questo ci stravolgerà la vita o forse potremmo dire, vi ridarà il suo vero senso.
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Un uomo come Gesù solo Dio ce lo poteva dare
Enzo Bianchi
Brevi note sulle altre letture bibliche
Isaia 7,10-14
Il profeta Isaia inizia il suo ministero dopo la vocazione e la missione ricevute nel tempio nel 740 a.C. (cf. Is 6,1-13). Si reca dal re Acaz, in una situazione di crisi politica, e gli chiede di non temere e di confidare nel Dio di Israele, perché solo chi crede può restare saldo (cf. Is 7,4-9). Poi lo invita a chiedere un segno al Signore, per poter credere. Di fronte al rifiuto del re, è il profeta stesso a promettere un segno di salvezza da parte del Signore: “Una giovane donna concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Immanu-El”, Dio-con-noi. La nascita di un bambino sarà dunque segno e pegno che Dio è con noi, con il suo popolo santo. Il brano evangelico odierno cita questa profezia.
Lettera ai Romani 1,1-7
L’inizio della Lettera ai Romani è teologicamente densissimo: “Paolo” è “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo”. Cosa contiene questa buona notizia? Ciò che era stato promesso dai profeti nelle sante Scritture si è compiuto con la venuta del Figlio di Dio nel mondo, “nato dalla discendenza di David”, dunque uomo fragile e mortale, ma “costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti”. Ecco tutto il Vangelo: Gesù è nato come uomo, è vissuto come uomo fino alla morte, ed è stato risuscitato dai morti, divenendo il Vivente, il Signore per sempre. Il brano evangelico odierno illustra come Gesù è discendente di David, il Re Messia.
Matteo 1,18-24
L’Avvento sta per concludersi e dopo tre settimane nelle quali l’attesa era indirizzata alla parousía, alla manifestazione finale del Veniente, il Figlio dell’uomo nella sua gloria, ora inizia un tempo di memoria: ricordiamo eventi del passato, la preistoria del Messia, facciamo memoria di come il Figlio di Dio è venuto nel mondo, perché proprio questi eventi fondano la nostra attesa della venuta gloriosa di Cristo. Si faccia pertanto attenzione: non attendiamo il Natale, evento già avvenuto che possiamo solo ricordare, ma confessiamo la nostra fede nel Signore Gesù anche nel suo venire nel mondo, confessiamo il mistero centrale della nostra fede, l’incarnazione, nelle tappe e negli eventi che hanno manifestato il disegno di salvezza di Dio.
Qual è dunque la ghénesis (cf. anche Mt 1,1), l’origine di Gesù? Così la racconta Matteo: c’è una ragazza di Nazaret di Galilea, Maria, promessa sposa di Giuseppe. Questa era l’usanza nelle nozze ebraiche: venivano stipulate con il fidanzamento, ma a volte passava un certo tempo tra l’impegno matrimoniale e la convivenza dei due sposi, soprattutto se in età adolescenziale. In questo tempo in cui Maria e Giuseppe non convivono ancora insieme e quindi non consumano le loro nozze, accade ciò che è umanamente inaudito: Maria si trova incinta, il suo grembo è fecondato, vi è in lei un figlio che attende di venire alla luce. Cosa significa questo fatto? Diciamolo subito: quel Figlio solo Dio può darlo, e l’azione creatrice di Dio è all’opera in Maria. Non il caso né la necessità, il destino, presiedono a quella gravidanza, ma la volontà di Dio stesso, che vuole essere “veniente” tra gli umani. Ecco la genesi di Gesù di Nazaret:
una donna, Maria,
lo Spirito di Dio che agisce in lei come Spirito creatore che “cova sulle acque”
(cf. Gen 1,2, versione siriaca)
e un uomo che appare come un testimone.
