III Domenica di Avvento – Anno A
Domenica Gaudete
Matteo 11, 2-11

2 Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: 3 “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. 4 Gesù rispose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: 5 I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, 6 e beato colui che non si scandalizza di me”.
7 Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8 Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! 9 E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. 10 Egli è colui, del quale sta scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”.
11 In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.
(Letture: Isaia 35,1-6.8.10; Salmo 145; Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11).
Il miracolo del seme e del lievito che non si «spegne»
Ermes Ronchi
Sei tu o no quello che il mondo attende?. Grande domanda che permane intatta: perseveriamo dietro il Vangelo o cerchiamo altrove?
Giovanni è colto dal dubbio, eppure Gesù non perde niente della stima immensa che nutre per lui: È il più grande! I dubbi non diminuiscono la fede del profeta. Così è per noi: non esiste fede senza dubbi; io credo e dubito, e Dio continua a volermi bene; mescolo fede e dubbi e la sua fiducia resta intatta.
Sei tu? Gesù non risponde con argomentazioni, ma con un elenco di fatti: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, guariscono, si rimettono in cammino hanno una seconda opportunità, la loro vita cambia.
Dove il Signore tocca, porta vita, guarisce, fa fiorire.
La risposta ai nostri dubbi è semplice: se l’incontro con Lui ha cambiato qualcosa, ha prodotto gioia, coraggio, fiducia, apertura del cuore, generosità, bellezza del vivere, se vivo meglio allora è lui quello che deve venire.
I fatti che Gesù elenca non hanno cambiato il mondo, eppure quei piccoli segni bastano perché non consideriamo più il mondo come un malato inguaribile. Gesù non ha mai promesso di risolvere i problemi della storia con i suoi miracoli. Ha promesso qualcosa di molto più grande: il miracolo del seme, il lavoro oscuro ma inarrestabile del seme che fiorirà. Non ci ha fornito pane già pronto, ma un lievito che non si spegne.
Sta a noi ora prolungare i gesti che Gesù elenca: «Se io riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 274).
La fede è fatta di due cose: di occhi che vedono il sogno di Dio e di mani pazienti e fiduciose come quelle del contadino che «aspetta con costanza il prezioso frutto della terra» (Giacomo 5,7). Di uno stupore, come un innamoramento per un mondo nuovo possibile, e di lavoro concreto per volti e nomi che riempiono il cuore. Anche di fatica: «Fino a che c’è fatica c’è speranza» (don Milani).
Beato chi che non si scandalizza di me. Gesù portava scandalo e lo porta oggi, a meno che non ci facciamo un Cristo a nostra misura e addomestichiamo il suo messaggio: non stava con la maggioranza, ha cambiato il volto di Dio e del potere, ha messo pubblicani e prostitute prima dei sacerdoti, ha fatto dei poveri i principi del suo regno.
Gesù: un uomo solo, con un pugno di amici, di fronte a tutti i mali del mondo. Beato chi lo sente come piccolo e fortissimo seme di luce, goccia di fuoco che vive e opera nel cuore dell’uomo. Unico miracolo di cui abbiamo bisogno.
SEI TU?
Clarisse di Sant’Agata
In questa terza domenica d’Avvento, che la tradizione liturgica definisce “Gaudete”, ricorre il tema della gioia a partire dall’antifona d’ingresso: “Rallegratevi nel Signore sempre: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino”. Così anche nella prima lettura tratta dal profeta Isaia, il quale arriva a dire che il deserto è chiamato a rallegrarsi; anche l’apostolo Giacomo ci invita ad un’attesa paziente, nella certezza che le promesse si compiranno: “siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore”. Infine la figura di Giovanni Battista che incontriamo nel Vangelo di oggi ci mostra la gioia di scoprire il vero volto del Messia, Colui che deve venire.
Giovanni il Batista, è il profeta la cui missione era “annunziare Colui che doveva venire”, infatti si era sentito chiamato da Dio al deserto e con una piccola comunità di discepoli, era in attesa del Messia ed egli dice di sé di essere “voce di uno che grida nel deserto preparate la via al Signore” (Gv 1,23).
Egli che non conosceva e non sapeva, diviene voce di una parola divina: “la Parola di Dio venne su Giovanni” (Lc 3,2), è voce di un uomo mandato da Dio per annunciare la Parola incarnata: l’uomo-Dio, il Verbo, Gesù. Giovanni dopo l’incontro con Gesù è voce nuova, voce piena di Spirito Santo che afferma “ho visto lo Spirito scendere come colomba dal cielo e posarsi su di lui… Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio” (Gv 1,32.34). Ancora, per divina rivelazione Giovanni aveva visto in Gesù, un suo discepolo, “l’Agnello di Dio, Colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,36).
