SUL LIMITE
Lettera pastorale 2025
I Parte
L’ESPERIENZA DEL LIMITE
3. Il limite come luogo di benedizione
3.1 Un misterioso avversario: il maestro nascosto

Al guado del fiume Iabbok, nella notte più buia della sua vita, Giacobbe rimane solo. Ha fatto attraversare la famiglia, i servi, gli armenti. È il momento della verità, quello in cui non puoi più nasconderti dietro nessuna scusa, nessun inganno, nessuna protezione. Ed è proprio allora che «un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (Gen 32,25). Chi è questo avversario emerso dal buio? La Scrittura mantiene il mistero. Potrebbe essere tutto ciò che Giacobbe ha cercato di fuggire per vent’anni: il rimorso, la paura, il volto del fratello tradito. O forse è qualcosa di più grande: la vita stessa che viene a chiedergli il conto, il destino che lo raggiunge, un angelo, Dio che si fa lotta. Riconosciamo in questo avversario misterioso tutte quelle “situazioni-limite” che prima o poi bussano alla porta di ogni vita. Quando la malattia irrompe e cambia tutti i piani. Quando una crisi aziendale spazza via certezze costruite in anni di lavoro. Quando un lutto squarcia il tessuto degli affetti. Quando una relazione importante si spezza e ci si ritrova a dover reimparare a vivere in solitudine.
L’avversario ha qualcosa di enigmatico: non viene per distruggere ma nemmeno per consolare. Viene per trasformare. È il maestro più esigente che potessimo incontrare, quello che non accetta le nostre maschere, che ci costringe a guardare in faccia chi siamo veramente. La lotta dura tutta la notte. Non c’è una vittoria né si dà sconfitta. Nessuna soluzione facile. C’è il tempo lungo della resistenza, dell’attraversamento, della trasformazione che avviene goccia a goccia, come l’acqua che scava la pietra.
3.2 Il nome nuovo: quando l’identità si trasfigura
C’è qualcosa di profondamente paradossale nel fatto che Giacobbe riceve un nome nuovo proprio quando sta per tornare a casa. Dopo anni di fuga, di inganni, di vita altrove, nel momento in cui deve affrontare il fratello che ha tradito, si ritrova nella notte più buia a lottare con un essere misterioso. È una lotta corpo a corpo, senza esclusione di colpi, fino all’alba. E quando tutto sembra finito, quando Giacobbe ha il fianco slogato e non può più fuggire, ecco che il suo avversario gli dona un nome nuovo: «Israele perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (Gen 32, 29). Come se per ritrovare la strada di casa dovesse prima lottare fino allo sfinimento con il mistero stesso della vita.
Il nome nuovo non è un regalo gratuito. È il riconoscimento di una lotta sostenuta, di un confronto che Giacobbe non ha evitato. L’ingannatore è diventato il lottatore, colui che ha il coraggio di misurarsi con quello che non comprende, che non controlla, che lo spaventa. È proprio questo cambiamento così radicale – così intimo da toccare l’identità stessa, così faticoso da lasciare una cicatrice permanente – che gli permette di attraversare il guado e tornare alla terra dei suoi padri. Non è più l’ingannatore che era fuggito, ma nemmeno è diventato un altro. È Giacobbe-che-è-diventato-Israele attraverso la lotta, e solo così può affrontare Esaù, solo così può ricevere l’abbraccio che non si meritava, solo così può accogliere quelle lacrime che aveva causato.
La storia di Giacobbe diventa lo specchio di ogni vita umana, perché ogni esistenza conosce cambiamenti così profondi che sembrano toglierti l’identità e invece – misteriosamente – ti riportano a casa. Ma non sono cambiamenti dolci, graduali, indolori. Sono lotte. Sono quegli scontri notturni con la realtà che non vorremmo mai affrontare, quelle battaglie che ci la sciano segnati per sempre. La malattia che ci costringe a lottare con la fragilità del corpo, la perdita che ci obbliga a confrontarci con il dolore dell’amore, la crisi che ci mette faccia a faccia con la caducità delle nostre certezze, l’età che ci fa combattere con la fine dei nostri sogni. Momenti in cui ci svegliamo nella notte e non sappiamo più chi siamo, momenti in cui dobbiamo lottare fino allo sfinimento con quello che ci spaventa di più.