L’evangelista Matteo non si interessa né alla reazione psicologica di Maria né a quella di Giuseppe, ma vuole metterci di fronte a una situazione reale, pur nell’aporia: Maria è incinta senza aver conosciuto uomo e Giuseppe ignora cosa possa essere accaduto. Quest’ultimo è presentato come uno tzaddiq, ossia un giusto, un credente, e venuto a conoscenza della situazione di Maria pensa di sciogliere il vincolo nuziale, senza dire nulla pubblicamente, per non svergognarla. Difficile per noi decifrare cosa muoveva Giuseppe ad assumere tale decisione, e va detto che i commenti al riguardo, anche quelli dei padri della chiesa, sono incerti, a volte persino ridicoli. Secondo alcuni egli vorrebbe applicare la legge sull’adulterio, ma senza giungere alla violenza (cf. Dt 22,23-24); secondo altri è ferito e deluso… Più semplicemente, si può pensare che Giuseppe, accolta la spiegazione fornitagli da Maria, essendo pieno di timore di Dio, pensa di fare un passo indietro, per non vantare nessun diritto su quel bambino che Maria dice venire da Dio: di fronte alla paternità di Dio, Giuseppe rinuncia alla propria!
Quell’aporia può essere risolta solo da una rivelazione, dall’alzare il velo da parte di Dio con la sua parola. Ecco dunque l’angelo, il messaggero del Signore, che si fa presente a Giuseppe mentre egli dorme, in un sogno, mezzo attraverso il quale nell’Antico Testamento Dio ha più volte rivelato la sua volontà e la sua azione (come a uno dei figli di Giacobbe, Giuseppe, l’uomo dei sogni: cf. Gen 37,5-11). Il messaggero di Dio si rivolge a Giuseppe ricordandogli la sua identità, che contiene anche una missione: “Giuseppe, tu che sei figlio di David, che hai un posto nella discendenza messianica, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Questa parola del Signore chiede a Giuseppe obbedienza, gli chiede di essere sposo di una sposa che gli dà un figlio come Dio l’ha promesso nella discendenza di David a tutto il popolo santo. Giuseppe deve accettare questa spogliazione del suo essere sposo e saper vivere una paternità non sua: paternità che eserciterà dando al figlio il nome Jeshu‘a, Gesù, che indica la sua missione di salvezza, dunque di perdono dei peccati (cf. Lc 1,77). Giuseppe è invitato a diventare padre, a sentirsi padre di un figlio che non viene dal suo desiderio, dalla sua decisione, ma soltanto da Dio: sarà padre di Gesù secondo la Legge e tale sarà chiamato dai suoi conoscenti che non conoscono le profondità del mistero (cf. Lc 4,22). Giuseppe deve esercitare la sua qualità di figlio di David su colui che è il Figlio di David promesso e acclamato (cf. Mt 21,9).
Di fronte a questo racconto di miracolo, gli uomini e le donne di oggi sono tentati di restare esitanti, di leggerlo come un mito, ma con sguardo puro dovremmo giungere a capire ciò che in profondità vuole comunicare alla nostra fede. Più che la forma narrativa, dobbiamo cogliere l’intenzione dell’evangelista, che è questa: far comprendere al lettore che un uomo come Gesù solo Dio ce lo poteva dare, che è stato Dio a inviarlo; anzi, se Gesù era in forma di Dio e si è spogliato con l’umanizzazione (cf. Fili 2,6-7), allora è veramente il frutto della volontà di Dio e dell’acconsentimento dell’umanità a questo “meraviglioso scambio” (antifona dei primi e secondi vespri della solennità di Maria SS. Madre di Dio, 1° gennaio), a queste nozze. Come dire che Gesù era in relazione con Dio, che era la presenza di Dio tra gli uomini? L’unzione dello Spirito santo che feconda il grembo di Maria appare un racconto adeguato per fondare la fede.
A Giuseppe, dunque, non è data innanzitutto una “rivelazione” sul Figlio, ma una “vocazione”: come a Osea fu chiesto di sposare una prostituta, a Geremia di restare celibe, a Ezechiele di restare vedovo, a Giuseppe è chiesto di accogliere come figlio Gesù, un figlio che in verità non è suo figlio, ma Figlio di Dio. Così Giuseppe dà alla sua sposa Maria non solo una casa, ma anche un casato, quello di David, permettendole di entrare nella discendenza messianica, di compiere la promessa di Isaia e di imporre al figlio il Nome che contiene in sé anche una missione. Per questo Matteo annota: “Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: ‘Ecco, la vergine – termine che viene dalla versione greca dei LXX, mentre l’ebraico dice, alla lettera, “una giovane donna, una ragazza” – concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi’ (Is 7,14)”. Quando Giuseppe si sveglia, senza fare alcuna obiezione, “fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, diede alla luce un figlio che egli chiamò Gesù”. Giuseppe era stato definito “giusto”: ora lo conosciamo come credente e obbediente alla parola del Signore nel silenzio. Le vocazioni sono diverse: c’è chi è chiamato da Dio a fare la sua volontà proclamando, annunciando, addirittura gridando (come il Battista, cf. Mt 3,3 e Is 40,3); e c’è chi è chiamato a eseguire, a fare concretamente, in un abisso di silenzio. Nei vangeli non ci è testimoniata alcuna parola di Giuseppe, ma di lui sono attestati l’obbedienza e il silenzio: non mutismo, ma silenzio di adorazione, di custodia, di approfondimento del mistero.