Come collocare allora la domanda di Giovanni: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?”. Per poter entrare vediamo il contesto storico. L’evangelista Matteo ci dice che Giovanni si trovava in carcere dove Erode Antipa lo aveva rinchiuso a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, perché Giovanni gli diceva: “non ti è lecito tenerla” (Mt 14, 3-4) e dalla prigione seguiva l’attività del Messia per il tramite dei suoi discepoli. Ma il comportamento mite e umile di Gesù (amico dei poveri, che mangia con pubblicani e peccatori, che non digiuna, che consola e perdona le prostitute, ordina di lasciar crescere la zizzania con il buon grano, insegna che bisogna lasciar trionfare la misericordia sulla giustizia) si scontra con l’idea differente di Messia del Battista: “giustiziere”, “giudice” con la scure in mano per tagliare gli alberi che non danno frutto e con il ventilabro per separare la pula, degna del fuoco, dal buon grano.
E’ questa la ragione per cui Giovanni Battista manda alcuni dei suoi discepoli ad interrogare Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). Giovanni è colto dal dubbio sull’identità del Messia; ma proprio qui sta la grandezza del Battista, da voce si fa ascolto, non si dà una risposta da sé ma lascia che sia Gesù stesso a dargliela. Giovanni si apre all’ascolto, alla novità di Dio anche se la sua visione del Messia non corrisponde alle opere che Gesù compie.
Anche per noi, quando come Giovanni ci viene un momento di scoraggiamento, di oscurità e di dubbio (Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?), il rimando alla Parola di Dio e ai segni che accompagnano la sua presenza efficace, basta a restituire fiducia.
Sei Tu? Gesù risponde a Giovanni Battista elencando le opere profetizzate da Isaia (Is 35,5-6; 29,18-19; 26,19) e che Egli compie come “Inviato di Dio”: “i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i sordi odono, i lebbrosi sono sanati, i morti risorgono, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,5).
Gesù non risponde con argomentazioni o semplicemente dicendo “sì, sono io”, ma con un elenco di fatti che gli stessi inviati hanno udito e visto perché non le parole possono convincere ma le opere. Dove il Signore passa e tocca sana e ridona vita.
Sei Tu? Affiorano anche a noi degli interrogativi e la risposta è semplice: se l’incontro con Lui, il Signore, ha cambiato qualcosa nella mia vita, se il mio cuore si è aperto alla gratuità, al dono, all’amore allora è Lui il Veniente, Colui che attendo.
Gesù poi conclude la sua risposta con una beatitudine: “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”(Mt 11,6). La beatitudine del discepolo sta nell’accettare Gesù per quello che è e non per l’idea che egli ha di lui. Qui è la povertà: accogliere un messia debole, mite, umile, che non fa la guerra, accettare che la misericordia trionfa sulla giustizia. E’ lo scandalo della misericordia di Gesù che disorienta coloro che attendevano un Messia potente. E’ lo scandalo del suo amore sconfinato fino a morire in croce che lascerà sconcertato prima Giovanni Battista e in seguito, Pietro e tutti gli altri discepoli. S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi dice: “…noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1,22-25). A questo proposito osserva Bonhoeffer con S. Paolo: “Dio non ci salva per la sua onnipotenza ma per la sua impotenza manifestata in Cristo crocifisso”.
“Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”, il dubbio di Giovanni non fa cambiare la stima che Gesù ha di lui e sente di dover dire alla folla una parola su di lui e l’Evangelista pone sulle labbra di Gesù una descrizione del Battista molto articolata, dicendo chi era veramente. Giovanni era un profeta, un portavoce di Dio, il messaggero, il precursore, un uomo saldo che proclamava la verità anche davanti ai potenti della terra (Mt 14,3-12), un uomo povero e ascetico come tutti gli inviati di Dio (Mt 3,4) e Gesù stesso afferma: “In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11,11). Il più piccolo infatti è Gesù stesso il quale si presenta come Servo che si è abbassato fino all’ultimo posto, che è stato rifiutato, schernito fino alla condanna di morte sulla croce.
Brevi note sulle altre letture bibliche
Enzo Bianchi
Isaia 35,1-6.8.10
Occorre rallegrarsi, cantare perché si avvera la promessa che il deserto, terra desolata, diventa una terra feconda e rigogliosa. È una gioia cosmica, che coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche il deserto e la steppa. Il deserto non solo non avanza ma, grazie alla manifestazione della gloria del Dio vivente, si trasforma in un bosco come quelli del Libano, in una prateria fiorita come i monti del Carmelo e del Saron. Il grido che risuona è dunque un invito al coraggio per chi ha le mani fiacche, le ginocchia vacillanti, il cuore spezzato… Dio viene a salvare il suo popolo, ed ecco la fine delle sofferenze e il dono della pienezza, dell’integrità, della salute e della pace: il pellegrinaggio verso Gerusalemme può quindi avvenire su una strada sicura e senza ostacoli.
