Il destino delle parole più ricche di significato e pregnanza è, a volte, proprio curioso. Tutti le usano, tutti ne riconoscono il valore insostituibile, tutti le declinano nei più svariati modi, tutti desiderano offrirne l’interpretazione autentica, la più acuta, la più centrata e profetica. E si arriva, quasi inavvertitamente, al momento in cui una parola densa, che era stata sorgente di sorpresa e di slancio, diventa “insopportabile”, talmente usata e abusata da stingersi in un colore di fondo che fa dimenticare la tinta accesa e piena di vita che aveva all’inizio.

Stefano Mazzer
(NPG 2017-05-28)
Per gentile concessione di
www.notedipastoralegiovanile.it
UN GIOCO DI PAROLE?
Una simile vicenda, forse, è quella che ha visto come protagonista la parola comunità (con tutti i suoi “derivati”). Chi non parla di comunità? Chi non la invoca? Chi non ne denuncia la drammatica assenza nel contesto odierno? Chi non evidenzia la deriva “burocratica” che spesso ha assunto? Chi non vuole “più comunità” a rimedio dell’asfissia dell’individualismo in tutte le sue sfaccettature? Eppure, chi di noi ricorda ancora che cosa significa comunità? E noi credenti ne rammentiamo ancora l’origine tutt’altro che conciliante?
Come spesso avviene – per fortuna – sono persone lontane dal circuito ecclesiale a ricordarci e a costringerci a ritornare alla sorgente, a rispolverare il potenziale “rivoluzionario” che l’evento cristiano e il linguaggio da esso sprigionato donano sempre, in ogni luogo e in ogni tempo, all’umanità tutta.
In libro di quasi 20 anni fa – che nella logica temporale odierna sembra far parte di un passato “così passato” da non destare nemmeno interesse, non essendo l’ultimo libro di cui tutti parlano – può costringerci a fare i conti con il nostro “sicuro” e “ovvio” senso cristiano della comunità e della Chiesa (identificata dal suo essere la comunità dei credenti in Cristo). Ci riferiamo al saggio Communitas. Origine e destino della comunità del filosofo Roberto Esposito (Einaudi 1998). Il lettore stia pure tranquillo: non intendiamo certo percorrere il volume o intavolare un dibattito da “cattedra del dialogo”. Ci limitiamo alle prime e destabilizzanti note dell’Autore, dalle quali potremo partire per mettere a fuoco il legame tutt’altro che scontato e pacifico tra le due immagini di Chiesa del Concilio Vaticano II che hanno avuto maggior successo: la Chiesa comunione e la Chiesa popolo di Dio.
Ma procediamo con ordine, dando anzitutto la parola al filosofo. Dopo aver fin da subito richiamato i linguaggi e i significati più diffusi in merito alla comunità, annota: «se ci si ferma solo un attimo a riflettere fuori dagli schemi correnti, il dato più paradossale della questione è che il ‘comune’ è identificato esattamente con il suo più evidente contrario: è comune ciò che unisce in un’unica identità la proprietà – etnica, territoriale, spirituale – di ciascuno dei suoi membri. Essi hanno in comune il loro proprio; sono i proprietari del loro comune». Ovvietà? In prima battuta sì, se non ci si ferma a pensare a cosa custodisca nel suo centro il termine che adoperiamo per dire ciò che di comune vari soggetti con-dividono: communitas. È sempre Esposito a ricordare che «il primo significato che i dizionari attestano del sostantivo communitas – e dell’aggettivo corrispondente communis – è quello che assume senso dall’opposizione a ‘proprio’. In tutte le lingue neolatine, ma non solo, ‘comune’ (commun, comun, common, kommun) è ciò che non è proprio; che comincia là dove il proprio finisce […]. Esso è ciò che pertiene a più di uno, a molti o a tutti – e dunque che è ‘pubblico’ in contrapposizione a ‘privato’, o ‘generale’ (ma anche ‘collettivo’) in contrasto con ‘particolare’».
Cosa c’è di comune nella comunità che è la Chiesa?
