Secondo Ali Kadri, la guerra non è un effetto collaterale ma un meccanismo con cui determinate élite accentrano il potere. È un ecosistema economico che vive della continuità del conflitto e dell’instabilità politica che ne deriva.

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Maurizio Bongioanni
04.12.2025
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Nel dibattito pubblico la guerra viene spesso rappresentata come il fallimento assoluto della politica, un collasso della diplomazia che lascia dietro di sé macerie materiali e morali. Eppure, in termini di economia politica, i conflitti armati non sono quasi mai un incidente di percorso. Sono, al contrario, uno dei meccanismi con cui determinate élite economiche e politiche consolidano potere, aprono nuovi spazi di accumulazione e ristrutturano rapporti di forza globali. A trarne vantaggio è una minoranza organizzata, capace di trasformare la distruzione in opportunità economica.
Questa dinamica è al centro dell’analisi di Ali Kadri, economista, Senior Fellow alla London School of Economics e autore del saggio “The Accumulation of Waste“, pubblicato da De Gruyter Brill. Nel suo lavoro, Kadri afferma che «sotto il capitalismo, le persone e la natura muoiono prematuramente». E che guerra e violenza non sono eventi eccezionali, ma componenti strutturali di un sistema che produce e gestisce «rifiuto umano, sociale e ambientale». La guerra, in questa prospettiva, non si limita a distruggere: prepara il terreno per nuove forme di accumulazione.
La guerra genera rifiuti materiali e sociali
Oltre a generare devastazione, la guerra produce ciò che Ali Kadri definisce “scarto”: popolazioni impoverite, economie smantellate, territori resi vulnerabili. È in questa condizione che il capitale globale trova terreno fertile per ridefinire regole, proprietà, mercati. La distruzione non è un effetto collaterale: è il presupposto strutturale affinché alcuni attori, pubblici e privati, possano ricostruire interi apparati economici a proprio vantaggio. La ricostruzione stessa diventa un settore redditizio, governato da imprese transnazionali, contractor militari, società di ingegneria e istituzioni finanziarie internazionali che impongono programmi di riforma profondi, spesso sganciati dai bisogni delle comunità colpite.
La guerra produce rifiuti materiali, dalle macerie urbane alle infrastrutture da rifare da zero, ma soprattutto genera rifiuti sociali: lavoratori senza diritti, dipendenti da aiuti esterni, comunità espropriate delle proprie risorse. È il contesto ideale per un capitalismo che prospera sulla vulnerabilità. Un territorio distrutto ha un valore economico inferiore: le terre costano meno, i salari precipitano, la regolamentazione ambientale e sociale si allenta, i governi perdono la capacità negoziale nei confronti degli investitori stranieri. L’intervento militare o l’occupazione diventano così fasi preliminari di un processo di “de-sviluppo”, utile a costruire economie completamente dipendenti dai centri imperiali e incapaci di gestire autonomamente le proprie risorse.
Perché, secondo Ali Kadri, la vulnerabilità è un mercato
Il meccanismo è chiaramente visibile nelle guerre del Medio Oriente degli ultimi decenni, in cui la distruzione generalizzata ha aperto spazio alla privatizzazione dei servizi essenziali, alla svendita delle risorse naturali e all’ingresso di imprese specializzate nella ricostruzione. I conflitti producono non soltanto debito pubblico, che diventa un potente strumento di controllo economico, ma anche condizioni politiche tali da poter introdurre, senza opposizione, nuove normative favorevoli agli investitori. La logica è simile a quella già osservata nei disastri ambientali o nelle crisi economiche profonde: la vulnerabilità è un mercato.
Kadri descrive questo processo come una forma di violenza sistemica. La guerra crea popolazioni “eccedenti”, rese superflue per la riproduzione del capitale e tuttavia funzionali a mantenerne l’equilibrio. Persone ridotte alla sopravvivenza, pronte ad accettare condizioni di lavoro sempre più precarie. Il conflitto, quindi, non è solo un’azione militare ma un dispositivo economico che produce forza lavoro iper-sfruttabile e territori da colonizzare economicamente. Le comunità locali diventano scarti sacrificabili, prive del potere di decidere sulle proprie risorse, rese silenziose in virtù di un’emergenza permanente.
Quali sono i rischi se la guerra viene raccontata come inevitabile
L’industria bellica, pur essendo il più evidente, è soltanto uno dei settori che traggono profitto da questo scenario. Le vendite di armamenti aumentano, le esportazioni militari crescono, gli Stati acquirenti si indebitano e consolidano rapporti geopolitici di dipendenza. Ma la filiera della guerra è molto più lunga. Include la sicurezza privata, la logistica, l’informatica militare, l’ingegneria civile, la gestione dei campi profughi, la sanità emergenziale. È un ecosistema economico che vive della continuità del conflitto e dell’instabilità politica che ne deriva.
L’aspetto più inquietante è che questi meccanismi trovano legittimazione narrativa, spiega Ali Kadri nel suo saggio. La guerra viene raccontata come inevitabile, la ricostruzione come generosa, il debito come necessario, la sicurezza come prioritaria rispetto ai diritti. Così, ciò che appare come una tragedia collettiva è in realtà una scelta economica che favorisce gruppi ristretti. Il risultato è una disuguaglianza estrema: disperazione per molti, crescita per pochi.
Rendere visibile questo legame tra guerra e profitto è fondamentale per un’informazione economica che non si limiti a descrivere gli effetti della violenza, ma indaghi le strutture che la rendono possibile e conveniente. Perché, come mostra Kadri, la guerra conviene davvero, ma solo a chi è in posizione di trasformare la distruzione in valore. A tutti gli altri restano le macerie, materiali e sociali, di un sistema che continua a nutrirsi della loro vulnerabilità.