Lettera di Giacomo 5,7-10
L’apostolo chiede alla comunità cristiana di non stancarsi nell’attesa della venuta gloriosa del Signore. Per tre volte risuona il verbo makrothyméo, che indica l’essere pazienti, ma soprattutto il sentire in grande. È un atteggiamento decisivo per poter discernere la parousía, la venuta del Signore, e non fermarsi invece alla cronaca mondana: questa venuta, infatti, si è avvicinata, accelera, incalza. E cosa richiede questa attesa del Giudice? Che i cristiani non si giudichino l’un l’altro, ma nella carità reciproca confidino nella misericordia del Signore. L’esempio viene dai profeti, i portavoce di Dio, che hanno mostrato sottomissione (kakopathía) e pazienza (makrothymía), perseverando fino alla fine, fino all’incontro con il Veniente.
Vangelo Mt 11,2-11
Il più grande fra i nati da donna
Enzo Bianchi
In questi tempo dell’attesa del Veniente le tentazioni sono molte: perché continuiamo ad attendere, mentre passano i millenni? Chi è il Veniente che sarà manifestato da Dio? In questa attesa non ci sbagliamo? Anche chi ha una fede salda può conoscere queste tentazioni e non è esentato dall’attraversare ore di desolazione e di oscurità, chiedendosi se non si è sbagliato, se non ha frainteso la promessa del Signore. Perché anche una vita che vuole essere convinta risposta a una chiamata di Dio, anche una vita impegnata nella sequela di Gesù, può giungere a chiedersi se tutta l’avventura non sia stata un’illusione… Soprattutto quando si cerca di valutare i frutti della fatica fatta e l’esito del cammino percorso, tutto può apparire deludente, non all’altezza di ciò che si era sperato e perseguito.
Nel vangelo secondo Matteo questa prova viene vissuta anche da Giovanni il Battista. Si era sentito chiamato da Dio al deserto, aveva radunato una piccola comunità di discepoli in attesa del Messia e per rivelazione di Dio aveva visto in un proprio discepolo, Gesù, il Veniente al quale egli doveva preparare la strada. Fedele alla parola di Dio contenuta nella profezia e da lui meditata e assimilata, nell’annunciare quella venuta e quella presenza Giovanni si era servito delle immagini tradizionali: sarà un uomo forte, ripieno della forza dello Spirito santo, sarà il Salvatore e il Giudice con la scure in mano per tagliare gli alberi infruttuosi e con il ventilabro per separare la pula, degna del fuoco, dal buon grano. Aveva predicato l’urgenza della conversione, del ritorno al Signore, per sfuggire dalla collera, passione di giustizia di Dio che viene a visitare il suo popolo (cf. Mt 3,1-12). Dopo aver anche immerso Gesù nel Giordano e averlo indicato a Israele (cf. Mt 3,13-17), Giovanni era stato arrestato da Erode (cf. Mt 4,12): allora Gesù aveva abbandonato il deserto della Giudea per dare inizio al suo ministero di predicazione del Regno in Galilea (cf. Mt 4,17).
Proprio mentre è in prigione nella fortezza di Macheronte, presso il mar Morto, Giovanni riceve notizia dell’attività e dello stile di Gesù: è l’ora della prova. In carcere, abbandonato da tutti, prigioniero tra quattro mura, in attesa della propria condanna da parte di Erode, consapevole che la sua fine non può essere diversa da quella dei profeti, Giovanni si interroga sconcertato e forse anche confuso: chi aveva annunciato? Il Messia? Ma il Messia libera i prigionieri, mentre lui marcisce in carcere, in catene. Aveva annunciato l’Inviato di Dio? Ma Gesù non sembra compiere il giudizio dei malvagi e dei giusti. Non succede nulla di ciò che era stato previsto dai profeti per il giorno del Signore. Giovanni aveva forse compreso male la parola del Signore che gli era stata indirizzata, oppure si era illuso di sentirla nel proprio cuore? C’è un evidente contrasto tra ciò che aveva annunciato e ciò che si sta realizzando attraverso Gesù! E poi alcuni tra i discepoli di Giovanni sono anche scandalizzati dal comportamento di Gesù, che non digiuna più, come essi fanno (cf. Mt 9,14-17), che non disdegna di mescolarsi ai peccatori (cf. Mt 9,9-13). Separazione dai peccatori e vita ascetica nel deserto non sembrano essere tratti distintivi di Gesù.
Per queste ragioni Giovanni dal carcere manda alcuni suoi discepoli a interrogare Gesù stesso: “Sei tu colui che deve venire (ho erchómenos) o dobbiamo aspettare un altro?”. Ecco la grandezza di Giovanni: nel buio della prova non decide da sé, non si dà una risposta, ma lascia che sia Gesù a dargliela. Anche se non riesce a vedere una corrispondenza tra la propria visione del Veniente e la sua realizzazione pratica da parte di Gesù, in mezzo ai propri dubbi lascia che sia Gesù stesso a spiegarsi e a decidere. E Gesù non risponde direttamente: “Sono io”, ma replica con la testimonianza del suo operare, in conformità alla missione del profeta anonimo annunciato da Isaia (cf. Is 61,1-3). Scegliendo alcuni testi profetici a preferenza di altri (cf. Is 25,19; 29,18-19; 35,5-6), indica quale tipo di Messia veniente egli sia, non un giustiziere, non un potente trionfante, ma uno che guarisce, fa il bene, consola e soprattutto si rivolge ai poveri: “Andate e annunciate (apanghéilate) a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo, la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”.