Questa pagina può essere per noi un grande insegnamento: ci dice infatti che Dio può sorprenderci e che quando, secondo la nostra giustizia davanti a lui, abbiamo elaborato e deciso un tragitto, il Signore può improvvisamente chiederci di mutare direzione e cammino, verso un orizzonte che ci resta oscuro. È l’ora di obbedire mettendo un passo avanti all’altro, sicuri che “camminando si apre cammino” (Antonio Machado) e che il Signore solo ci precede. Questo deve bastarci.
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Missionari che vivono e annunciano con gioia le meraviglie del Natale
Romeo Ballan, mccj
Dopo 2000 anni, la festa di Natale continua a stupirci – (da 2000 anni, ma senza fare archeologia o visita a un museo!…) perché Natale è sempre nuovo, è come il primo, è la festa della vita. È la festa di quando il cuore di Dio cominciò a battere in carne umana. Per la gioia e la salvezza di tutti! Da allora “caro salutis est cardo” (la carne è il cardine della salvezza), come diceva già Tertulliano (3° secolo): la salvezza di Dio passa attraverso la carne di Cristo, l’unico Salvatore. L’invito è a vivere il Natale con lo stupore dei primi protagonisti: Maria e Giuseppe (Vangelo), gli angeli, i pastori e i magi. Vivere la verità del Natale è un dono che ci colloca nella realtà delle cose! Aperti alla novità delle sorprese di Dio. Lungi dall’indifferenza di chi vive alienato nelle cose; senza l’autosufficienza di chi si proclama non credente; e senza essere prigionieri di abitudini e chiusure. Nel suo libro “Gimpel l’idiota” l’ebreo Isaac Singer (premio Nobel per la Letteratura 1978), racconta che una notte venne il Messia, ma tutti avevano chiuso porte e finestre. Compreso il rabbino e altri saggi… L’unica porta aperta era quella di Gimpel, che tutti chiamavano idiota, per il suo modo un po’ sognatore di vivere. Ma proprio nella sua casa entrò e si fermò il Messia.
Il Dio che viene è l’Emanuele, già annunciato da Isaia (I lettura, v. 14) e dal Vangelo di Matteo, il “Dio con noi” (v. 23). Il Dio che ha deciso di essere presente nella storia di ogni persona, di camminare con ognuno di noi. Vivere il Natale così, aperti e coinvolti nella sorpresa di un Dio innamorato perdutamente di noi, non ci lascia inerti, ci porta all’annuncio missionario presso chi non sa ancora nulla – o molto poco – di questa storia vera ed appassionante. Natale quindi è un modo di essere, è un messaggio importante da portare ad altri. Così lo visse anche San Daniele Comboni, quando, durante il suo primo viaggio verso il centro dell’Africa, andò pellegrino a Betlemme nel 1857, e lì si sentì pervaso dalla grandezza di quel mistero: “Baciai mille volte quel luogo. Baciai quasi tutta la grotta; né sapea distaccarmi…” (Scritti, n. 113).