Lasciamo il percorso di Esposito – al quale ritorneremo per un secondo spunto – e fermiamoci un attimo a riflettere. Quando pensiamo alla Chiesa, al nostro essere comunità, a che cosa pensiamo? Cosa c’è di comune nella comunità che è la Chiesa? Non è forse il fatto di essere tutti dei credenti, dei battezzati? E questo non è forse ciò che di più proprio ciascuno non solo “possiede” ma “è”? (Se almeno pensiamo la fede non come un’etichetta dell’umano ma come il suo fondamento e la sua verità). Forse è proprio vero che identifichiamo spontaneamente il comune con la messa in comune del proprio: non hanno questa forma i tanti raduni e momenti di “condivisione”, nei quali ciascuno mette in comune il proprio pensiero, la propria esperienza, la propria visione, la propria risonanza alla Parola, ecc.? E se tutto questo non fosse, in realtà, ciò che ci rende communitas? Se cioè il nostro essere questa comunità non fosse originato da ciò che noi mettiamo in comune?
Questi interrogativi intercettano “pericolosamente” molte letture – riflesse o meno fa poca differenza – che, come Chiesa, abbiamo fatto e facciamo sul senso stesso del nostro essere Chiesa. “Chiesa, cosa dici di te stessa?”: così recita un adagio con il quale, spesso, è stato interpretato il senso dell’«indole pastorale» del Concilio Vaticano II. Si è detto e si dice che nel Vaticano II la Chiesa si è interrogata su chi è e su come è chiamata ad essere oggi, in risposta a ciò che Dio le chiede. Ma può la Chiesa dire se stessa? Non si riporta così il discorso su una realtà comunitaria nelle strette maglie del proprio? In poche parole: la Chiesa può dire se stessa, ciò che la rende quello che è? Come tante volte ha ricordato Benedetto XVI e, sulla sua scia, papa Francesco, la Chiesa non è nulla e non è comprensibile se non a partire da Dio.
Chi tra i cristiani quando sente citare la Costituzione conciliare Lumen gentium non pensa immediatamente alla Chiesa? Ci si è mai posti la domanda se luce delle genti sia la Chiesa o qualcun altro? «Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa». Così recita l’incipit della Lumen gentium: è Cristo, non la Chiesa, la luce delle genti. Sembrerebbe un’ovvietà, se non fosse vero che spesso viviamo e pensiamo la Chiesa esattamente in forma contraria. Chi non sente spesso parlare del Vaticano II come il concilio ecclesiologico? E se lo fosse proprio perché parte da Dio e non dalla Chiesa e da ciò che le è più “proprio”? Le provocazioni iniziali sul termine communitas cominciano, forse, a rivelare la loro pertinenza. Se fosse esattamente ciò che non ci è proprio a renderci comunità? Ma questo significa capire – e, insieme, e prima ancora, vivere – che l’identità della Chiesa non è generata da qualcosa che viene messo in comune. Spingendo ancora più avanti la provocazione, potremmo dire che, paradossalmente, al centro del nostro essere comunità c’è un vuoto, non c’è nulla di proprio da rivendicare, nulla che ci identifichi come comunità perché nostro. Ma non è questo, forse – e ci sia perdonato l’abuso del forse –, il significato dell’espressione così giustamente celebre e acclamata di popolo di Dio?
Uno dei meriti indiscussi del Vaticano II è stato, infatti, quello di aver riscoperto la Chiesa come popolo di Dio, categoria biblica capace di rigenerare non solo il pensiero ma le stesse dinamiche ecclesiali. È interessante notare che nell’espressione popolo di Dio, il “possesso”, la “proprietà”, se così vogliamo esprimerci, non appartengono al popolo bensì a Dio. L’essere Chiesa non è cioè qualcosa di proprio, di nostro: ciò che identifica la Chiesa in quanto tale è l’essere proprietà di un altro, di Dio. E se il termine popolo, nella sua radice indoeuropea (par/pal), rimanda al mettere insieme, al radunare, e la stessa radice è anche alla base del termine pieno o dell’aggettivo/ avverbio più, comprendiamo come il mettere insieme nel modo più totale, pieno appunto, non sia qualcosa che la comunità fa da sé, anzi, è radicalmente ciò che la comunità non può e non potrà mai fare perché non ha nulla di proprio da mettere in comune. Potrebbe, infatti, essere qualcosa di “nostro” il Dio che ci rende suo popolo?
