DOMENICO POMPILI
Vescovo di Verona

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi

Dalle colline di Recanati, in una sera d’estate del 1819, un giovane favoloso, Giacomo Leopardi, si interrogava su questo mistero. Come può un ostacolo diventare apertura? Come può ciò che limita farsi infinito? Come può una barriera aprire lo sguardo alla trascendenza? Il poeta ci suggerisce una risposta, seduto in raccoglimento davanti a una siepe. Quella siepe gli impedisce di vedere oltre, ma non è un muro mortificante. È una soglia: il punto esatto dove il reale si apre al possibile. Dove l’occhio si arresta, l’immaginazione prende il volo verso «interminati spazi».

Chiunque di noi ha le proprie “siepi”: le dipendenze che ci condizionano, le paure che ci paralizzano, le ferite che ci definisco no, i fallimenti che ci isolano, le crisi che ci limitano, le malattie che ci rallentano, l’invecchiamento che ci indebolisce. Ma se Leopardi ha ragione, questi stessi ostacoli possono trasformarsi da muri in porte, da barriere in soglie.

Il fatto che il limite sia attraversabile non comporta fuga dal presente. «Sempre caro», dice il poeta, sono proprio «quest’ermo colle» e «questa siepe»: questi, nella loro concretezza singolare, nella loro unicità irripetibile. Solo che, in quell’attraversamento, compare altro. Il mondo sospeso si fa improvvisamente intenso. Costeggiando l’abisso dell’infinito, il cuore vacilla, ma quando il vento si lascia avvertire tra le fronde degli alberi, nasce una contemplazione più profonda. Quel mormorio della natura porta con sé l’eternità stessa. È allora che accade il miracolo del «dolce naufragare»: non la perdita di sé che spaventa, ma l’abbandono fiducioso a qualcosa di più grande.

Il “dolce naufragare” leopardiano è un antidoto potente alla cultura della performance. In una società che misura tutto in termini di efficienza e di risultati, imparare l’arte del naufragio diventa una competenza di sopravvivenza spirituale. Non rinunciare agli obiettivi, ma scoprire che il fallimento può essere una forma di vita più profonda e più libera dall’inessenziale.

In una cultura che promette tutto subito e che pretende efficienza a ogni costo, tale discorso non è affatto facile. Per questo, oggi vivere e non censurare il limite è un’opera quasi rivoluzionaria. Forse il nostro problema non è che abbiamo troppi limiti, ma che non sappiamo più riconoscere quelli che ci fanno bene. Abbiamo confuso la libertà con il campo totalmente aperto, dimenticando ciò che insegna anche l’arte: chi dipinge ha bisogno di una tela, chi compone ha bisogno di scale musicali, chi fa poesia ha bisogno del ritmo delle parole, chi danza ha bisogno di una coreografia. La scoperta leopardiana, dunque, porta con sé implicazioni profonde sul piano esistenziale.

Questa inquietudine può farci da bussola. Andiamo verso un dolce naufragio nell’immensità, alla ricerca di una relazione armonica – o per lo meno non dominante – con tutte le cose.

Il limite, la nostra finitezza, non è condanna, ma vocazione: solo accettando di essere limitati possiamo aprirci all’infinito che ci abita e che è pienamente compatibile con la carne umana. Questa verità trova una particolare espressione nella storia di un uomo che ha dovuto imparare ad abitare i propri limiti attraverso un cammino lungo e tortuoso: il patriarca Giacobbe.

L’ESPERIENZA DEL LIMITE

1. Il limite come origine

1.1 La storia di Giacobbe: il fratello come primo limite

La storia del patriarca Giacobbe si snoda ininterrottamente tra il capitolo 25 e il capitolo 50 della Genesi. Come chiunque di noi, Giacobbe viene al mondo nella estrema vulnerabilità, si forma nel corpo di una madre da cui dipende per sopravvivere, non ha scelto il luogo, il tempo, il contesto del suo essere al mondo. Ma c’è di più: si forma nel grembo materno insieme a suo fratello gemello, Esaù. La gravidanza di Rebecca si presenta complicata: dentro di lei, i due bambini si urtano continuamente. È come se già nel suo ventre si stesse combattendo una battaglia per lo spazio, per il primato, per l’esistenza stessa di due popoli che saranno eterni nemici. Perché tutto questo? Rebecca va a chiederlo direttamente a Dio e riceve in cambio una profezia che la fa passare subito dal pensiero di ciò che accade dentro di lei alla storia della sua gente. Due bambini formati contemporaneamente nel seno della stessa madre diverranno Israele ed Edom, due nazioni dai rapporti complicati, che si disperderanno e avranno un destino imprevedibile: il maggiore servirà il più piccolo. Questo Dio, si sa, non teme di rovesciare l’ovvio e spesso si lega alle figure più deboli per aprire una storia nuova.

