Dicembre si affaccia come un mese denso di significati, in cui il cammino civile e quello spirituale si incontrano e si illuminano a vicenda. Le prime settimane sono segnate dall’Avvento, tempo di attesa vigilante e di rinnovamento interiore, che prepara le comunità al mistero del Natale del Signore. In questo clima, la società vive un ritmo più raccolto, fatto di gesti di cura, condivisione e attenzione a chi è solo o in difficoltà.

Sul piano religioso e missionario, dicembre è percorso dal desiderio di annunciare una speranza che si fa prossimità concreta: l’Avvento stimola a vivere la missione nella quotidianità, attraverso ascolto, accoglienza e solidarietà. Le celebrazioni liturgiche – dall’Immacolata all’epifania del Natale – ricordano che Dio entra nella storia per tutti i popoli e affida alla Chiesa il compito di testimoniare la sua pace, soprattutto nei luoghi attraversati da povertà, migrazioni e conflitti.

Così il mese di dicembre diventa un laboratorio di fraternità, un tempo in cui la luce che cresce nel cuore può tradursi in gesti di giustizia, vicinanza e comunione, affinché ogni comunità diventi segno vivo del Vangelo nel mondo.

1/12 – B. Charles de Foucauld (1858-1916)

Francese; convertito, sacerdote ed eremita nel deserto algerino, “fratello universale”, ucciso da una banda di predoni; testimone di amore all’Eucaristia, fraternità, missione e dialogo. ·

Nato a Strasburgo nel 1858, in una famiglia dell’aristocrazia francese, Charles de Foucauld conosce presto la fragilità della vita: perde infatti entrambi i genitori da bambino e cresce sotto la protezione del nonno, ufficiale dell’esercito francese. In questo ambiente, che unisce disciplina militare e agio borghese, attraversa un’adolescenza inquieta e ribelle, fino a prendere gradualmente le distanze dalla fede ricevuta nell’infanzia.

Entrato alla scuola militare di Saint-Cyr e poi divenuto ufficiale di cavalleria, Charles vive anni segnati dal gusto per il divertimento, per il denaro e per una certa fama di giovane brillante e sregolato. Quando è inviato in Algeria scopre un mondo nuovo, che lo affascina e lo provoca al tempo stesso: il contatto con l’Islam e con le popolazioni del Maghreb, con spazi immensi e severi, lo pone davanti a domande che non sa ancora formulare ma che lo accompagnano in silenzio, mentre esteriormente continua una vita irrequieta.

Quando si dimette dall’esercito decide di dedicarsi all’esplorazione del Marocco, allora quasi del tutto chiuso agli europei. Si finge ebreo per attraversare territori vietati, rischia più volte la vita, affronta fatiche estenuanti e compone un grande rilievo geografico e un diario che gli valgono il riconoscimento della Società Geografica di Parigi e un improvviso prestigio scientifico. Tuttavia, al termine di questa impresa che lo ha portato al limite di sé stesso, si rende conto che il successo non gli basta e che continua a provare una profonda insoddisfazione.

Rientrato in Francia, si riavvicina alla famiglia, in particolare alla cugina Marie de Bondy, e grazie a lei entra di nuovo in contatto con l’ambiente cristiano di Parigi. Un giorno del 1886 incontra nella chiesa di Saint-Augustin il sacerdote Huvelin, al quale si confida. Da quell’incontro, che unisce ascolto, discrezione e invito alla preghiera, nasce per Charles un nuovo inizio: egli riprende la pratica religiosa, si confessa, prega a lungo in silenzio e matura il desiderio di consacrare tutta la sua esistenza a Dio, cercando una forma di vita che unisca radicalità, povertà e vicinanza agli ultimi.

Per alcuni anni sceglie la vita monastica, entrando in un monastero trappista in Siria e successivamente vivendo come domestico presso un convento di clarisse a Nazareth, dove passa lunghi tempi in preghiera in una piccola cappella. Al termine di questo cammino di ricerca viene ordinato sacerdote nel 1901 e comprende progressivamente che il luogo verso cui si sente attirato non è una città né un santuario, ma il deserto del Sahara, abitato da popolazioni quasi sconosciute al mondo europeo.