Communis viene da munus
Torneremo sulla categoria di popolo di Dio come nome della Chiesa. Prima vogliamo raccogliere un altro spunto dalla provocazione del filosofo Esposito. Si tratta del secondo significato che l’etimologia e la storia del concetto di communitas custodiscono in sé e che è ancor meno pacifico del primo già da noi rilevato. Communis, infatti, proviene da munus. Questo termine oscilla «fra tre significati non del tutto omogenei tra loro che sembrano spingere fuori campo, o almeno ridurre di rilievo, la giustapposizione iniziale ‘pubblico’/‘privato’ […] a favore di un’altra area concettuale complessivamente riconducibile all’idea di ‘dovere’. Essi sono onus, officium e donum». E così prosegue l’Autore: «se per i primi due l’accezione di ‘dovere’ – donde ‘obbligo’, ‘ufficio’, ‘carica’, ‘impiego’, ‘posto’ – risulta immediatamente evidente, per il terzo appare a prima vista più problematica. In che senso un dono sarebbe un dovere? Non si configura, al contrario, come qualcosa di spontaneo e dunque di eminentemente facoltativo?». Il munus, ciò che tutti condividiamo in quanto com-munitas, è insomma «il dono che si dà perché si deve dare e non si può non dare», diventando così munifici, persone che cioè manifestano la loro gratitudine dando qualcosa che non possono tenere per sé (che devono dare). «Ne risulta che communitas è l’insieme delle persone unite non da una ‘proprietà’, ma, appunto, da un dovere o da un debito. Non da un ‘più’, ma da un ‘meno’, da una mancanza». Il munus che la comunità condivide «non è una proprietà o un’appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare». Ciò che una comunità condivide non è un’appartenenza: rispetto a tante riflessioni sul senso dell’appartenenza ecclesiale oggi sviluppate, questa affermazione sembra inserire un vulnus pericoloso ma estremamente salutare.
Immaginiamo che il lettore, a questo punto, potrà chiedersi se si tratti di un rompicapo filosofico/linguistico e se valga davvero la pena seguirne le tracce. Siamo consapevoli della non immediatezza del ragionamento riportato e della sua natura un po’ ostica; tuttavia siamo convinti della sua importanza in merito al discorso sulla Chiesa che la proposta pastorale dell’anno ci invita ad approfondire.
La riflessione di Esposito ci costringe a renderci conto che alla radice dell’essere comunità, del dono che la comunità stessa è, vi è qualcosa che si configura come un dovere, qualcosa che non può non essere donato, che nella sua origine ha la forma del debito. È questo ciò che veramente ci è comune, non una nostra proprietà che, con più o meno “buon cuore”, scegliamo di mettere insieme. La radice del nostro essere comunità affonda nel terreno di una mancanza che tutti ci abita e che non può che rinviare a qualcun altro che non è la comunità stessa. Quasi a dire ancora una volta, come già sopra abbiamo rilevato, che ogni comunità, e quindi anche la Chiesa, è se stessa solo riconoscendo di essere frutto di un dono al quale non si può non rispondere, al quale si deve rispondere e si deve farlo con il dono, donandosi.
Discorsi strani, apparentemente. Eppure nulla di diverso da quanto custodito nel cuore delle parole che Gesù ha consegnato ai suoi nell’intimità drammatica del Cenacolo: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» (Gv 15,9-14).
Il dono (donum) di Gesù ai suoi diventa comando (onus): un vero e proprio munus, quindi, che consiste nel dovere di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati. È questo a renderci suoi amici, a farci conoscere il mistero dell’unico Padre, a farci tutti uguali: è questo ciò che ci è comune, la fonte della nostra communio. Ed è esattamente qualcosa che non è nostro, non è un “proprio” che ci unifica, perché non ci appartiene: è la vita di Dio riversata in noi, non la nostra. Lui ha scelto noi, non viceversa. Lui ci ha amati per primo, non noi. E noi, senza di Lui, non possiamo far nulla.
Le conseguenze di un simile discorso sono un po’ inaspettate: ci dicono che termini come koinonia, communio, ekklesia, che spesso – anche sull’onda di un rinnovamento conciliare non sempre ben ponderato – sono impiegati come sinonimi, in realtà hanno tra loro un rapporto intrigante, non ovvio, che impone di non sovrapporli banalmente, senza cioè rendersi conto di ciò che ciascuno di essi implica. Espressioni come Chiesa -comunione, koinonia nella /della Chiesa, che vanno per la maggiore, hanno il diritto di essere riscattate in tutta la loro formidabile e rivoluzionaria portata. Altrimenti rimangono appelli che oscillano tra petizioni di buoni e sacrosanti principi e esortazioni più o meno astratte o moralistiche che invitano a una qualche forma più “intensa” di relazione e servizio tra i credenti.
LA FORMA DELLA COMUNIONE DEL POPOLO DI DIO
Se quanto abbiamo detto sinora ha una qualche plausibilità, possiamo tornare alle due immagini di Chiesa tipiche del Vaticano II sulle quali ci è stato chiesto di riflettere in questo articolo: Chiesa-Comunione, Chiesa-Popolo di Dio.
