2. Il limite come soglia

2.1 Limite e confine

La distinzione tra limite e confine è decisiva e non va data per scontata. La tradizione filosofica ci ha insegnato a riconoscere questa differenza cruciale. Pensiamo per un momento alla differenza tra un muro e una riva. Il muro dice “fino a qui”. È una condizione in cui non si riesce a vedere oltre e tutto sembra dividersi in un aldiquà e un aldilà della storia. È l’esperienza di ogni vita esiliata: nel vissuto del lutto, dell’abbandono, della malattia, dei tanti no della vita, si ha l’impressione di sbattere contro barriere invalicabili. La riva del mare racconta invece tutt’altra storia. Non è né acqua né terra, ma il luogo dove acqua e terra si incontrano. È una soglia che divide, ma anche unisce uno spazio; che separa, ma anche permette l’incontro. Qui possiamo sostare, passare, tornare indietro. È la linea di un orizzonte vivo che respira e che racconta di un andare e venire senza soluzione di continuità. Come si legge nel vangelo di Marco, Gesù è colui che non sta fermo nemmeno sulla soglia e ci invita a fare altrettanto: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35).

Questa immagine della riva come soglia vivente acquista un significato particolare se pensiamo alla nostra relazione con Dio. Siamo come bambini che sulla spiaggia giocano distrattamente con i granelli di sabbia, inconsapevoli di trovarsi «sulla riva del mare infinito del mistero» (secondo l’immagine attribuita a Karl Rahner). Ogni momento della nostra storia, per quanto contingente o apparentemente insignificante, può diventare luogo dove l’infinito si fa presente. Il limite non è più un muro che esclude, ma una soglia che accoglie e fa passare, trasformando il nostro mondo. Questa immagine non perde la dimensione relazionale: il limite è qual cosa che si fa soglia in quanto riguarda ciò che accade tra di noi, e non solo in noi.

La scoperta del limite come soglia apre, dunque, una questione fondamentale come attraversare quelle porte che si aprono davanti a noi? Come non temere che esse siano troppo strette per la nostra umanità? Emily Dickinson ci offre una risposta che è insieme poetica e sapienziale:
«Non sapendo quando l’alba possa venire lascio aperta ogni porta, che abbia ali come un uccello oppure onde, come spiaggia». (Emily Dickinson, 1884)

2.2 La soglia minacciata: tra violenza e attenzione

La trasformazione del limite in soglia non è spontanea: occorre un lavoro attento perché accada in modo fecondo e non precario. In questi giorni in cui le notizie ci raggiungono cariche di violenza – guerre che divampano, mani che grondano sangue, città che bruciano, volti che si chiudono nell’odio – sembriamo testimoni di un mondo alla deriva dopo aver fatto naufragio. La violenza nasce sempre quando il limite viene rifiutato e si pretende di vivere nell’illimitato, e l’ego domina il mondo come se fosse suo. Non è un esito casuale. La violenza è illimitata per natura. Si espande come un incendio in un momento di siccità, travolge gli argini come un fiume in piena, umilia, devasta e uccide qualunque vita le si pari davanti. Non conosce misura. Non ha freni efficaci nel mondo ordinario, né dentro la psiche umana né fuori di noi. Anzi, tende a ricaricarsi raccogliendo tutta la rabbia del mondo.

La violenza, sia detto per inciso, non viene mai dal nulla. Nasce da un io che si crede onnipotente e che nega i limiti della realtà. Così facendo, entra nel regno dell’immaginario, dell’irreale, del sogno, e si permette di annientare le alterità incontrate. È la stessa dinamica che vediamo in chi, nella propria casa, pretende che tutto ruoti intorno ai propri umori, nel professionista che non sopporta critiche perché intaccano la sua immagine perfetta, nel genitore che vive i figli come prolungamento narcisistico di sé.

L’antidoto a questa violenza illimitata non è una forza contraria di contenimento, non è un argine che opponiamo alla furia. È qualcosa di infinito che è in noi e che opera uno spostamento miracoloso: l’attenzione. L’attenzione è come il ritorno alla riva, il riconoscimento che esiste una soglia da rispettare tra noi e il mondo, tra noi e l’altro.

L’ attenzione scioglie la dinamica violenta. È come un’inversione di marcia dell’anima e della storia. È una forma di preghiera che non chiede nulla per sé: non pretende di cambiare il mondo secondo i propri desideri, si fa presente alla realtà così com’è, con le sue ferite e le sue domande, con i suoi bisogni e le sue contraddizioni. È lo sguardo che sa fermarsi sulla soglia, che non pretende di possedere ma sa contemplare. Questo sguardo accoglie la semplice presenza delle cose, perché le ama nella loro irriducibile alterità e ne accetta la resistenza e il mistero; riconosce l’altro nel suo volto autentico e il proprio dolore nella sua verità, senza la necessità di alterarne la natura. È l’arte di sostare sulla soglia senza violentarla. Questa sapienza ha conseguenze profonde per come educhiamo e come ci educhiamo. Viviamo in un mondo che ha paura del limite perché lo confonde con la morte e con la disperazione. Ma il limite è vita. È la forma che permette all’essere di esistere e di elaborare il dolore. Senza limite non c’è bellezza, non c’è riconoscimento, non c’è amore possibile.