Così lo comprese S. Paolo (II lettura), che, da quando ebbe la sorpresa di incontrare Cristo, si arrese completamente a Lui e ne divenne il più grande missionario. Ce lo dice chiaramente nell’esordio della lettera che scrisse ai cristiani di Roma. “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio…” (v. 1,1). Qui Paolo presenta ai Romani la sua carta d’identità con credenziali di tutto rispetto, che riassume in tre parole: servo, apostolo, scelto. È anzitutto servo di Cristo Gesù: è lieto di sentirsi posseduto da Lui, ne è appassionato, ne parla a tutti sempre, lo nomina ben 4 volte anche nei pochi versetti iniziali della lettera. Ha coscienza di essere apostolo, quindi inviato: la missione non nasce e non dipende da lui, ma da Uno più grande, di cui egli è solo servo. Finalmente, Paolo considera una grazia l’essere apostolo, scelto “per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti” (v. 5). La missione è un dono, prima di essere un compito da adempiere; è un carisma che arricchisce chi lo riceve e lo abilita per un servizio alla comunità.
Nelle sue lettere Paolo riprende spesso e commenta ognuno di questi tre titoli. Egli si sente missionario di Cristo nella ricchezza sorprendente del Suo mistero: promesso per mezzo dei profeti, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio in virtù della risurrezione dei morti… (v. 2-4). Paolo si è sentito scoperto da Cristo, amato, salvato, mandato alle genti pagane per annunciare loro “le imperscrutabili ricchezze di Cristo” (Ef 3,8). Sulla strada di Damasco non è nato solo il Paolo cristiano, ma anche l’apostolo, il missionario. Non ha cambiato vita per una decisione etica, volontarista, né per seguire un’ideologia di moda. Ma solo perché ha incontrato Cristo, che gli ha cambiato definitivamente la vita, aprendogli gli orizzonti infiniti della missione. Paolo è un esempio per ogni cristiano e per ogni missionario!
L’avvento è il tempo per fare spazio a Gesù che viene, senza lasciarci distrarre dalle cose esteriori (regali, spese, viaggi…) Il Natale di Gesù ha bisogno di persone che Lo accolgano nella loro vita e di messaggeri che Lo annuncino come gli angeli a Betlemme: per arrivare ai lontani che ancora non Lo conoscono, a quelli che si sono allontanati, a quelli che hanno sbagliato strada… Siano essi vicini a noi o lontani. È un compito urgente e appassionante, al quale siamo chiamati tutti!Ciascuno secondo la sua condizione.
IV Avvento: Gesù, il “Dio con noi”
Fernando Armellini
Il figlio della vergine Maria ha un doppio nome: quello usato dai suoi contemporanei – Gesù, colui che libera dai peccati – e quello che gli attribuisce l’evangelista Matteo – Emmanuele, Dio con noi.
La prima grande eresia venne introdotta da un brillante dialettico del IV secolo, Apollinare di Laodicea: sosteneva che Gesù aveva sì un corpo umano, ma non un’anima come la nostra. Temeva che, accordandogli una piena umanità, ne uscisse offuscata la sua divinità. Gli faceva un grave torto: lo allontanava dal nostro mondo, dalla nostra condizione; gli sottraeva il secondo nome, quello di Emmanuele.
Nell’espressione di Giovanni la Parola si è fatta carne (Gv 1,14), il termine carne non indica solo la corporeità, ma tutto l’essere umano inteso nel suo aspetto di debolezza, di fragilità, di limiti che derivano dal fatto di essere creatura.
In Maria, l’Unigenito del Padre non si è soltanto rivestito di muscoli, ma si è inserito pienamente nella nostra condizione umana.
Ha provato i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre passioni; ha sperimentato le gioie degli affetti e la delusione dei tradimenti; ha condiviso le nostre ansie, i nostri dolori e le nostre umiliazioni, la nostra ignoranza, la nostra soddisfazione nell’apprendere e anche la nostra paura di fronte alla morte.
Non si è unito a un “vero corpo”, ma è divenuto “realmente uomo”, in tutto come noi, tranne che nel peccato. Per questo è Emmanuele, Dio con noi.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Sei venuto tra noi, Signore, per rimanere sempre con noi”
Prima Lettura (Is 7,10-14)
10 Il Signore parlò ancora ad Acaz: 11 “Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure lassù in alto”. 12 Ma Acaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”. 13 Allora Isaia disse: “Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio? 14 Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele: Dio-con-noi”.
Il contesto storico in cui è stato pronunciato questo oracolo è ben noto.