È a tutti evidente come entrambe le espressioni trovino nel Nuovo Testamento un luogo ben preciso nel quale rivelano la loro concretezza e non metaforicità: la frazione del pane (nel linguaggio degli Atti degli Apostoli), l’Eucaristia. La comunione nella e della Chiesa ha lì la sua fonte e il suo culmine; il popolo di Dio è radunato (ecclesia) anzitutto attorno all’altare per partecipare alla Pasqua del suo Signore. Ora, è precisamente nella partecipazione eucaristica al Corpus Christi che si rivela la dirompente novità che la Rivelazione cristiana porta nell’orizzonte del senso della comunità. Esposito, in merito, ricorda che nell’Eucaristia l’uomo «riceve il dono – ecco rispuntare il munus – che Dio attraverso il sacrificio del Cristo gli fa in maniera gratuita e sovrabbondante […]. Contro una lettura piattamente antropologica – tutta orizzontale – della ‘partecipazione’ va fermamente ribadito che solo tale primo munus dall’alto mette gli uomini in comune fra loro».
Chiesa-comunione come uno spazio aperto e… vuoto
La communio nasce da questo munus, da questo dono che Dio ha fatto di sé – un dono che, non a caso, nei Vangeli ha la forma del dovere: il Figlio dell’uomo deve soffrire… –, non dalla nostra comune risposta al dono stesso. La comunione scende dall’alto, come rugiada dal monte, dice il Salmo 133: la nostra risposta al dono di Dio ha sempre la forma della recezione (non siamo stati noi ad amare Dio per primi) e si impone con tutta la cogenza di un comando al quale si deve rispondere con il dono di sé (questo vi comando: amatevi gli uni gli altri).
C’è da chiedersi se le forme, le iniziative, le dinamiche pastorali che in questi anni si sono succedute e si susseguono al fine di “creare” e “costruire” (interessante: sono due verbi che la Scrittura riserva a Dio, l’Unico Creatore e l’Unico vero costruttore) maggiori spazi di comunione nella Chiesa siano davvero corrispondenti alla verità del munus che tutti ci unisce non come proprietà ma come comune espropriazione. Il donum del Padre, infatti, è il sacrificio di Cristo: realtà che mette in evidenza non una serie di “cose”, “progetti”, “risorse” a noi elargiti bensì la totale e nuda povertà di Colui che si è fatto nulla, si è fatto peccato, perché noi potessimo rinascere a vita nuova.
Quando Papa Francesco ricorda a tutti noi che la Chiesa non è chiamata a occupare spazi, che come cristiani non siamo destinati a creare strutture o progettazioni che abbiano sempre maggiore efficienza, forse ci sta rammentando che è il munus di Dio a renderci veramente uguali davanti a Lui. Spesso, invece, anche in questi anni di fatica e di ripensamento delle forme della vita ecclesiale, siamo tentati di riempire vuoti, di sopperire a mancanze e povertà con più attività, chiedendo all’ultimo luminare che nell’ennesimo convegno ci dia nuove idee (non sempre germinate dal terreno della vita, quella reale, quella monotona e faticosa di ogni giorno, delle persone più umili).
La Scrittura, invece, quando invita a vivere la comunione lo fa sempre affermando la necessità di perdere e non di prendere, richiamando la morte di Gesù, il suo aver dato tutto fino alla fine e non il suo aver fatto molto, additando la sua passione che fa risplendere l’azione di un altro, del Padre, e che possiamo rivivere in noi grazie ancora all’opera di un altro, lo Spirito. Paolo e Barnaba, nei loro viaggi missionari, confermavano le comunità ricordando loro la necessità di rimanere saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (Atti 14,22). E come sa bene chi le tribolazioni di tutti i tipi le ha vissute o le vive sulla sua pelle, le prove portano a sfrondare tutto ciò che non è essenziale, tutto quello che prima sembrava necessario e che invece si rivela non indispensabile.
Davanti al perdere reale, si impara ciò che non può in ogni modo mancare: paradossalmente, questo qualcosa è la gratuità del dono. “Gratuito” perché non mio e quindi non rappresentante una proprietà che in qualche modo donerei («gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»: Mt 10,8); “dovuto” perché si impone come l’unica vera forma della comunione, quella che non possiamo non dare («egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli»: 1Gv 3,16). Davanti a una persona sola, a un coniuge abbandonato, a un malato, semplicemente a qualunque persona della comunità che per la sua povertà o piccolezza nessuno mai immaginerebbe in un ruolo “dirigenziale” in quanto non è quella dalla quale ci si attende un pensiero illuminante, il comune munus ricevuto ci impone il dovere di esserci, ci chiede quell’espropriazione che solo l’amore genera nel cuore e richiede non come un educato “invito” ma come “comando” dal quale dipende la verità del nostro essere membra di un solo corpo.