Esiste però anche un’altra forma di limite: quello che ci imponiamo per paura di uscire dalle nostre sicurezze. Il corto metraggio Il circo della farfalla di Joshua Weigel (2009) ne offre un esempio luminoso. Will, un uomo senza braccia e senza gambe, si è rassegnato a vivere come fenomeno da baraccone, convinto della propria inutilità. Quando Mr. Mendez, direttore del circo, sembra quasi deriderlo ricordandogli quanto sia diverso, Will reagisce: «Perché mi dici queste cose?». La risposta è illuminante: «Perché tu ci credi!». Il limite più invalicabile, spesso, si annida nelle nostre stesse convinzioni. Mendez lo sfida: «Se soltanto vedessi la bellezza che può nascere dalle ceneri… Più grande è la lotta e più glorioso il trionfo». Will deve imparare a cadere e rialzarsi da solo, finché non scopre di saper nuotare: «Fermi, fermi! Guarda! So nuotare!». In quell’istante di stupore gioioso, la maledizione diventa benedizione. Non è più “il fenomeno”, ma “un’anima coraggiosa”.
Il limite si trasfigura in dono quando accettiamo di cambiare lo sguardo su noi stessi. È proprio in questi attraversamenti agonici che qualcosa di essenziale viene alla luce. Come un diamante che nasce dal carbone sotto pressione, come una sorgente che zampilla dove tutto sembrava inaridito, la nostra identità più vera emerge non nonostante le lotte, ma attraverso di esse. Solo dopo aver combattuto corpo a corpo con la nostra aggressività essa può trasformarsi in determinazione; solo dopo aver lottato con il nostro orgoglio esso può maturare in dignità; solo dopo aver affrontato la nostra testardaggine essa può diventare perseveranza. Non cancelliamo quello che eravamo, ma lo integriamo in una storia più ampia, più saggia, più capace di abbracciare la complessità della vita – come fa Giacobbe, che non smette di essere Giacobbe ma diventa Israele, nome di un uomo ma anche di un popolo.
Questo processo di trasfigurazione è evento che riaccade ogni volta che qualcuno vive un cambiamento profondo e non lo trattiene dentro di sé, generando onde di bene che si propagano tutt’intorno. Il presbitero che invecchia e scopre il dono dell’ascolto; la famiglia che attraversa la tempesta e impara ad accompagnare altre famiglie in difficoltà; la comunità che vive lo scandalo e rinasce più autentica. Sono le “comunità matrici” che nascono proprio dove tutto sembrava finito: sorgenti di vita che zampillano perché qualcuno ha imparato la sapienza del limite, ha accettato di essere trasformato, ha trovato la strada di casa portando con sé un nome nuovo.
In fondo, ogni autentica educazione al limite è questo: non reprimere quello che siamo, ma permettere che si trasfiguri attraverso la lotta; non fuggire dai confronti che ci spaventano, ma attraversarli fino a scoprire che ci stanno riportando a casa; non temere di perdere il nostro nome, ma fidarci che ce ne sarà dato uno nuovo, più vero, più capace di dire chi siamo diventati dopo aver affrontato una prova tremenda.
Solo con quel nome e con quel vissuto tribolato, potremo riconoscere la strada, attraversare il guado, abbracciare chi ci aspetta dall’altra parte.
3.3 La ferita e la danza
Oltre al cambio di nome, la lotta lascia un altro segno indelebile: Giacobbe zoppicherà per sempre. Tuttavia, questa claudicanza non è una punizione, bensì un sigillo. Un promemoria incarnato di quell’incontro trasformante che ha segnato il passaggio dalla fuga alla benedizione. Da questo momento in poi, ogni passo del patriarca recherà memoria di quella notte, di quella lotta, di quella grazia ricevuta.