Gesù può solo dire a Giovanni che le sue opere sono realizzazione delle promesse di Dio, ma pur vedendo queste opere è possibile restare delusi da chi le compie: per questo è beato chi riesce ad aver fede nella sua umile, mite, povera persona. Ma se il profeta Giona era stato deluso da Dio, Giovanni non lo è dalle parole di Gesù e aderisce a esse, riconoscendo a lui l’ultima e decisiva autorità. Gesù a questo punto sente il dovere di dire alla folla una parola su Giovanni. Chi era veramente costui? Un uomo saldo e convinto, che non tremava davanti ai poteri di questo mondo (cf. Ger 1,17-19): il contrario di una canna sbattuta a ogni soffio di vento. Un uomo roccioso, con una postura diritta, che non si piegava davanti a nessuno se non al Signore. Un uomo rimasto sempre lontano dai palazzi dei re e dei sacerdoti. Un uomo che non conosceva le vesti sfolgoranti, preziose o morbide: non frequentava salotti e sapeva tenersi lontano da quelli che usano il loro potere per contaminare e rendere schiavi gli altri. Giovanni era un profeta, un portavoce di Dio, il messaggero e precursore del Signore. Davvero – come testimonia Gesù – “fra i nati da donna non è sorto nessuno più grande di lui”, per i suoi doni e la sua qualità umana ed etica. Tuttavia “il più piccolo”, cioè Gesù stesso, abbassatosi fino all’ultimo posto, rifiutato fino alla condanna della croce, giudicato non martire ma scomunicato, “nel regno dei cieli è più grande di lui”. E se Giovanni non trova in Gesù motivo di inciampo, di ostacolo, allora è beato!
Per questo – come Gesù conclude con una parola dai tratti anche misteriosi – “dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). È la pacifica violenza di Giovanni, è il suo sofferto ma saldo discernimento la chiave per accedere al Regno e per accogliere colui che è il Regno fatto persona: Gesù, il Veniente, la cui buona notizia è così lontana dai nostri schemi religiosi!
Gesù e il Battista: a confronto sulla Missione
Romeo Ballan, mccj
Il tema della gioia è tradizionalmente forte nella III Domenica di Avvento, detta appunto “Gaudete” (rallegratevi), fin dal canto di inizio, che dà subito la ragione di tanta gioia: perché “il Signore è vicino”. La Sua presenza nella vita di ciascuno di noi e nei rapporti sociali non ci ruba spazio o dignità, anzi li allarga. “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”, ha scritto Papa Francesco nel suo forte documento missionario per l’annuncio del Vangelo nel mondo d’oggi (EG 1). La gioia cristiana non è chiassosa, grossolana o passeggera; è diversa dall’allegria mondana. Ha la sua radice in Cristo ed è presente e possibile anche nei momenti duri della vita.
Il Vangelo odierno ci presenta due personaggi a confronto: Giovanni Battista e Gesù. Sono in gioco due concezioni diverse circa la missione del Messia. Si confrontano – e quasi si scontrano – due modi di intendere il Messia: giudice severo e riformatore sociale, oppure messaggero di misericordia e di accoglienza verso tutti? Un dubbio vero, più che comprensibile, assale Giovanni Battista, rinchiuso nel buio e solitario carcere di Macheronte; sente cosa dice la gente, tutti si aspettavano un Messia diverso: un re potente, uno stratega capace di liberare il popolo di Israele dai romani. L’austero predicatore dalle parole di fuoco (vedi il Vangelo di domenica scorsa) ha le sue zone di incertezza. “Sei tu… o dobbiamo aspettare un altro?” (v. 3).
I dubbi di Giovanni circa l’identità di Gesù hanno attraversato i secoli e oggi possono essere anche i nostri dubbi. Dubitare è umano, non si può credere senza dubitare; i dubbi sono gli interrogativi che accompagnano la nostra fatica quotidiana di credere. Il cardinale C.M. Martini diceva: “In ognuno di noi c’è un credente e un non credente. In ognuno di noi c’è un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere”. Qual è l’identità vera di quel Gesù, personaggio misterioso, attraente ma sconcertante? Forse Giovanni era disorientato riguardo a questo Gesù: troppo preoccupato dei poveri e degli ultimi, non sconvolge il sistema sociale, non condanna e non rifiuta nessuno, non distrugge i peccatori, accoglie tutti, va a mangiare con i pubblicani, dà speranza agli ultimi: vedove, prostitute, bambini… Che tipo di Messia è questo, se fosse proprio lui? Ma Giovanni è anche un modello di ricerca appassionata di Dio e del Messia; è un modello di credente, è aperto a confrontarsi; insegna a non chiudersi su posizioni preconcette; non rigetta il Messia per il fatto che non lo capisce o non è secondo i suoi schemi, ma lo cerca per capire meglio… Già lo aveva additato ai suoi discepoli come l’Agnello di Dio… (cfr. Gv 1,32-36).