Stabilitosi dapprima a Beni Abbès, in Algeria, Charles costruisce una piccola fraternità di mattoni crudi ai margini di un accampamento militare e di un villaggio. Organizza la sua giornata intorno alla celebrazione e all’adorazione dell’Eucaristia, al lavoro manuale e all’accoglienza delle persone che bussano alla sua porta — siano esse soldati francesi o abitanti del luogo, schiavi in fuga, poveri in cerca di aiuto, viaggiatori smarriti. Questo stile di vita fa della casa nel deserto una soglia dove si incrociano storie, lingue e destini diversi.

Non trovando ancora compagni che condividano stabilmente il suo progetto, Charles si spinge più a sud, nel massiccio dell’Hoggar, e si stabilisce presso i Tuareg nel villaggio di Tamanrasset. Qui costruisce un’abitazione semplice in pietra, impara la lingua locale, ascolta i racconti dei nomadi, raccoglie proverbi e canti, trascrive leggi consuetudinarie e prepara un ampio vocabolario tuareg–francese che occuperà molti anni della sua vita. Nel rapporto quotidiano con queste popolazioni, segnate da dure condizioni di vita, dalla precarietà climatica e da tensioni tribali, desidera essere per tutti fratello e amico, senza armi, senza privilegi e senza distinzione di religione, offrendo compagnia, sostegno materiale e la sua preghiera.

La sua meditazione sulla vita di Gesù, trascorsa in gran parte nella discrezione di Nazareth, lo porta a scegliere un’esistenza nascosta, fatta di lunghi tempi di silenzio davanti all’Eucaristia, di lavoro accurato sui testi di grammatica e di lessico, di incontri personali spesso brevi ma intensi con chi chiede un consiglio, un aiuto, una lettera. In questa trama apparentemente modesta si inseriscono una fitta corrispondenza con amici e amiche in Europa e in Terra Santa, il sogno di piccole fraternità presenti tra popoli lontani e il costante tentativo di tenere uniti l’amore per la Chiesa, l’appartenenza al suo popolo francese e il rispetto profondo per la cultura e la fede degli abitanti del Sahara.

Gli anni della guerra mondiale aggravano le tensioni nel deserto, aumentano le rivalità tra tribù e il clima di insicurezza attorno a Tamanrasset si fa più forte. Nonostante i consigli di trasferirsi in un luogo più protetto, Charles preferisce rimanere accanto alla popolazione che conosce da anni e alla quale sente di appartenere. La sera del primo dicembre 1916 una piccola banda armata raggiunge la sua abitazione con intenzioni di rapina e di sequestro. La situazione degenera rapidamente: nella confusione un giovane di quella banda spara, e il missionario cade ucciso davanti alla porta della sua povera casa, mentre nel villaggio la notizia si diffonde tra stupore, dolore e incomprensione.

Dopo la sua morte, avvenuta quasi nel silenzio, senza testimonianze ufficiali né cronache dettagliate, la memoria di Charles de Foucauld rimane affidata ai quaderni, alle lettere, ai dizionari e ai testi meditati con pazienza. Solo decenni più tardi questi scritti vengono riletti, condivisi, commentati e diventano fonte di ispirazione per gruppi di laici, comunità religiose, presbiteri e famiglie che cercano una presenza semplice e fraterna in contesti segnati da distanza sociale o culturale. Nel tempo, la figura dell’eremita del Sahara viene riconosciuta anche ufficialmente dalla Chiesa cattolica, che ne propone l’esempio e la testimonianza come modello di vita radicata nell’Eucaristia, attenta alla fraternità, aperta alla missione e al dialogo con ogni persona.