Nel 734 a.C. i re di Aram e di Israele si alleano nel tentativo di liberarsi dal giogo assiro e pretendono di coinvolgere nella loro temeraria impresa anche Acaz che regna in Gerusalemme. Questi si rifiuta, allora i due re decidono di detronizzarlo, di porre fine alla sua dinastia e di stabilire sul suo trono un sovrano favorevole ai loro progetti (Is 7,1-10).
Il giovane Acaz – ha appena passato i vent’anni – è sgomento e frastornato. È un discendente di Davide, appartiene a quella nobile famiglia alla quale è stato promesso un regno eterno. Per bocca del profeta Natan, Dio ha assicurato: “Io renderò stabile per sempre il regno della famiglia di Davide, non ritirerò mai da lui la mia protezione, il suo potere sarà stabile per sempre” (2 Sam 7,14-16). Non dovrebbe dunque temere, ma la sua fede in Dio è fragile, fa calcoli umani e comincia a commettere un errore dopo l’altro. Compie perfino il crimine abominevole di immolare agli idoli il suo unico figlio (2 Re 16,3); poi, cosciente di avere un esercito troppo debole e di correre il rischio di venire sopraffatto, chiede aiuto all’Assiria.
Venuto a conoscenza della decisione del re, Isaia interviene.
Gli assiri dominano la scena internazione e non avranno difficoltà a proteggere il piccolo regno di Giuda, ma pretenderanno di ridurlo a vassallo; porranno in pericolo soprattutto la fede e la purezza religiosa del popolo di Dio.
Il profeta decide di rivolgersi personalmente ad Acaz. Gli va incontro, insieme al figlio Seariasùb, presso la piscina superiore, sulla strada del campo del lavandaio (Is 7,3). Lo trova mentre, sempre più agitato, sta studiando il modo di provvedere l’acqua per la città in vista dell’imminente assedio. Gli parla in nome di Dio, lo rassicura: “Ciò che tu temi non avverrà e non accadrà” (Is 7,8). Gli chiede di avere fiducia non nell’Assiria, ma nel Signore e nelle sue promesse. I nemici che lo spaventano, che lo scuotono e lo fanno tremare, come se fossero un vento impetuoso e inarrestabile, non sono altro che una nuvoletta di fumo che sale da due tizzoni bruciacchiati. Nessuna paura: la sua dinastia continuerà a regnare in Gerusalemme, per sempre, come il Signore ha promesso.
Nulla da fare! Il re si intestardisce sempre più, convinto che la forza degli assiri meriti più fiducia che Dio.
Passano alcuni giorni e Isaia va di nuovo a trovarlo, nel suo palazzo. Siamo giunti alla nostra lettura.
Gli dice: se non hai fiducia nelle mie parole, se vuoi una garanzia, chiedi un segno! (v. 11). Acaz non è disposto a ricredersi, perciò non gli interessa alcun segno.
Lo voglia o no, Isaia dà ugualmente il segno: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio che chiamerà Emmanuele” (v. 14). Che significa?
Qualcuno ha pensato che Isaia predicesse, con sette secoli di anticipo, il concepimento verginale di Maria, ma un simile segno non avrebbe avuto alcun senso per Acaz.
La vergine, cui Isaia si riferisce, è la giovane moglie del re. Questa ragazza – assicura il profeta – avrà un figlio il cui nome sarà “Emmanuele” che significa “Dio è con noi”. Questo figlio succederà a suo padre, darà continuità alla dinastia e nessuno lo spodesterà, anzi, sarà un grande re, un nuovo Davide.
Ho spiegato in modo piuttosto dettagliato questa breve lettura perché l’evangelista Matteo ha visto la piena realizzazione di questa profezia nella nascita di Gesù dalla vergine Maria.
Com’è andata a finire la guerra che Acaz stava preparando? Come Isaia aveva previsto: fu un disastro sia politico che religioso. L’Assiria intervenne e ridusse presto a “tizzoni fumiganti” i re di Aram e d’Israele. Acaz fu umiliato, dovette pagare forti tributi e il regno di Giuda divenne una colonia assira.
Il segno dato dal profeta si realizzò: il figlio di Acaz fu concepito dalla “vergine”, nacque e divenne il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo; fu la prova della fedeltà del Signore alle sue promesse. Fu chiamato Ezechia, ma a lui si poté giustamente applicare il titolo di “Emmanuele”-“Dio è con noi”. Fu un buon re, ma non il sovrano eccezionale che forse lo stesso Isaia si aspettava.