Ai discepoli di Giovanni Gesù non dà risposte teoriche: li rimanda ai fatti e li invita a leggere i segni. Le “opere del Cristo” (v. 2) rivelano la Sua identità: i fatti parlano da sé stessi, annunciano prima e meglio delle parole. Gesù segnala sei prodigi palesi, a favore di ciechi, zoppi, lebbrosi, sordi, morti, poveri (v. 4-5). Sono segni che parlano della potenza e della misericordia di Dio, sono tutte azioni per dare vita. Tutti hanno accesso a Dio, nessuno è escluso; non c’è condanna per nessuno, c’è misericordia per tutti. Anche per i più miserabili e disperati c’è sempre una bella notizia. A chiunque, in qualunque condizione sia, si deve dire: Anche per te c’è salvezza! Dice Papa Francesco: “Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita” (EG 274). Questa è la sfida, lo scandalo della misericordia.
“Gesù non è venuto per risolverci i problemi a suon di miracoli, ma per indicarci la strada per cambiare il mondo: con il suo esempio ci ha insegnato lo stile di vita delle Beatitudini. Gesù ci invitaa fare anche noi come ha fatto lui: seminare speranza. Aiutare a vivere. Inchinarsi per risollevare. Non giudicare. Guarire. Consolare. Tessere relazioni belle e fraterne” (R. Vinco).
Al suo parente e amico Giovanni, prima di tesserne pubblicamente un alto elogio dichiarandolo il più grande “fra i nati di donna” (v. 7-11), Gesù rivolge anche un delicato invito a rivedere le sue posizioni, lanciandogli una beatitudine: “Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (v. 6). L’invito era valido allora e lo è ugualmente oggi: l’attenzione e la cura degli ultimi e dei bisognosi sono, anche oggi, segni che da soli annunciano, prima ancora delle parole, che lì è presente il Regno di Dio. Da sempre, le opere compiute in nome e per amore di Dio fanno missione, evangelizzano, rivelano il volto del Dio che è amore. Una missione che non fosse accompagnata da opere di misericordia, di sviluppo, promozione umana, difesa dei diritti delle persone, tutela della creazione, non sarebbe la missione di Dio e della Chiesa. Non sono opere a scopo di proselitismo per attirare la gente ma risposte ai bisogni delle persone deboli; risposte date nella gratuità, ispirate dall’amore. In nome di Dio.
Il messaggio complessivo della Parola di Dio in questa domenica è che nessuno è escluso dalla gioia messianica: né gli andicappati nel corpo, né tanto meno i poveri; anzi questi sono i primi destinatari del Vangelo della vita. In tempi di massima distruzione, deportazione, squallore, rovine e morte, il coraggioso profeta Isaia (I lettura) invita alla gioia e alla speranza. Se non parlasse in nome di Dio, sarebbe un illuso, un pazzo. Ma si fida di Dio, sa che Egli ha un progetto d’amore e di liberazione per il suo popolo. Per questo c’è un duplice invito: attendere nella gioia il Signore che viene a salvarci (v. 1-4), e aspettarlo con pazienza, insegna S. Giacomo (II lettura). Come l’agricoltore operoso, che mentre attende i frutti dalla terra e dalla pioggia, non rimane inerte, bensì lavora il suo campo, lo zappa, lo semina, lo pulisce, lo irriga… L’ostinato invito cristiano alla speranza e alla gioia è una smentita ai predicatori di sventure: nonostante i segni contrari, il credente sa vedere, nella filigrana della storia, i segni del progetto di Dio, che si va compiendo.
Il Battista invitato a convertirsi
Fernando Armellini
“Venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni” (Gv 1,6). Fu inviato per preparare Israele alla venuta del messia. “Convertitevi – diceva – perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2).
Il suo messaggio era chiaro, il linguaggio duro, la proposta esigente.
Austero e irreprensibile, dava l’impressione di essere un maestro di vita sicuro di sé e delle proprie certezze, fermo, inflessibile. Invece – come tutti – aveva perplessità, inquietudini, tormenti interiori.
Gesù, che coltivava per lui una profonda stima e lo capiva, un giorno lo invitò a rivedere le proprie convinzioni teologiche e religiose. Gli fece capire che doveva realizzare in se stesso quella conversione che chiedeva agli altri.
Domenica scorsa la liturgia ci ha proposto il messaggio del Battista, oggi ci presenta il suo esempio.