Così il ricordo del giovane ufficiale inquieto, dell’esploratore curioso, del monaco nascosto e del prete solitario nel deserto si ricompone in un’unica vicenda, nella quale la ricerca di senso si intreccia con le grandi trasformazioni storiche della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, mostrando come, in un angolo remoto del Sahara, sia nata un’esperienza discreta ma duratura di incontro tra culture, lingue e fedi diverse, che ancora oggi continua a suscitare racconti, riflessioni e nuove iniziative di vita condivisa.

1/12 – B. Clementina Anuarite (1940-1964).

Martire, religiosa, uccisa a Isiro durante la ribellione dei Simba (Congo).

Il 1° dicembre 1964, a Isiro, nel nord-est del Congo, veniva uccisa la giovane religiosa congolesese Maria Clementina Anuarite Nengapeta, figura divenuta poi uno dei simboli più noti della tragedia vissuta dal Paese negli anni delle ribellioni post-indipendenza.

Nata nel 1940 a Wamba, in una famiglia segnata da difficoltà e abbandoni, cresce tra lavori domestici, scuola e prime forme di catechesi missionaria. Il suo nome d’uso, “Anuarite”, deriva da un errore di iscrizione scolastica e richiama nella lingua locale l’idea di non temere la guerra: una coincidenza che la storia avrebbe reso drammaticamente significativa. Attratta dalla vita comunitaria delle suore che vedeva all’opera nelle missioni, a sedici anni entra nella congregazione della Sacra Famiglia, prende in seguito il nome di Maria Clementina e diventa insegnante, destinata alla missione di Bafwabaka.

La sua vita scorre semplice, tra scuola, catechesi e i ritmi di un villaggio missionario lontano dalle grandi città. Ma nell’est del Congo il clima si fa sempre più instabile: dopo l’indipendenza del 1960, il Paese è attraversato da rivolte e violenze, tra cui quella dei Simba, un movimento che considera missionari e religiosi come avversari o bersagli simbolici. Nel novembre 1964 i ribelli invadono la missione di Bafwabaka, deportano le suore e le conducono a Isiro, diventata una delle loro basi.

Qui Anuarite attira l’attenzione di un comandante ribelle, che pretende di farla sua “moglie”. Il netto rifiuto della giovane religiosa scatena minacce e violenze. Nella notte tra il 30 novembre e il 1° dicembre, dopo un tentativo di fuga insieme a un’altra consorella, viene picchiata, trascinata davanti agli ufficiali e infine uccisa a colpi d’arma da fuoco. Aveva venticinque anni.

Il suo corpo, inizialmente gettato in una fossa comune, verrà recuperato solo l’anno successivo. La memoria di quella morte, avvenuta nel turbinio di una guerra civile che travolse intere comunità, si è radicata nel Paese come simbolo di fedeltà, coraggio e dignità di fronte alla violenza. Oggi Anuarite è ricordata come una delle figure più luminose della storia recente del Congo, legata per sempre alla data del 1° dicembre e a quella notte di Isiro che portò il suo nome oltre i confini del suo piccolo villaggio natale.

1/12 – Intorno a questa data nel 1964.

Durante la guerra civile, uccisi centinaia di migliaia di congolesi e circa 170 missionari, fra essi 4 giovani comboniani.

Intorno ai primi giorni di dicembre del 1964, nel cuore della crisi politica che aveva travolto il Congo indipendente, il Paese viveva uno dei momenti più violenti della sua storia recente. In quell’anno la rivolta dei Simba, nata nelle regioni orientali e rapidamente diffusasi in ampie aree del territorio, aveva trasformato città, villaggi e missioni in campi di battaglia. La giovane repubblica, nata appena quattro anni prima dal crollo del dominio coloniale belga, si ritrovò sospinta in un vortice di lotte interne, rivalità etniche, ritorsioni contro presunti collaborazionisti e regolamenti di conti che sfuggivano a ogni controllo.