Vi è una sapienza profonda in questo zoppicare che parla direttamente alla condizione umana. La claudicanza costringe a un ritmo diverso: più lento, più attento. Non è più possibile fuggire in quel modo, come Giacobbe aveva fatto per vent’anni. È necessario sostare, appoggiarsi, talvolta chiedere aiuto. La ferita diventa così maestra di umanità autentica, educatrice a quella vulnerabilità che apre all’incontro genuino con l’altro.
Lo si constata nelle persone che hanno attraversato grandi prove: portano tutte una qualche forma di zoppia, visibile o nascosta, fisica, psicologica o spirituale. Ma proprio quella ferita le ha rese più vere, più capaci di compassione, più attente al dolore altrui. La sofferenza integrata – non subita – diventa sapienza condivisa, capacità di accompagnamento, ministerialità vissuta.
«Ho visto il tuo volto come si vede il volto di Dio», dice Giacobbe a Esaù (Gen 33,10). Dopo vent’anni di separazione, dopo tutto il male fatto e subìto, i due fratelli si ritrovano. E invece della vendetta temuta, c’è l’abbraccio, il pianto condiviso, il perdono. Un esito meraviglioso e imprevisto. Una rivelazione delle promesse inscritte nella vita.
Il regalo più prezioso per chi ha attraversato la notte del limite è la capacità di vedere oltre le apparenze, di riconoscere un bagliore dove altri vedono solo ombre. Chi è passato attraverso il buio sa apprezzare anche la più piccola scintilla di luce.
Qui si rivela il senso ultimo della lotta al guado: preparare Giacobbe all’incontro ancora più difficile con il fratello offeso. Il volto dell’avversario misterioso aveva anticipato il volto di Esaù che perdona. Il limite che sembrava invalicabile – l’offesa, il risentimento, la paura della vendetta – si trasforma nella soglia di una comunione più profonda di quella che avevano conosciuto da bambini.
L’esperienza del limite attraversato genera dunque uno sguardo rinnovato. Gli occhi di Giacobbe, feriti dalla lotta notturna, imparano a riconoscere la presenza divina nei volti umani ma anche nei luoghi del suo passare. Non più lo sguardo dell’ingannatore che calcola come approfittare dell’altro, ma lo sguardo contemplativo di chi sa riconoscere il sacro nel quotidiano. Questo è il dono più prezioso della sapienza del limite: la capacità di trasformare ogni incontro in luogo di rivelazione. Come Maria che, dopo aver custodito nel cuore l’annunciazione dell’angelo, sa riconoscere la presenza di Dio nel bambino che porta in grembo e nel figlio che cresce, così chi ha attraversato la propria notte di lotta impara a riconoscere l’opera di Dio nelle storie altrui. Il fratello non è più il concorrente da superare, ma il compagno di un cammino condiviso verso la pienezza dell’umano. L’altro – qualunque altro: il coniuge, il collega, lo straniero, persino il nemico e una pietra – diventa occasione di epifania, luogo dove sperimentare che il limite può trasformarsi in benedizione condivisa.
La claudicanza si trasforma così in una danza nuova. Non la danza di chi finge che tutto proceda senza intoppi, ma di chi ha imparato a muoversi con grazia dentro i propri limiti. Come quei maestri di danza che integrano nella coreografia anche l’imperfezione, trasformandola in elemento di bellezza inaspettata.