Esaù non è semplicemente “l’altro”. È il gemello, colui che condivide lo stesso spazio vitale, lo stesso tempo di formazione, la stessa origine. È la prima alterità che Giacobbe incontra, ancora prima di venire alla luce. Esaù rappresenta tutto ciò che Giacobbe non è: è il primogenito, l’erede naturale, colui che gode della preferenza paterna, colui che è destinato a un ruolo di potere nella comunità. Ma rappresenta anche tutto ciò che Giacobbe potrebbe diventare, se solo accettasse di abitare la relazione anziché subirla: un uomo capace di fraternità. Il fratello – o la sorella – è lo specchio in cui si riflette la nostra inadeguatezza, ma anche la promessa di una completezza possibile attraverso l’incontro. Quando rifiutiamo questo limite fertile e lo riduciamo a barriera sterile, difficile fiorire come soggetti liberi.

Al momento del parto, Giacobbe viene alla luce tenendo il calcagno di Esaù, come se volesse controllarlo, come se già fosse in preda al desiderio di godere di una benedizione che non gli spetta in quanto nato per secondo. Con l’aiuto della madre e approfittando della cecità del padre, realizza il suo sogno: si sostituisce a suo fratello e riceve la benedizione riservata al primogenito. Manca così il suo primo appuntamento con la fraternità. Invece di riconoscere in Esaù il compagno di un cammino condiviso, lo percepisce come un concorrente, un ostacolo al proprio diritto di esistere pienamente. Il fratello diventa il primo limite-barriera della sua vita: non una presenza che completa, ma un confine che gli impedisce una serena immagine di sé.

1.2 Il limite come alibi universale e il prezzo dell’inganno

Non ci ricorda qualcosa di familiare? Quante volte anche noi vediamo nell’altro – fratello, sorella, collega, parente, amico, dirigente, amante – un rivale con cui competere, una vita felice da invidiare, un impedimento a diventare quello che vorremmo essere? È così facile trasformare chi ci sta accanto da dono in problema, da presenza che arricchisce a ostacolo che limita e intralcia il nostro desiderio.

È a questo punto che il limite si trasforma in qualcosa di ancora più pericoloso: diventa un alibi. Giacobbe non può sopportare l’idea di essere il secondo, di dover aspettare, di non avere immediato accesso a tutto ciò che desidera. La presenza del fratello maggiore diventa la giustificazione perfetta per ogni strategia di sopraffazione: «Non potevo fare altrimenti che usare l’inganno», sembra dire. Oppure: «La furbizia era l’unica via percorribile. Fanno tutti così quando si tratta di sopravvivere».

L’alibi del limite trasforma la necessità in virtù, la competizione in sapienza, l’inganno in legittima difesa. Se il mondo è diviso tra vincitori e vinti, se le benedizioni sono scarse e bisogna accaparrarsele prima che altri lo facciano, allora ogni mezzo diventa lecito. È la logica perversa di una trama di conflitti e sospetti, che riduce l’esistenza a una partita a somma zero dove il bene dell’altro coincide automaticamente con il mio male. Questa logica dell’alibi attraversa i secoli e continua a sedurre le nostre coscienze contemporanee. Quante volte anche noi trasformiamo i nostri limiti in giustificazioni per comportamenti che, nel profondo, sappiamo essere inadeguati e ingiusti? «Sono fatto così», «Non ho avuto possibilità», «La società mi costringe», «Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro»: sono le variazioni moderne dell’inganno di Giacobbe. Il limite diventa la scusa perfetta per non assumersi la responsabilità della propria crescita e per non riconoscere nell’altro un possibile alleato del proprio cammino di umanizzazione. Giacobbe sceglie l’inganno come via d’uscita, convinto di poter risolvere tutto con astuzia.

1.3 Esilio

La realtà, però, si rivela decisamente più complessa. La benedizione ottenuta in modo scorretto si trasforma in maledizio ne. Esaù comincia a progettare la sua ven detta, e Giacobbe, in pericolo di morte, deve scappare. Su consiglio della madre, si rifugia a Carran, dallo zio Labano. Vi vrà vent’anni da esiliato, paralizzato dalla paura e dal senso di colpa, con una bene dizione divenuta inutile, valida solo come promemoria del male fatto e delle sue con seguenze. Non rivedrà mai più sua madre. L’inganno che doveva garantirgli un futuro gli ha fatto perdere ciò che aveva di più caro: la casa, la famiglia, la pace.