L’attenzione ci insegna inoltre che la preghiera più alta non è quella che chiede miracoli, ma quella che impara a vedere i miracoli che già ci sono: il fatto che esista qualcosa piuttosto che nulla, che un fiore cresca dalla terra, che un bambino sorrida, che sia possibile perdonare e ricominciare. L’attenzione è la forma di amore più radicale perché ama senza dominare, guarda senza giudicare, riceve e dona senza pretendere. Questo è ciò di cui abbiamo più bisogno oggi: imparare di nuovo l’arte dell’attenzione. Non l’attenzione frenetica dello schermo che tutto consuma e tutto dimentica, ma l’attenzione contemplativa che sa sostare, che sa aspettare, che sa riconoscere nel limite non un nemico da abbattere ma un maestro da onorare. Nel frammento del mondo si nasconde spesso l’universo.

2.3 Lo scioglimento: quando l’io diventa dimora

«L’acqua la insegna la sete», scriveva Emily Dickinson. Significa che nella situazione del limite impariamo a riconoscere non solo i nostri bisogni, ma anche la qualità del nostro desiderare. Quando ci troviamo al confine delle nostre possibilità, emerge infatti una domanda decisiva: siamo esseri che pretendono soddisfazione a tutti i costi, o coppe capaci di accogliere con gratitudine il bene ricevuto?

Forse anche noi, in qualche momento della vita, abbiamo coltivato l’illusione di essere autosufficienti. È umano: cresciamo pensando che se ci impegniamo abbastanza, se siamo abbastanza bravi, potremo controllare tutto quello che ci accade. E così, senza rendercene conto, iniziamo a vivere come se il mondo dovesse adattarsi ai nostri bisogni. Piano piano, trasformiamo le relazioni in strumenti per il nostro benessere, rifiutando l’idea di dipendere da qualcuno o da qualcosa. Il risultato è paradossale: costruiamo la forma di dipendenza più amara che esista.

La vita smaschera presto l’illusione e interviene con modi tutti suoi, riportandoci al limite. La fatica è inaggirabile, ma spesso concede l’opportunità di maturare sul piano spirituale. A volte i limiti ci guariscono pure: una bocciatura può aprire percorsi formativi inaspettati, una malattia ci può ricondurre all’essenziale, una crisi relazionale può riequilibrare la nostra vita affettiva. Sono tutti inviti della vita a un cambio di passo per andare più lontano, oltre noi stessi.

Il processo di scioglimento dell’ego non avviene tutto in una volta. È fatto di piccole morti quotidiane: la rinuncia a controllare l’umore di chi vive con noi, l’accettazione che questa generazione abbia una strada diversa dalla precedente, il riconoscimento che la nostra opinione non è sempre la più importante ai tavoli di lavoro. Ogni volta che lasciamo andare un pezzetto della nostra onnipotenza immaginaria, si apre uno spazio nuovo per accogliere la vita così com’è e non come vorremmo che fosse. È qui, nelle cavità che la vita ci offre per sospendere il ritmo dei giorni, che avviene il miracolo dello scioglimento: l’io rigido si ammorbidisce fino a diventare ricettivo. Come l’argilla nelle mani del vasaio, che deve essere morbida per prendere forma. Allora una persona anziana che accetta di farsi aiutare scopre la tenerezza di chi si prende cura di lei. Una figura autorevole che riconosce il proprio errore senza sentir si sminuita esprime un’umanità autentica. Chi vive nella malattia e si trova in balia del dolore può scoprire che le sue parole possono essere terapeutiche per altri.

L’acqua che simbolicamente evoca questa trasformazione è quella del desiderio. Come leggiamo nel Salmo 104, Dio pone un limite alle acque: non lo passeranno e non torneranno a coprire la terra. Qui il limite ci appare ancora una volta come custodia della vita: non impedimento, ma condizione perché ogni cosa possa esistere nello spazio e nel tempo possibili. L’io che ha conosciuto i propri confini, dunque, non è un io diminuito, ma un io finalmente libero di essere sé stesso senza preoccuparsi di diventare tutto.

Sciolto nelle sue pretese di onnipotenza, il soggetto può rinascere come spazio ospitale. Non più la fortezza che si difende dal mondo, ma la casa che accoglie la vita. È la trasformazione che vediamo in chi ha attraversato grandi dolori senza indurire il cuore: persone presso cui altri cercano rifugio, non perché abbiano tutte le risposte, ma perché sanno sostare nelle domande. La loro presenza non pesa, libera. La loro compagnia non giudica, accompagna. Questo scioglimento dell’io in spazio ospitale è il frutto più maturo della sapienza del limite. Non è rinuncia alla propria identità, ma scoperta di quella più vera: un’identità relazionale che esiste nel dare e ricevere, nell’essere custodita e nel custodire. L’io ha imparato che la vita non è un possesso da difendere ma un dono da condividere, non un diritto da rivendicare ma una grazia da celebrare.