In quel contesto, migliaia di congolesi – uomini, donne, anziani, bambini – furono travolti dalle violenze: esecuzioni sommarie, massacri di villaggi, assalti alle strutture civili e religiose, sequestri di massa. Le zone sotto influenza dei ribelli vedevano un alternarsi di paure collettive e tentativi di sopravvivenza quotidiana, mentre le autorità centrali cercavano, con mezzi limitati, di riconquistare il territorio.

Le missioni cristiane, diffuse in quasi tutte le regioni del Paese, divennero uno dei bersagli più visibili. La loro presenza, spesso identificata – a torto o a ragione – con l’eredità culturale del periodo coloniale, le rendeva punti strategici e simbolici: luoghi dove rifugiarsi o da saccheggiare, centri educativi e sanitari percepiti ora come risorse, ora come minacce. In quell’anno, circa 170 missionari persero la vita, vittime di imboscate, rappresaglie o assalti diretti alle loro comunità.

Tra questi si contarono anche quattro giovani comboniani, impegnati da poco in Congo in attività di catechesi, scuola e assistenza locale. Le loro morti, avvenute in circostanze diverse ma legate allo stesso clima di disordine armato, riflettono la vulnerabilità delle missioni in quelle settimane in cui il fronte era ovunque e in nessun luogo. L’avanzata e la ritirata dei vari gruppi armati lasciavano dietro di sé edifici bruciati, archivi distrutti e intere comunità disperse o costrette alla fuga.

Il mese di dicembre si aprì dunque con un Paese lacerato: mentre le operazioni militari governative, sostenute anche da forze straniere, cominciavano a riconquistare alcune città, emergessero gradualmente notizie più precise dei massacri avvenuti nei mesi precedenti. Le missioni evacuate, i villaggi ridotti in cenere e le sepolture improvvisate restituivano l’immagine di una guerra civile frammentata e feroce, segnata non da grandi battaglie ma da una miriade di episodi locali di violenza incontrollata.

Intorno a questa data, il 1° dicembre 1964, il Congo si trovava nel pieno di quel passaggio critico: un momento in cui si delineava, con tragica chiarezza, il costo umano della lotta per il potere nella nuova nazione africana e il prezzo pagato da popolazioni civili e missionari che, ciascuno a suo modo, si erano trovati al centro di un conflitto più grande di loro.

2/12 – Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù.

Il 2 dicembre richiama una vicenda umana che attraversa secoli e continenti, lasciando dietro di sé memorie di sofferenza ma anche di resistenza e trasformazione. La data evoca un lungo percorso storico, iniziato ben prima che nascessero i movimenti moderni per i diritti umani, quando le società antiche consideravano la schiavitù parte integrante dell’ordine economico e sociale. Nell’Egitto dei faraoni, nelle città-stato greche, nell’impero romano e nelle dinastie orientali, la presenza di uomini e donne ridotti in servitù rappresentava una realtà quotidiana, quasi sempre invisibile nei racconti ufficiali ma decisiva per il funzionamento degli imperi.

Con l’espansione europea dell’età moderna, la schiavitù assunse una dimensione del tutto nuova: interi popoli vennero catturati, deportati e costretti a lavorare nelle piantagioni e nelle miniere del Nuovo Mondo. La cosiddetta tratta atlantica ridisegnò rotte commerciali, economie e culture, generando ripercussioni che ancora oggi influenzano identità e strutture sociali in molte parti del mondo. Ma accanto alla violenza sistemica si sviluppò anche un filone di resistenza: ribellioni nelle piantagioni, fughe organizzate, comunità indipendenti fondate dagli schiavi liberati, fino alla nascita di movimenti politici che misero apertamente in discussione l’istituzione della schiavitù.

Tra XVIII e XIX secolo, l’idea che la libertà fosse un diritto universale iniziò a diventare una forza concreta. Diverse nazioni abolirono progressivamente la tratta e, successivamente, la schiavitù stessa, talvolta dopo lunghi conflitti politici o vere e proprie guerre civili. Fu un passaggio epocale, che non annullò le ferite del passato ma inaugurò una nuova fase della storia globale.