Per questo, in Israele si cominciò ad attendere un altro re, un figlio di Davide che adempisse pienamente la profezia, che fosse davvero il “Dio con noi”. Nel vangelo di oggi Matteo lo indicherà: è il figlio della vergine Maria.
Seconda Lettura (Rm 1,1-7)
1 Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, 2 che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, 3 riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, 4 costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore. 5 Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; 6 e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. 7 A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
Inizia, con questa lunga introduzione, la lettera ai Romani. Ricalca la forma consueta delle lettere di quel tempo che prevedevano uno schema fisso: indicazione del nome del mittente, seguito da quello del destinatario, un saluto augurale (solitamente khairein – salve!) e un breve esordio dettato dalle circostanze.
Paolo fa suo questo formulario e lo adatta ad uno scopo specifico. Al nome del mittente, il suo, aggiunge le qualifiche che gli conferiscono il diritto di rivolgersi a una comunità insigne come quella di Roma. Si presenta come apostolo, come araldo del vangelo e come servo di Gesù (v. 1).
Sono tre titoli significativi: il primo per ricordare ai suoi lettori l’autorità che ha ricevuto direttamente da Cristo di fondare, fra i pagani, nuove chiese; il secondo è per lui un motivo di vanto: si ritiene onorato di essere stato scelto da Dio per annunciare la lieta notizia della risurrezione di Cristo; il terzo – “servo del messia Gesù” – ha, nell’ambiente culturale ellenistico, un senso dispregiativo: onorati erano i signori, non gli schiavi, ma, a chi è aduso al linguaggio biblico, questo termine richiama i grandi personaggi dell’AT, i servi di Dio: Mosè, Giosuè, Davide e soprattutto il “Servo del Signore” di cui ha parlato il profeta Isaia.
Nella parte centrale del brano (vv. 2-6) viene presentata la persona di Gesù: è nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, ma la sua vera identità, quella di figlio di Dio, è stata rivelata nel giorno di Pasqua, quando, con un gesto di potenza, il Signore lo ha risuscitato dai morti. È il Risorto che Paolo è chiamato ad annunciare.
Il versetto conclusivo (v. 7) indica i destinatari della lettera, i cristiani di Roma – “diletti da Dio” e “santi per vocazione” – e contiene il saluto, tipico dello stile epistolare orientale, cui Paolo aggiunge l’augurio della “pace” che, nel linguaggio giudaico, equivale all’augurio di ogni benedizione di Dio.
Vangelo (Mt 1,18-24)
18 Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19 Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 20 Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 21 Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
22 Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23 “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”, che significa Dio con noi. 24 Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
“Ecco come avvenne la nascita di Gesù”. Così inizia il brano evangelico di oggi, ma invece di parlare della nascita, racconta l’annuncio a Giuseppe della maternità verginale della sua sposa.
Luca, a differenza di Matteo, narra l’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria e ricorda solo marginalmente Giuseppe.
La tentazione di fondere i due racconti, come se fossero reportage di due giornalisti, è grande, ma è pericolosa: ci colloca inevitabilmente di fronte a interrogativi cui è arduo, se non impossibile, dare una risposta, come tra poco vedremo.
Sia Luca, sia Matteo fanno riferimento a fatti reali, anche se difficilmente definibili nei dettagli, ma non scrivono pagine di cronaca, fanno teologia: presentano Gesù come, dopo la Pasqua e alla luce dello Spirito, le comunità cristiane della fine del I secolo sono giunte a conoscerlo.
Vediamo come Matteo struttura il suo racconto e quale messaggio vuole dare.
Al tempo di Gesù il matrimonio avveniva in due tappe. La prima consisteva nel contratto stipulato fra i due sposi davanti ai genitori e a due testimoni; dopo questa firma, il ragazzo e la ragazza erano marito e moglie, ma non andavano a convivere, lasciavano trascorrere ancora un anno, durante il quale non si potevano incontrare.
Questo intervallo serviva alle due famiglie per una migliore conoscenza e ai due sposi per maturare: ci si sposava infatti molto giovani, 12-13 anni la ragazza, 15-16 il ragazzo. Questa doveva essere l’età di Maria e Giuseppe.