Giovanni non ha insegnato solo a parole, ma ha mostrato, con la vita, come bisogna essere sempre pronti a rimettere in causa le proprie sicurezze quando ci si confronta con la novità di Dio.
Solo chi, come lui, è alla ricerca appassionata della verità è preparato per incontrare la Verità.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il Signore non viene per condannare, ma per guarire”.
Prima Lettura (Is 35,1-6a.8a.10)
1 Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
2 Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saròn.
Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.
3 Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
4 Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete;
ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,
la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”.
5 Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
6 Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto.
8 Ci sarà una strada appianata e la chiameranno Via santa;
10 su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore
e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.
Le previsioni sul futuro del pianeta non sono rosee, per qualcuno sono addirittura catastrofiche. La realtà sociale, politica, economica del mondo si presenta carica di tensioni che non si sa come potranno essere risolte. La crisi di fede, la perdita dei valori, il vacillare di tante certezze fanno presagire anni difficili. Questa, in poche parole, credo sia la sintesi delle opinioni che circolano fra la gente.
Ascoltando le parole cariche di gioia e di speranza contenute nella lettura, viene da supporre che il profeta le abbia pronunciate in un momento ben diverso da quello che noi stiamo attraversando. Non è così.
Egli è vissuto in uno dei periodi più difficili della storia del suo popolo: Gerusalemme e il suo meraviglioso tempio sono stati distrutti, le persone più capaci e preparate sono state deportate a Babilonia e nella città santa, ridotta ad un cumulo di macerie, sono rimasti solo i vecchi, i malati e i bambini. Su tutto regnano il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.
Il monte sul quale era costruita la città, ormai diroccata e devastata, è ridotto a deserto dove non cresce un filo d’erba. Di fronte a una simile desolazione, chi avrebbe il coraggio di annunciare una festa, di invitare al giubilo, alla letizia?
Ebbene, proprio davanti a queste rovine, il profeta pronuncia il suo oracolo pieno di ottimismo. È un uomo sensibile, ha l’animo del poeta e si esprime con immagini deliziose.
Il deserto – dice – sta per trasformarsi in pianura fertile come quella del Saron, lungo la costa del Mediterraneo. Eccolo coprirsi di alberi frondosi e possenti come i cedri del Libano; in una perenne primavera si trasforma in un tappeto di erbe aromatiche e di fiori. Sbocciano i narcisi e i gigli, simboli della gioia e dei sogni degli innamorati. Ovunque s’odono canti di allegria e di giubilo (vv. l-2).
Vaneggia? No! Contempla l’opera meravigliosa che Dio sta per realizzare.
Se ci si fida del Signore, non hanno senso lo scoraggiamento, il lasciar cadere le braccia, le ginocchia vacillanti.
Chi si rassegna di fronte al male, chi lo considera ineluttabile mostra di non credere nell’amore e nella fedeltà di Dio che è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo. Chi crede non si abbatte mai, reagisce, è convinto che, dove oggi è il deserto arido e inospitale, un giorno fiorirà un giardino (vv. 3-4).
Nella seconda parte della lettura (vv. 5-6) il profeta continua a presentare la prodigiosa trasformazione del mondo che Dio opererà.
Per descriverla impiega l’immagine della guarigione dalle malattie: si apriranno gli occhi dei ciechi, si spalancheranno le orecchie dei sordi, lo zoppo salterà come un capretto, la lingua del muto griderà di gioia.
Ogni malattia – fisica, psichica, spirituale – è una forma di morte. Dove giunge il “Dio della vita” scompare ogni male, ogni morte.
Nel vangelo di oggi Gesù invita il Battista a prendere atto che la trasformazione del mondo è iniziata. La forza della sua parola sta facendo “sbocciare fiori nel deserto”.
Per descrivere il cammino verso questa nuova realtà, nell’ultima parte della lettura (vv. 8-10) viene introdotta una splendida immagine: il pellegrinaggio del popolo dalla terra della schiavitù al monte Sion, all’indimenticabile Gerusalemme, la città della gioia e della libertà. È il simbolo del cammino dell’umanità intera verso la vita.
La strada da percorrere sarà detta “Via santa”, perché non potrà essere calpestata da piedi impuri. È la via – oggi lo sappiamo – che ha percorso Gesù, quella che porta al dono della vita.
L’immagine diviene grandiosa. Il profeta scorge i personaggi che prendono parte a questa processione: in testa, come guida, avanza la felicità perenne, seguita dalla gioia e dall’allegria. All’orizzonte s’intravedono due sagome oscure, due nemici che si allontanano, che fuggono sconfitti: sono la tristezza e il pianto.
Queste parole sono la smentita di Dio nei confronti dei profeti di sventura.
Nonostante i segni contrari, il credente riconosce che il Signore “rischiara coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e guida i nostri passi in vie di pace” (Lc 1,79).
Seconda Lettura (Gc 5,7-10)
7 Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera. 8 Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. 9 Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. 10 Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore.