La ricorrenza del 2 dicembre invita dunque a guardare oltre le celebrazioni formali e a osservare la trama storica che ha portato il mondo a riconoscere la schiavitù come una violazione della dignità umana. Non si tratta soltanto di ricordare ciò che è stato, ma di comprendere come l’eredità di quei sistemi continui a influenzare il presente, nelle sue forme più evidenti e in quelle più sottili. È un’occasione per rileggere il passato attraverso le storie – spesso dimenticate – di coloro che hanno lottato per la libertà, restituendo loro voce e presenza nella narrazione collettiva.

3/12 – S. Francesco Saverio (1506-1552).

Gesuita spagnolo, missionario in India e in Giappone, patrono principale delle missioni. ·

Il 3 dicembre la memoria di Francesco Saverio riporta a una delle figure più dinamiche del XVI secolo, protagonista dell’espansione globale del cristianesimo e testimone delle grandi interconnessioni che l’età delle esplorazioni stava aprendo tra Europa e Asia. Nato nel 1506 nella regione basca della Navarra, proveniva da una famiglia nobile segnata dalle tensioni politiche del tempo: il conflitto tra monarchia castigliana e autonomie locali incise sulle vicende dei suoi parenti e contribuì al suo avvicinamento agli studi universitari come via di riscatto.

A Parigi, negli anni della formazione, incontrò Ignazio di Loyola. Quel rapporto, inizialmente teso e poi trasformato in collaborazione, sarebbe stato decisivo. Nel 1534, insieme ad altri compagni, partecipò alla nascita della Compagnia di Gesù, un nuovo ordine che univa disciplina militare, rigore intellettuale e disponibilità ai compiti più ardui. Per Francesco Saverio quel compito si sarebbe presto tradotto in una traversata oceanica.

Nel 1541 partì per l’Oriente al servizio del re del Portogallo, che chiedeva missionari per seguire le colonie e i commerci in espansione. Il viaggio, durato più di un anno, lo portò prima in Mozambico e poi a Goa, sulla costa indiana, allora uno dei principali centri del dominio portoghese in Asia. Qui iniziò un lavoro capillare che lo portò tra pescatori, commercianti, comunità miste di europei e locali, ma anche nei villaggi dell’entroterra. Si spostava molto, a piedi o su imbarcazioni costiere, e alternava lunghi periodi nelle città portuali a soggiorni più brevi nelle zone rurali, in un ambiente segnato da pluralità religiosa e frequenti tensioni sociali.

Dal subcontinente indiano passò alle isole dell’arcipelago malese: le Molucche, il Malacca, il Giappone dei daimyō in lotta per l’egemonia. In Giappone arrivò nel 1549, trovando un Paese estremamente strutturato, con una cultura raffinata e una gerarchia politica complessa. L’adattamento fu difficile: lingua, costumi, pratiche religiose richiesero un lungo apprendistato, ma Saverio riuscì a inserirsi in alcune reti locali, ottenendo udienze ufficiali e instaurando rapporti che aprirono il cammino ad altri gesuiti. La sua permanenza in Giappone durò circa due anni, un tempo breve ma sufficiente perché il suo nome si legasse ai primi contatti sistematici tra Europa e il mondo nipponico.

Negli ultimi anni della vita coltivò un nuovo progetto: raggiungere la Cina continentale, che considerava decisiva per la stabilità e la diffusione futura della presenza europea in Asia. Nel 1552 giunse sull’isola di Sancian, al largo della costa cantonese, in attesa di un ingresso clandestino nel grande impero, che allora vietava gli stranieri nelle zone interne senza autorizzazione. La missione non si compì: colpito da una malattia improvvisa, Francesco Saverio morì il 3 dicembre, a soli quarantasei anni, in una capanna affacciata sul mare, guardando verso quella Cina che non avrebbe mai potuto raggiungere.