Per appartenere a questo Corpo, occorre accettare di non appartenersi: ciascuno di noi non si appartiene ma nemmeno una comunità si appartiene. La comune appartenenza al Corpo di Cristo è qualcosa che non appartiene a noi, non è una nostra proprietà che ci accomuna (come uno stesso territorio ci fa essere connazionali, una stessa razza ci fa essere un’etnia, ecc.). Non l’avere ci fa partecipi del munus del Risorto ma il «perdere qualcosa, diminuirsi, condividere la sorte del servo, non quella del signore (Fil., 3,10-11). La sua morte. Il dono della vita» (Esposito).
Pensare la Chiesa-comunione come uno spazio aperto e… vuoto, forse non è esattamente quello che spesso ci succede. La comunione la pensiamo riempita dalle nostre relazioni, sulla qualità delle quali abbiamo lavorato, sul governo delle quali abbiamo cercato di intervenire, ecc. Se però il munus che ci fa com-munitas ha la forma del sacrificio di Gesù, dobbiamo convertirci alla logica esibita dal suo Cuore per sempre aperto, squarciato, da questo vulnus (ferita, debolezza, possibilità di essere vulnerato: e quindi radicalmente e solo dato) che è capace di mettere in crisi tutto il nostro efficientismo della comunione costruito su sempre nuove teorie della comunità, dei processi che la istituiscono e che spesso sono molto distanti dalla concretezza di chi, nel silenzio e lontano dai riflettori ecclesiali, sente semplicemente che non può non donare, che deve amare anche chi l’ha offeso, che deve continuare ad amare il coniuge che lo ha abbandonato, che non può non dare la vita per assistere il figlio o il genitore irreversibilmente malato.
Il piacere spirituale di essere popolo di Dio
Ma questo è il popolo di Dio. A volte non collima affatto con quel glorioso popolo che nella pasqua di liberazione dall’Egitto, come canta il Salmo, ha attraversato il Mar Rosso: «li fece uscire con argento e oro; nelle tribù nessuno vacillava» (Sal 105,37). Nel popolo di Dio che è la Chiesa, più di uno vacilla, tutti siamo in-fermi, tutti siamo dei poveri peccatori perdonati, continuamente rialzati dalla grazia e dalla misericordia divine. La Chiesa è ospedale da campo non solo verso i malati che stanno al di fuori del suo “recinto”: lo è anzitutto per i suoi figli, e solo così si rende madre credibile. Papa Francesco, nell’Evangelii gaudium, ha un’espressione impressionante e inusuale per il lessico “ecclesiastico”: parla del piacere spirituale di essere popolo di Dio (EG 268-274). Sì, piacere, con buona pace di tutti i nuovi o vecchi moralismi che condannano a prescindere ogni forma di “mi piace”.
Papa Francesco ci ricorda che se il popolo di Dio non ci piace così com’è, se la Chiesa la pensiamo sempre e solo per quello che dovrebbe essere, per come le nostre idee e le nostre prassi la potrebbero far diventare, è segno che non crediamo più al suo essere di Dio, non nostra. Se è di Dio, come può non piacerci? Come possiamo non provare il piacere di esserne parte? Come possiamo non invitare tutti a gustare e vedere come è buono il Signore? Per provare questo “piacere”, dice il Papa, occorre fuggire la tentazione di «essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano […]. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).
È forse vero, come ricorda arditamente Esposito, che l’opposto della comunità non sono la secolarizzazione, l’individualismo, il razionalismo, ecc., bensì l’immunità. Immunizzarsi dal potenziale pericolo che le piaghe nostre e dei fratelli rappresentano, per non avvertire il munus, il dovere di donare/donar-si, è il vero opposto della comunione. Guardare e pensare al popolo di Dio da una posizione di immunità è forse la radice dell’evidente incapacità di tanta riflessione ecclesiale di rinnovare realmente la vita. Lasciarsi contaminare dalla logica espropriante del dono di Gesù è e rimane l’unico luogo, spesso opaco e accidentato ma splendente di vera luce, nel quale gioire per una comunione e un esser popolo che, sempre, non ci apparterrà.