Con rammarico, ma con senso di realtà, credo che qualsiasi decisione sul diaconato delle donne sia oggi impossibile.

di Gilberto Borghi
10 Dicembre 2025
Per gentile concessione di
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Mi inserisco nel dibattito già in atto sulla nota vaticana della commissione per il diaconato femminile. Il testo, essendo una sintesi, non mostra quali siano stati i percorsi, i testi e i dati presi in considerazione per arrivare alle sue conclusioni, dichiarate con chiarezza solo come delle “coordinate cognitive” suggerite al Papa, che appaiono non definitive e rivedibili e che si sintetizzano così: per il momento le donne non possono accedere al diaconato. Risulta difficile, quindi, darne una valutazione critica adeguata e non promossa essenzialmente da reazioni emotive e da pregiudizi ideologici, a qualsiasi parte essi si possano ascrivere.

Il documento ammette, richiamando Benedetto XVI, che “la prospettiva puramente storica non consente di giungere ad alcuna certezza definitiva”, ma parte proprio dai dati storici, in cui il diaconato femminile nell’antichità mostra di non aver avuto “un carattere sacramentale”. Quello che, in verità, si può rintracciare storicamente non è così chiaro.

Il concilio di Calcedonia parla espressamente dell’ordinazione delle diaconesse mediante l’imposizione delle mani. Alla fine del IV secolo abbiamo testi che ribadiscono la stessa cosa. E ciò va avanti ancora a metà del V sec e fino all’inizio dell’VIII. Contemporaneamente abbiamo voci che si levano, dalla fine del IV sec, contro l’assunzione delle donne del ministero ordinato segnalando che esse non partecipano mai al ruolo dei diaconi maschi nell’eucarestia. Il che indica che quelle imposizioni delle mani del vescovo sono percepite come ingresso nell’ordine sacro. Ma queste voci legano la negazione dell’ordine femminile non al carattere intrinseco del sacramento, ma a due ragioni precise.

La prima è che la funzione essenziale avuta dalle diaconesse nei primi secoli sta perdendosi, cioè quella di “assistere” le donne, soprattutto nella loro evangelizzazione in contesti pagani e nel battesimo ad esse fatto per spogliazione totale. E qui è davvero difficile comprendere se il loro ruolo sia solo quello di assistenza o di celebrazione vera e propria. In ogni caso la progressiva cristianizzazione della società, dopo Costantino, porta all’inizio della consuetudine di battezzare le persone fin da bambini, riducendo gli ambiti pagani e la necessità della loro presenza.

La seconda è di carattere antropologico. Le donne sono ritenute non all’altezza dell’ordine sacro per la loro impurità mensile e per la progressiva percezione, che proprio verso il IV secolo comincia, dell’impossibilità di associare il sacro con il desiderio sessuale, di cui le donne sono generatrici, quasi pericolose, soprattutto nei consacrati maschi. Una visione che, purtroppo, prende piede e diventa la traccia fondamentale del rapporto tra la chiesa e la sessualità in genere.

La nota, poi, forse consapevole della poca consistenza teologica di queste motivazioni, ne adduce un’altra: la mascolinità intrinseca del ruolo del ministro ordinato che, “in Persona Christi” avrebbe un carattere “sponsale” verso la chiesa: “alterare questa realtà (mascolinità necessaria) non sarebbe un semplice aggiustamento del ministero, ma una rottura del significato nuziale della salvezza”. Dove è evidente che la mascolinità necessaria è appoggiata sulla sponsalità.

Ma la votazione mostra che su questo la commissione si è spaccata a metà: 5 a 5. E forse il motivo è semplice: non c’è tradizione storica sufficiente a sostenere questa tesi! Da sempre la Chiesa ha sostenuto la sponsalità di Cristo verso la Chiesa, ma è solo dalla metà circa del ‘900 che questa è stata declinata anche per il rapporto ministro ordinato – Chiesa, a partire da Von Balthasar, attraverso Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Ed è dimostrabile storicamente che l’assunzione di questa prospettiva sponsale diventa un modo per mantenere il carattere che da Trento in poi è pienante riconosciuto all’ordine sacro: non il “ministerium”, cioè il servizio, ma la “potestas”, il potere di consacrare, assolvere, insegnare. Dove il centro resta sul consacrare, che è una delle ragioni per cui il diaconato permanente dopo Trento sparisce e il tentativo contemporaneo del suo ripristino diventa un flop clamoroso.

Proprio su questo la nota chiude, con espressioni assunte in prima persona dal presidente Card. Petrocchi, in cui si chiede di “incentivare un rigoroso e allargato esame critico condotto sul versante del diaconato in sé stesso”, perché “le attività dei diaconi non raramente sono coincidenti con ruoli propri dei ministeri laicali o dei ministranti nella liturgia, suscitando nel Popolo di Dio domande sul significato specifico della loro ordinazione”. Che fa pensare alla necessità di comprendere meglio lo specifico del diaconato, rispetto agli altri due gradi dell’ordine, e la possibilità di dare a questo grado un’interpretazione non così schiacciata sul potere di celebrare, in cui l’essenza sia connessa davvero solo al servizio ecclesiale, aprendo una possibilità anche per le donne.

Ma come ha acutamente osservato Fenaroli, questa possibilità, che sembra solo questione di addetti ai lavori, in realtà sarà possibile solo quando si potranno mettere le mani sui retroterra teologici che stanno dietro alla questione del diaconato femminile. Un antropologia che rimetta al centro il corpo, il genere, e permetta di indicare sul serio uno specifico femminile e uno maschile del credere; un’ecclesiologia che recuperi seriamente la sinodalità anche nella gestione del potere, finalmente vissuto come servizio; una teologia del Magistero che prenda sul serio l’incarnazione in ogni tempo e spazio, ipotizzando che le sue decisioni possano anche cambiare nel corso della storia.

Purtroppo non mi sembra che queste condizioni ci siano, al momento. Perciò credo, con rammarico, ma con senso di realtà, che qualsiasi decisione sul diaconato delle donne sia oggi impossibile, in un senso come nell’altro.