La sua figura si impose quasi immediatamente come emblema dell’espansione del cristianesimo globale dell’età moderna: un uomo capace di attraversare oceani, imparare nuove lingue, confrontarsi con culture distantissime, lasciando tracce significative in luoghi che andavano da Goa a Kagoshima. È ricordato come patrono delle missioni non tanto per un singolo gesto, quanto per l’ampiezza del suo itinerario e per la capacità di muoversi in un mondo in rapido mutamento, divenendo simbolo di un secolo in cui continenti, popoli e storie cominciavano a intrecciarsi come mai prima d’allora.

3/12 – Bolla di Papa Gregorio XVI (1839)

Condanna la tratta degli schiavi e scomunica coloro che vi partecipavano.

Il 3 dicembre 1839, in un clima internazionale già attraversato da dibattiti politici, pressioni economiche e tensioni morali legate alla fine del commercio atlantico degli schiavi, Papa Gregorio XVI pubblicò una bolla destinata a lasciare un segno nella storia della lotta contro la tratta. Il documento, noto per la sua condanna esplicita del traffico di esseri umani, interveniva in un momento in cui l’Europa stava lentamente rivedendo il proprio rapporto con la schiavitù, ma in cui molti interessi coloniali continuavano a perpetuarne la pratica.

La bolla si inseriva in un quadro complesso. La tratta degli schiavi aveva raggiunto il suo apice nel XVIII secolo, alimentata dal sistema economico delle piantagioni americane e dalle esigenze delle potenze marittime europee. Nonostante alcuni Stati avessero già abolito ufficialmente il commercio – come il Regno Unito nel 1807 e gli Stati Uniti nel 1808 – la pratica proseguiva sotto forme clandestine o con la complicità di funzionari locali nelle colonie. La pressione internazionale sulla Santa Sede affinché prendesse una posizione più netta cresceva anche perché molti dei territori coinvolti erano nominalmente cristiani o sotto influenza europea.

Gregorio XVI, pontefice di formazione tradizionale ma attento al mutare dei rapporti geopolitici, scelse dunque di redigere un testo che non lasciasse margini di ambiguità. Nella bolla veniva denunciato senza attenuanti il commercio di esseri umani, definito contrario alla dignità dell’uomo e alle relazioni tra i popoli. Il documento proibiva ai cattolici di partecipare in qualsiasi forma alla tratta e stabiliva che chiunque vi fosse coinvolto incorresse automaticamente nella scomunica.

La portata di questo atto non risiedeva soltanto nella condanna morale, bensì nel suo peso giuridico all’interno del mondo cattolico. La scomunica colpiva mercanti, proprietari di navi, intermediari, funzionari e chiunque avesse un ruolo nella cattura, nel trasporto o nella vendita degli schiavi. In numerosi territori coloniali di influenza cattolica la bolla divenne un riferimento per governatori, missionari e comunità religiose impegnate a dissuadere o impedire la continuazione del traffico.

Il documento, pur non fermando da solo il commercio transatlantico, contribuì ad accelerare un processo già in corso: quello che avrebbe portato alla graduale estinzione della tratta e, più tardi, all’abolizione legale della schiavitù in molti Paesi. La sua pubblicazione il 3 dicembre 1839 rimane un tassello significativo nella storia del XIX secolo, un momento in cui istituzioni e governi europei iniziarono a confrontarsi con il peso di un sistema che per secoli aveva segnato profondamente le economie, le società e le identità di tre continenti.

4/12 – Servo di Dio Giosuè Dei Cas (1880-1932)

Fratello comboniano, missionario in Sudan, ove contrasse la lebbra.

Il 4 dicembre ricorda la figura di Giosuè Dei Cas, fratello comboniano vissuto tra Otto e Novecento, la cui vicenda personale si intreccia con le difficili condizioni della missione cattolica nel Sudan anglo-egiziano. Nato nel 1880 in Trentino, in un contesto rurale segnato dalla vita di montagna e da forti tradizioni comunitarie, crebbe in un ambiente che valorizzava il lavoro manuale e la solidarietà tra famiglie. Fu proprio questa attitudine pratica a introdurlo nella giovane congregazione fondata da Daniele Comboni, dove i fratelli laici erano considerati pilastri indispensabili per le missioni africane: falegnami, meccanici, agricoltori, infermieri, insegnanti, capaci di far funzionare scuole, officine, ospedali e stazioni missionarie.