2.4 Il limite della sventura e la porta del cielo

«C’è un limite a tutto», diciamo spesso. Anche al dolore e alla sua sopportazione? Vengono allora in mente le madri e i padri che hanno perso un figlio o una figlia, e che per questo si ritrovano in un deserto senza nome. Un dolore che non ha stagioni né consolazioni. Qui la porta tra il prima e il dopo è una porta dell’inferno. Nel cuore, resta per sempre un’impronta vuota lasciata da sguardi, risate, gesti e passi leggeri che non tornano più. In questa cattedrale del silenzio, il linguaggio impara a usare il condizionale: “sarebbe stato, avrebbe fatto, avremmo visto…”. L’esperienza è durissima, ma anche rivelativa di un fatto che tendiamo a non cogliere: l’amore è sconfinato, passa oltre, trascende le assenze, si infila nelle pause della storia. E allora si scopre che la porta dell’inferno era preceduta da un’altra porta: quella che si attraversa quando si mette al mondo qualcuno, quando si ama qualcuno, quando si condivide una passione con altre persone. Non è certo una consolazione. Ma è forse una strada per comprendere che cosa significhi vivere sulla soglia anche quando tutto crolla. Quando il dolore va oltre un certo limite, si può parlare di sventura, dice Simone Weil.

La sventura è la sofferenza che ti ha marchiato l’anima e che te l’ha resa schiava per sempre. Accade quando un avvenimento afferra una vita, la sradica e la colpisce in ogni sua dimensione. In quel momento, anche Dio sembra assente. Non si esce da questa situazione, se non continuando ad amare a vuoto, nel vuoto, attraverso il vuoto che si è aperto davanti ai nostri passi. Mi viene in mente una donna, di nome Giovanna, che nella notte del terremoto di Amatrice (24 agosto 2016) in una manciata di secondi ha perduto il padre, la madre, il figlio, la figlia, lo sposo (!).

La sventura è il vero enigma della vita. Inutile cercare risposte o giustificazioni. Se ne troviamo, non sono certamente quelle vere. Semplicemente, non ci si riconosce più e si smette anche di combattere. Ci si sente maledetti e basta. Il mondo non ci può raggiungere in alcun modo. Quella vibrazione inudibile si offre con una frequenza che nessuno raccoglie. La disperazione si consuma in sé stessa e diventa angoscia. Di fronte a questo mutismo impenetrabile, occorre fermarsi: l’umano sperimenta tutta la propria impotenza.

Ma c’è un’altra impotenza, più sottile e quotidiana. È l’amara esperienza di genitori, amici, pastori, terapeuti che si scontrano con una barriera invisibile quando cercano di aiutare qualcuno che, giorno dopo giorno, si chiude e si allontana. Si scopre allora che tutto il nostro amore, tutta la nostra dedizione e tutta la nostra competenza non bastano. Anche questa forma di limite può diventare maestra: ci ricorda che non siamo noi i “salvatori”. Il nostro compito è offrire presenza e custodire lo spazio dell’incontro, abitando una sospensione che non pretende di forzare i tempi e le condizioni delle biografie. In ogni caso, non dovremmo mai lasciarci annichilire dallo sconforto e dalla nostra impossibilità di alleviare il dolore – nostro e altrui – che ci getta ai piedi della croce. Se in quelle condizioni si resta ancora capaci di amare, nella vita ferita si forma una sorta di varco infinitamente piccolo ma estremamente prezioso: da quella fessura nella storia Dio riesce a passare e a raggiungere la sua creazione. Non è una benedizione del male, né il frutto di una cultura sadica o masochista (da cui a dire il vero non sempre il cristianesimo si è tenuto alla larga). È invece la buona notizia della salvezza.

Su quella soglia non si resta fermi. C’è un tempo di entrata, fatto di silenzio, di preghiera, di sentimento. C’è un tempo di uscita, verso i fratelli e le sorelle, ma anche verso il creato intero. È così che possiamo diventare, a nostra volta, porte aperte per chi si troverà a bussare e a chiederci il per messo di entrare nel nostro spazio e nel nostro tempo di vita. Questo movimento di entrata e uscita è il ritmo stesso della vita spirituale matura: nessuna alienazione e nessun annullamento, solo il respiro profondo di chi ha imparato che ogni limite può diventare soglia, ogni ferita può aprirsi alla guarigione, ogni porta chiusa può rivelare un’altra porta aperta. La vita non finisce mai di insegnarci l’arte dell’attraversamento, l’arte di trasformare ogni confine in un luogo di incontro, ogni fine in un nuovo inizio.