Gesù ha denunciato i pericoli della ricchezza, ha chiamato stolto chi accumula i beni, ma non ha mai scagliato invettive contro qualcuno perché era ricco. Ecco invece cosa dice Giacomo ai ricchi: “Piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite… Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza” (Gc 5,1-6).
Dopo aver attaccato in questo modo i ricchi, Giacomo si rivolge ai poveri: è il brano contenuto nella lettura di oggi. Che cosa raccomanda loro? Che cosa consiglia a chi è sfruttato? La rivolta, la vendetta? No… la pazienza.
Questa parola ritorna quattro volte. “Siate pazienti!” (vv. 7.8), “non lamentatevi!” (v. 9), “sopportate!” (v. l0). Sembrano esortazioni irritanti, indisponenti, provocatorie.
Giacomo non è il tipo da tollerare l’ingiustizia contro i poveri, tuttavia si rende conto che ci sono situazioni in cui, dopo aver fatto tutto quanto è possibile, non resta che attendere con pazienza.
Per spiegare il proprio pensiero egli si rifà all’esempio del contadino.
Che fa l’agricoltore? Non si siede a guardare il campo, sperando che produca da solo. Si impegna al massimo: lavora, zappa, semina, irriga, strappa le erbacce… ma sa anche attendere; conosce la forza irresistibile del seme, si fida della terra che non lo ha mai tradito, crede che anche il Signore farà la sua parte, invierà la pioggia benefica che feconda la terra in autunno e primavera. Il contadino non si scoraggia, anche se trascorrono mesi prima che compaia la spiga matura.
Giacomo conclude suggerendo ai poveri: nel vostro dolore fate tutto quanto potete, sforzatevi di ottenere giustizia, ma non commettete violenze contro chi vi opprime e non lamentatevi con chi vi sta vicino (v. 9).
Succede spesso che il povero, umiliato dal suo padrone, reagisca e diventi aggressivo e duro contro chi gli è “prossimo”: la moglie, i figli, le persone più deboli che gli stanno accanto.
Il povero alimenta la speranza che il suo Signore interverrà per cambiare la sua situazione. Il suo “avvento” è vicino.
Vangelo (Mt 11,2-11)
Non è facile riconoscere il messia di Dio.
Educato dai profeti, Israele lo ha atteso per secoli, eppure, quando è giunto, persino le persone spiritualmente più preparate e ben disposte hanno fatto fatica a capirlo e ad accoglierlo. Lo stesso Battista è rimasto disorientato.
Ma un messia che non stupisce, che non suscita meraviglia ed incredulità non può venire da Dio; sarebbe troppo conforme alla nostra logica e alle nostre attese e Dio la pensa in modo ben diverso da noi.
Nella prima parte del vangelo di oggi (vv. 2-6) viene presentato il dubbio che è sorto un giorno anche nella mente del precursore e la risposta che Gesù gli ha dato.
Giovanni si trova in prigione e la ragione è narrata in Mt 14,1-12: ha denunciato il comportamento immorale di Erode che si è preso la moglie di suo fratello. Nella fortezza di Macheronte dove, secondo lo storico Giuseppe Flavio, era stato rinchiuso, è trattato con rispetto, può ricevere le visite dei discepoli e, desideroso di assistere all’avvento del regno di Dio, si mantiene informato su come si sta comportando quel Gesù di Nazareth che egli ha additato come il messia.
In questo intervallo, tuttavia, la sua fede comincia a vacillare.
Qualcuno sostiene che i dubbi non sono di Giovanni, ma dei suoi discepoli. Non è così. Dal vangelo risulta chiaro che egli stesso ha dubitato che Gesù fosse il messia. Per questo ha mandato a chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (v. 3).
Come mai sono sorte in lui delle perplessità?
La risposta è abbastanza semplice. Basta tener presente l’immagine di messia che, fin da piccolo, Giovanni aveva assimilato dalle guide spirituali del suo popolo.
È in prigione e, conscio di quanto hanno preannunciato i profeti, si aspetta il “liberatore” (Is 61,1), l’incaricato di ristabilire nel mondo la giustizia e la verità. Non capisce perché Gesù non si decida a intervenire in suo favore.
Attende un messia giudice rigoroso che si scaglia contro i malvagi. Ecco invece la sorpresa: Gesù non solo non condanna i peccatori, ma mangia con loro e si gloria di essere loro amico (Lc 7,34). Raccomanda di non spegnere il lucignolo che ancora fumiga e suggerisce di prendersi cura della “canna incrinata”. Non distrugge nulla, ricupera e aggiusta ciò che è rovinato. Non brucia i peccatori, cambia il loro cuore e li vuole ad ogni costo felici, ha parole di salvezza per coloro che non hanno più speranza e che tutti evitano come lebbrosi. Non si scoraggia di fronte a nessun problema dell’uomo, non si arrende nemmeno davanti alla morte.