L’esilio di Giacobbe a Carran rappresenta il momento in cui il tempo stesso diventa limite insuperabile. Non è più il tempo fecondo della crescita o della progettazione, ma il tempo sospeso dell’attesa senza speranza. Non è più il tempo di nutrire le radici per aprire il domani, ma di un presente sterile, schiacciato tra paura e rimpianto. Nell’esilio, Giacobbe sperimenta la precarietà di chi non ha più un posto nel mondo. Gli manca tutto: legami trasparenti, la terra dei padri, la forza di una benedizione serena, la presenza materna, la certezza di un’identità. È divenuto l’uomo senza fissa dimora, dentro e fuori di sé. È il viandante che si trascina dietro il peso di scelte che gli impediranno per sempre un ritorno all’innocenza.

Per un motivo o per un altro, anche noi sappiamo come ci si sente quando il limite diventa durezza. Se abbiamo esperienza di malattie che interrompono i progetti, di lutti che svuotano il sapore dei giorni, di crisi che dissolvono ogni fiducia o della depressione che rende grigio ogni orizzonte, sappiamo che cosa vuol dire sentirsi sospesi tra un passato che non può essere riparato e un futuro che non riesce a trovare ospitalità nei sogni che orientano la via. Di fronte alla morte, poi, ci sentiamo particolarmente impotenti ed è per questo che la nostra cultura la rimuove in tutti i modi. La morte è la fine del nostro tempo, delle nostre relazioni, delle nostre possibilità. Quando colpisce qualcuno che amiamo, è per noi la fine di un mondo, la fine di quel mondo in cui eravamo insieme. La morte può diventare il muro nel quale si infrange la nostra stessa voglia di vivere, il nostro desiderio di esserci e di resistere al dolore, all’ingiustizia, al nonsenso.

In questi tempi difficili, perfino la preghiera può diventare impossibile: mancano le parole e il respiro, e ogni giorno si offre come un deserto dove niente può crescere. È il tempo in cui anche Dio sembra lontano, assente, indifferente alle nostre grida di aiuto e alle nostre pratiche comunitarie di conforto. In questo deserto spirituale, il poeta Rainer Maria Rilke ci offre una prospettiva liberante:
«Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e… cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera. Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse. E il punto è vivere ogni cosa. Vivi le domande ora. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta» (poesia pubblicata postuma in Lettere a un giovane poeta, 1929).
È l’invito a non fuggire dalla condizione di chi è ancora in cammino, di chi non ha tutte le risposte, di chi deve imparare a convivere con l’incompiuto.

1.4 Il sospetto originario

C’è un aspetto ancora più sottile e pericoloso in questa esperienza del limite come ostacolo: il sospetto che nasce nel cuore. È quello che accade ad Adamo ed Eva quando il loro desiderio incontra il limite di Dio: «Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi man giare» (Gen 2,16-17). Il comando divino, però, non era finalizzato a indebolirli, ma a custodire il loro stesso desiderio: il limite è la condizione necessaria per raggiungere molto di più di ciò che è immediatamente a portata di mano. Una parola perversa, che striscia subdolamente, eccita invece il desiderio umano suscitando un vero e proprio sospetto sulla bontà divina. Dio, secondo il serpente, ha dato un divieto per non ritrovarsi a condividere il potere con le sue creature: mangiare quel frutto significava aprire gli occhi e diventare forti come il proprio Creatore.

Il limite al desiderio è dunque percepito come un muro che blocca il divenire, mentre era una forma di custodia del proprio cammino. È così che si pervertono tutti i legami. Il sospetto su Dio si riversa nei nostri rapporti, rendendoli ingiusti: accade tra donna e uomo che si accusano reciprocamente e che cadono nella logica del dominio; accade tra fratelli, che nel conflitto fanno spazio all’omicidio; accade con tutto il creato, messo a rischio dalla nostra pretesa di controllo assoluto. È una storia che accade e riaccade infinite volte anche oggi.

Gesù verrà a illuminare questa scena di sospetto. Dio è quello che si vede in lui: una presenza solidale, con parole e gesti che guariscono, liberano, risvegliano, rigenerano. Nella sua finitezza c’è l’ospitalità per tutte le creature del mondo. Il limite sperimentato nella carne – a cui Dio stesso si lascia ricondurre – non è una strategia per tiranneggiare il mondo, bensì la bussola che orienta il desiderio verso la libertà autentica.

Quando prevale il sospetto, non c’è vera libertà. Si risponde in modo lineare, ci si lascia posizionare sempre e solo frontalmente, e i pensieri vanno tutti nella preoccupazione di come difendersi dal male e dal nemico. Nessuna creatività, nessuno slancio, nessuna fiducia verso le buone trasformazioni e le buone compagnie.

Eppure, proprio in questo tempo vuoto e apparentemente sterile, può accadere qualcosa di inaspettato. È quello che Giacobbe scoprirà: il limite può trasformarsi da muro in porta, da fine in principio, da maledizione in benedizione.