Partito per l’Africa nei primi anni del Novecento, Giosuè Dei Cas si trovò a operare in un Sudan ancora scosso dalle conseguenze dell’epopea mahdista e dalla successiva conquista da parte delle potenze europee. Le missioni cattoliche, tollerate ma strettamente sorvegliate, lavoravano soprattutto lungo il Nilo e nelle regioni meridionali, tra popolazioni spesso nomadi o seminomadi, lontane dai centri amministrativi e disseminate su territori vastissimi. I fratelli comboniani svolgevano una miriade di compiti: costruire scuole e cappelle in adobe, riparare attrezzi, coltivare campi per garantire il sostentamento delle comunità locali, ma anche occuparsi dei malati quando mancavano medici qualificati.

Fu proprio nell’assistenza ai più vulnerabili che la vita di Giosuè Dei Cas prese una svolta drammatica. Nel corso degli anni, a stretto contatto con persone affette da malattie allora endemiche – malaria, febbri tropicali e soprattutto lebbra – contrasse egli stesso la forma lepromatosa, una delle più gravi. All’epoca, la lebbra comportava l’allontanamento obbligato in strutture isolate, sia per evitare contagi, sia perché la malattia, ancora priva di cure efficaci, veniva considerata incurabile e altamente stigmatizzante.

Dei Cas accettò il trasferimento in un lebbrosario, dove visse gli ultimi anni segnati dal declino fisico ma anche da una sorprendente attività: continuò a rendersi utile come poteva, insegnando piccoli lavori manuali agli altri degenti, riparando oggetti e collaborando alla gestione quotidiana dell’istituto. Le lettere e i ricordi dei compagni di missione lo descrivono come un uomo dal carattere semplice, abituato a rimanere nell’ombra, capace però di costruire attorno a sé un clima di fiducia anche nelle condizioni più dure.

Morì nel 1932, a cinquantadue anni, dopo quasi tre decenni trascorsi in Africa. La sua vicenda non è legata a imprese spettacolari, ma alla concretezza silenziosa di chi costruì, letteralmente e simbolicamente, i primi mattoni delle missioni sudanesi del XX secolo. Oggi è ricordato come Servo di Dio, figura che testimonia il volto poco noto ma essenziale della presenza missionaria in Africa: quello dei fratelli artigiani, infermieri, agricoltori, uomini che hanno legato la loro storia personale alle sorti di regioni allora quasi sconosciute all’Europa.

5/12 – B. Filippo Rinaldi (1856-1931)

Terzo successore di Don Bosco, diede un forte impulso missionario ad gentes. ·

Il 5 dicembre riporta alla figura di Filippo Rinaldi, sacerdote salesiano nato nel 1856 nel Monferrato e divenuto uno dei protagonisti della crescita internazionale dell’opera fondata da Don Bosco. Proveniva da una famiglia contadina, abituata a un ritmo di vita essenziale, segnato dal lavoro nei campi e dalla forte coesione comunitaria tipica del Piemonte rurale dell’Ottocento. L’incontro con l’ambiente salesiano avvenne da giovane, in un periodo in cui Torino era un crocevia di fermenti sociali, migrazioni interne e iniziative educative rivolte agli strati popolari; un contesto in cui Don Bosco aveva creato un modello innovativo di formazione giovanile.

Rinaldi entrò nella congregazione con una maturità più grande rispetto a molti compagni e, proprio per questo, venne presto coinvolto in attività di responsabilità: direzione di case, formazione dei novizi, organizzazione delle opere salesiane in Italia e all’estero. Dotato di grande capacità organizzativa e di un carattere pacato ma determinato, fu considerato da Don Bosco uno dei collaboratori più stabili e affidabili.