Agli inviati del Battista Gesù si presenta come messia, elencando i segni desunti da alcuni testi di Isaia (Is 35,5-6; 26,19; 61,1), il profeta della speranza che aveva predetto: “Nessuno nella città dirà più: io sono malato” (Is 33,24).
Il Battista è invitato a prendere atto di sei nuove realtà: la guarigione dei ciechi, dei sordi, dei lebbrosi, degli storpi, la risurrezione dei morti e l’annuncio del vangelo ai poveri. Sono tutti segni di salvezza, nessuno di condanna.
Il mondo nuovo è dunque sorto: chi camminava al buio e aveva perso l’orientamento della vita, ora è illuminato dal vangelo; chi era storpio e non riusciva a muovere un passo verso il Signore e verso i fratelli, ora cammina spedito; chi era sordo alla parola di Dio, ora l’ascolta e si lascia guidare da essa; chi provava vergogna di se stesso per la lebbra del peccato che lo teneva lontano da Dio e dai fratelli, ora si sente purificato; chi compiva solo opere di morte ora vive in pienezza la sua esistenza; chi si riteneva un miserabile e senza speranza ha udito la bella notizia: “Anche per te c’è salvezza”.
Il messia di Dio non ha nulla a che fare con il personaggio energico e severo che Giovanni si aspettava. Il suo modo di procedere ha scandalizzato il precursore e continua a scandalizzare anche noi oggi. C’è ancora qualcuno che chiede al Signore di intervenire per castigare gli empi; c’è ancora chi interpreta come castighi di Dio le disgrazie che colpiscono chi ha fatto il male. Ma potrà Dio adirarsi o provare piacere nel vedere i suoi figli (anche se cattivi) soffrire?
Gesù conclude la sua risposta con una beatitudine, la decima che si incontra nel vangelo di Matteo: “Beato chi non si scandalizza di me”. Un dolce invito al Battista a rivedere le sue convinzioni teologiche.
Un Dio buono con tutti contraddiceva la convinzione che Giovanni si era fatta. Come noi, anche il Battista immaginava un Dio forte e se lo ritrovava di fronte debole; si aspettava interventi clamorosi, invece gli eventi continuavano a svolgersi come se il messia non fosse venuto.
Beato chi accoglie Dio così com’è, non come vorrebbe che fosse!
La fede nel Dio che si rivela in Gesù non può che accompagnarsi a dubbi, incertezze, difficoltà a credere.
Il Battista è la figura del vero credente: si dibatte fra tante perplessità, si pone delle domande, ma non rinnega il messia perché non corrisponde ai suoi criteri; rimette in causa le proprie certezze.
Non preoccupa chi ha difficoltà a credere, chi si sente smarrito di fronte al mistero e agli enigmi dell’esistenza, chi dice di non capire i pensieri e l’agire di Dio; preoccupa chi confonde le proprie certezze con la verità di Dio, chi ha la risposta pronta per tutte le domande, chi ha sempre qualche dogma da imporre, chi non si lascia mai mettere in discussione: una simile fede a volte sconfina nel fanatismo.
Partiti i discepoli di Giovanni, Gesù pronuncia il suo giudizio su di lui con tre interrogativi retorici. È la seconda parte del vangelo di oggi (vv. 7-11).
Le risposte alle prime due sono ovvie: il Battista non è come le canne palustri che crescono lungo il Giordano, simboli della volubilità perché si piegano secondo la direzione del vento. Giovanni non è un opportunista che si adegua a tutte le situazioni e si inchina di fronte al potente di turno. Al contrario, è uno che si oppone risolutamente agli stessi capi politici, che affronta a viso aperto il re e non ha paura di dire quello che pensa.
Giovanni non è un corrotto, che pensa al proprio interesse, che accumula denaro senza scrupoli e lo sperpera in divertimenti, vestiti eleganti e raffinati. I corrotti – dice Gesù – sono i re e i loro cortigiani, i ricchi, i capi che lo hanno imprigionato.
La terza domanda richiede una risposta positiva: Giovanni è un profeta, anzi è più che un profeta. Nessuno nell’AT ha svolto una missione superiore alla sua. Più di Mosè, egli è “un angelo” inviato a precedere la venuta liberatrice del Signore.
È significativa l’aggiunta finale: “Il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (v. 11).
Gesù non stabilisce una graduatoria basata sulla santità e sulla perfezione personale, ma invita a verificare la superiorità della condizione del discepolo. Chi appartiene al regno dei cieli è in grado di vedere più lontano del Battista. Chi ha colto il volto nuovo di Dio, chi ha capito che il messia è venuto incontro all’uomo per perdonarlo, accoglierlo, amarlo comunque, è entrato nella prospettiva nuova, nella prospettiva di Dio.
Ciò che noi oggi, indipendentemente dalla nostra santità personale, possiamo vedere e capire, il Battista lo ha soltanto intuito perché è rimasto sulla soglia dei tempi nuovi.
Per gentile concessione di
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