Questa danza ferita costituisce un antidoto alla mentalità prestazionale del nostro tempo. Nel contesto ecclesiale, questa mentalità si manifesta attraverso la tendenza a quantificare la vita spirituale con parametri che tradiscono la natura stessa del cammino di fede: il numero di preghiere recitate, la frequenza ai sacramenti, l’intensità dell’impegno pastorale. Si genera così un paradosso per cui la crescita spirituale viene misurata con criteri che appartengono alla logica dell’efficienza produttiva. Mi ha colpito nel rileggere nella prima lettera pastorale del servo di Dio, mons. Giuseppe Carraro, intitolata “Per un anno di spiritualità” (29 novembre 1959, I domenica di Avvento!) quanto segue: «La tendenza propria del nostro tempo a tradurre in cifre, in curve e diagrammi tutti i fenomeni, anche quelli morali e sociali, ci spingerebbe a rilevare statistiche e percentuali sul numero dei cristiani che vivono, o non vivono, abitualmente in stato di grazia. Ma si tratta di realtà tutte interiori, delle quali è assai difficile e complesso avere indicazioni misurabili: la carta geografica della presenza della grazia tra gli uomini, se è lecito usare questa immagine, è nota solo a Dio».
In effetti, ieri come oggi, siamo tentati da una spiritualità ansiosa che confonde l’intensità con l’autenticità. Il credente finisce per vivere in costante tensione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, perdendo di vista la grazia che opera nella sproporzione tra la propria povertà e l’amore di Dio. La logica prestazionale, inoltre, trasforma il tempo in una risorsa da sfruttare al massimo, mentre la sapienza del limite insegna che esistono tempi che non producono risultati visibili, ma che sono necessari per la maturazione interiore. I tempi di apparente sterilità spirituale, le stagioni di aridità, i periodi di dubbio non sono inefficienze da superare rapidamente, ma momenti costitutivi del cammino di fede, che richiedono la pazienza di chi sa attendere la primavera anche nell’inverno più rigido.
Contro questa logica, la claudicanza di Giacobbe propone una pedagogia dell’imperfezione che riconosce nella fragilità non un ostacolo alla santità, ma la condizione stessa in cui la grazia può manifestarsi. Questa pedagogia insegna a distinguere tra perfezionismo, che è una forma di orgoglio spirituale, e perfezione evangelica, che è disponibilità alla trasformazione continua. Il perfezionismo paralizza perché pone obiettivi irraggiungibili, mentre la perfezione evangelica libera perché riconosce che la santità è opera di Dio nell’accoglienza umana. Nel ministero pastorale, questa prospettiva suggerisce di privilegiare l’accompagnamento dei processi rispetto alla valutazione dei risultati, formando comunità che sanno celebrare i piccoli passi piuttosto che pretendere conversioni spettacolari, che sanno sostenere chi attraversa crisi di fede senza pressioni per una rapida risoluzione, che riconoscono nella lentezza della crescita spirituale non un limite da superare, ma un ritmo da rispettare.
Il pastore che ha integrato le proprie ferite conosce la forza della debolezza evangelica. Sa che la propria claudicanza non lo rende meno credibile, ma più autentico. Comprende che la chiesa stessa procede zoppicando attraverso la storia, eppure proprio in questa imperfezione manifesta la potenza di Dio che si compiace di abitare i vasi di creta della nostra umanità. «Di ogni cosa perfetta ho visto il limite» (Sal 119,96), recita il Salmista. Non è un lamento, ma una scoperta luminosa. Il limite non è il nemico della perfezione: ne è la ondizione. Senza limiti non esisterebbero forme e senza forme non esisterebbe bellezza.
Al sorgere del sole, Giacobbe zoppica verso il futuro. Ma in quella claudicanza c’è più forza che in mille passi sicuri. Perché è la claudicanza di chi ha lottato con il mistero e ne porta i segni; di chi è stato ferito e benedetto; di chi ha scoperto che i limiti non sono il luogo dove Dio si ferma, ma dove sceglie di incontrarci. È l’arte che tutti siamo chiamati a imparare: non l’arte di essere perfetti, ma l’arte di essere veri; non l’arte di non avere limiti, ma l’arte di abitarli con grazia; non l’arte di non cadere mai, ma l’arte di rialzarsi trasformati. Come Giacobbe che diventa Israele, anche noi possiamo scoprire che c’è un nome nuovo che ci attende oltre la notte della lotta. Un nome che non cancella chi siamo stati, ma che integra tutto in una storia più grande. Un nome che solo il limite attraversato può rivelarci.