Passato l’anno di attesa, veniva organizzata una festa, la sposa era condotta alla casa del marito e i due iniziavano la vita in comune.
Fu durante questo intervallo che ebbe luogo l’annunciazione a Maria e la sua gravidanza per opera di spirito santo.
Matteo mette in risalto questo fatto fin dall’inizio del suo racconto, per evitare che si insinui il dubbio che Gesù sia stato generato per l’intervento di un uomo.
Lo spirito, in questo racconto, non rappresenta l’elemento maschile (ruah- spirito in ebraico è femminile), indica una forza, un soffio divino creatore. “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” – dice il salmista (Sal 104,30) che pensa probabilmente allo spirito di Dio che aleggiava sulle acque all’inizio del mondo (Gn 1,2).
Il concepimento verginale, che è ricordato esplicitamente anche da Luca (Lc 1,26-39), non ha lo scopo di sottolineare la superiorità morale di Maria, né, ancor meno, costituisce un deprezzamento della sessualità. È introdotto per “rivelare” una verità fondamentale per il credente: Gesù non è unicamente uomo, egli viene dall’alto, è lo stesso Signore che ha assunto forma umana. Per farci comprendere questa verità, affermano concordi Matteo e Luca, Dio è ricorso a un atto creativo.
Ciò che è successo in seguito non è facile da stabilire e solleva parecchi interrogativi. Appare incredibile che Giuseppe, nonostante la sua rettitudine, pensi di prendere provvedimenti drastici nei confronti di Maria, senza neppure averla consultata. Come poteva sospettare che gli fosse stata infedele? In che senso Giuseppe era “giusto”: forse perché voleva separarsi da Maria? Non c’era alcuna legge che obbligasse a divorziare dalla moglie infedele. Del resto non sarebbe stato un bel gesto quello che Giuseppe stava per fare, anche se veniva compiuto “in segreto”. Come mai Maria non ha detto nulla a Giuseppe dell’annuncio che aveva avuto dall’arcangelo Gabriele? Oppure, se glielo ha detto, perché Giuseppe non le ha creduto?
A queste domande qualcuno risponde: Maria deve aver detto al suo sposo che il figlio che aspettava veniva da Dio; non avrebbe avuto alcun motivo di mantenere il segreto su un fatto che egli era in diritto di sapere. Il dubbio di Giuseppe allora non verterebbe sulla fedeltà o infedeltà della sposa, ma sul suo ruolo in questo avvenimento straordinario. Come avrebbe potuto dare il nome a un figlio non suo? Non sarebbe stata un’intromissione indebita nel progetto di Dio? Non sapendo come comportarsi, aveva pensato di tirarsi in disparte e attendere che Dio gli facesse conoscere la sua volontà.
Mentre egli andava meditando queste cose, il Signore gli rivelò il suo progetto e la missione alla quale lo chiamava: doveva dare il nome a Gesù; così il figlio di Maria sarebbe entrato di diritto nella sua famiglia, sarebbe divenuto discendente di Davide “secondo la carne”, come ha detto Paolo nella seconda lettura.
Questa spiegazione è interessante e contiene elementi sicuramente accettabili – come, per esempio, il fatto che Giuseppe sia chiamato “giusto”, perché aveva deciso di farsi da parte per non frapporre ostacoli al piano di Dio che non riusciva a capire – ma ha il limite di essere una supposizione alla quale il testo evangelico dà solo un fragile fondamento.
È meglio non tentare di trovare nel vangelo risposte a interrogativi, che noi legittimamente ci poniamo, ma che a Matteo non interessavano.
Egli non era preoccupato di darci informazioni o di soddisfare le nostre curiosità. L’unica cosa che gli premeva era che ci rendessimo conto che il figlio di Maria era l’erede del trono di Davide, promesso dai profeti.
La conclusione del racconto è solenne. Tutto il brano sembra sia stato scritto per dimostrare l’adempimento di ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (vv. 22-23).
Abbiamo già visto qual era il significato letterale di questa profezia: l’annuncio della nascita del figlio di Acaz, Ezechia. Egli fu realmente un “Emmanuele”, cioè un segno che Dio proteggeva il suo popolo e la dinastia di Davide, ma non rispose a tutte le attese che erano state riposte in lui e nemmeno realizzò le promesse di felicità, di benessere e di pace descritte da Isaia. Non fu “un prodigio di consigliere, un guerriero invincibile, un padre per sempre, un principe della pace…” (Is 9,5-6).
Ecco cosa intende dire Matteo: è Gesù colui che ha adempiuto queste profezie, è lui il figlio della vergine annunciato dal profeta. Egli è realmente l’“Emmanuele” il “Dio con noi”. A lui sarà dato un regno eterno e in lui si compiranno tutte le speranze di Israele.
Siamo all’inizio del vangelo di Matteo. Il tema dell’“Emmanuele” torna anche alla fine del libro. Nell’ultimo capitolo si dice che, dopo la risurrezione, Gesù si manifestò ai suoi discepoli sul monte della Galilea, li inviò nel mondo intero a far discepole tutte le nazioni e aggiunse: “Ecco, io sono con voi (…Ecco io sono l’“Emmanuele”) tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il richiamo al “Dio con noi” apre e chiude tutta l’opera di Matteo perché – ci dice l’evangelista – in Gesù, Dio si è messo, e rimane per sempre, a fianco dell’uomo.
In questa conclusione del brano ritorna il tema della “vergine”. Abbiamo già spiegato il significato del concepimento verginale di Maria. Vogliamo ricordare altre implicazioni bibliche di questo termine.
Per noi “vergine” significa “ammirevole, degna di stima”. Nella Bibbia invece ha un diverso significato. La verginità di una donna era apprezzata prima del matrimonio, ma colei che rimaneva vergine per tutta la vita mostrava solo l’incapacità di attirare su di sé lo sguardo di un uomo. Degna di lode in Israele era la donna sposata che aveva figli; la vergine era considerata un albero senza frutti, meritevole di commiserazione (Is 56,3-6).
Questo termine ricorre spesso nella Bibbia, in senso figurato, per indicare una condizione spregevole. L’espressione vergine Sion non vuol dire: “Gerusalemme pura, immacolata, senza macchia”, ma “povera, disprezzata, priva di vita” (Ger 31,4; 14,13). La terra d’Israele annientata dagli assiri è paragonata da Amos alla vergine che non ha potuto realizzare il suo sogno di essere madre: “ È caduta, non si alzerà più, la vergine d’Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare” (Am 5,2). Anche Babilonia, la sanguinaria, viene maledetta dal profeta: “Sarai ridotta in polvere, vergine Babilonia” (Is 47,1).
E Maria?… Parla di sé come se fosse la “vergine Sion”, disprezzata e senza valore (“…ha guardato la bassezza, la povertà della sua serva”) e riconosce che tutto quanto è avvenuto in lei è opera del “Potente” che ha fatto in lei grandi cose (Lc 1,48-49).
Maria vergine è la prova della grandezza e della forza dell’amore di Dio, il solo che dall’utero sterile sa trarre la vita.
Quando celebriamo la “verginità” di Maria, ci rallegriamo perché verifichiamo in lei ciò che il Signore sa fare con i “vergini”, con chi non ha valore, con chi può presentargli solo la propria indigenza e la propria semplicità. Da Maria il Signore ha tratto un capolavoro. Un artista come lui sa fare solo capolavori, indipendentemente dalla pochezza e dalla povertà del materiale che ha a disposizione. Ogni uomo è destinato a divenire un suo capolavoro.
In questo tempo di Avvento, Maria vergine invita a contemplare ciò che il Signore ha compiuto in lei e a credere nella vittoria della vita, anche dove si vedono solo segni di morte.
Il termine vergine nella Bibbia assume anche un altro significato metaforico: indica la persona che ama con cuore indiviso.
L’infedeltà di Israele è paragonata a una prostituzione (Ger 5,7); la sua contaminazione con gli idoli è considerata un adulterio, una divisione del cuore fra il Signore, l’unico sposo, e gli idoli delle nazioni, i suoi amanti (Os 2).
La verginità è il simbolo dell’amore totale per il Signore.
È in questo senso che Paolo impiega il termine quando scrive ai corinti: “Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11,2).
Maria ha certamente realizzato alla perfezione anche questo ideale di verginità.
È, per ogni cristiano, il modello sommo di amore totale e indiviso a Dio.