Alla morte di Don Rua, secondo successore del fondatore, nel 1910 Rinaldi venne chiamato a guidare la congregazione in un momento delicato. L’Europa era attraversata da tensioni politiche, conflitti sociali e, poco dopo, dalla Prima guerra mondiale. Molte opere educative soffrirono per la mancanza di risorse, per la mobilitazione militare o per i cambiamenti legislativi che ridisegnavano il ruolo delle istituzioni religiose nella società.

In questo scenario complesso, Rinaldi riuscì a imprimere un nuovo slancio alla dimensione missionaria dei salesiani. Le missioni, già avviate da Don Bosco alla fine dell’Ottocento – in particolare in America Latina – conobbero sotto di lui una significativa espansione. Sostenne l’invio di giovani religiosi in Asia, Africa e Oceania, favorì la preparazione linguistica e culturale dei missionari e rafforzò i legami con le comunità locali, consapevole che il futuro dell’opera salesiana nei nuovi continenti dipendeva dalla capacità di radicarsi nei territori e di formare personale indigeno.

Durante il suo mandato si svilupparono anche nuove forme di partecipazione laicale, tra cui l’Istituto Secolare delle Volontarie di Don Bosco, che offriva la possibilità di vivere lo spirito salesiano senza entrare nella vita religiosa tradizionale. Questo ampliamento di prospettive contribuì a rendere più dinamica e capillare la presenza salesiana nel mondo.

Quando morì, nel 1931, Filippo Rinaldi lasciava una congregazione cresciuta non solo nei numeri, ma soprattutto nella capacità di operare in contesti culturali diversi, mantenendo salda l’ispirazione originaria di Don Bosco e aprendola a orizzonti globali. Il suo nome rimane legato a una fase di espansione che segnò in modo decisivo la storia missionaria del XX secolo.

5/12 – Ricordo di Matthew Lukwiya (1957-2000)

Medico ugandese, direttore sanitario dell’ospedale di Lacor (Gulu, Uganda) morto assistendo i malati di ebola, un testimone di carità cristiana. Come lui, altri medici, infermieri e missionari nel mondo vittime di contagi assistendo i malati.

Il 5 dicembre riporta al destino di Matthew Lukwiya, medico ugandese nato nel 1957 e divenuto, negli ultimi decenni del Novecento, una delle figure più significative nella storia sanitaria dell’Africa orientale. Proveniva dalla regione di Acholi, nel nord dell’Uganda, un’area segnata per anni da instabilità politica, conflitti interni e forte povertà. Il giovane Matthew, cresciuto in un contesto familiare semplice, mostrò presto un’intelligenza brillante e una determinazione che lo portarono a intraprendere gli studi di medicina, in un periodo in cui il Paese cercava con difficoltà di ricostruire i propri servizi pubblici dopo il crollo dei regimi dittatoriali.

La sua storia professionale è legata all’ospedale di St. Mary’s Lacor, nei pressi di Gulu, fondato da missionari comboniani e sviluppato negli anni grazie alla collaborazione di personale ugandese e volontari provenienti da vari Paesi. Lacor era diventato un punto di riferimento in una regione ancora fragile, colpita dalle guerriglie del Lord’s Resistance Army, dall’insicurezza e da una sanità pubblica spesso in crisi. Qui Matthew Lukwiya non fu solo un medico competente: divenne leader riconosciuto, punto di equilibrio tra autorità locali, operatori sanitari e popolazione civile.

Nel 2000, quando in Uganda comparvero i primi casi di Ebola nella regione di Gulu, Lacor si trovò in prima linea. L’epidemia, una delle più gravi mai affrontate dall’Africa centrale, richiedeva misure di contenimento quasi impossibili da implementare in un contesto di scarsi mezzi, paura diffusa e continue emergenze. Lukwiya divenne immediatamente il coordinatore della risposta dell’ospedale: riorganizzò i reparti, improvvisò aree di isolamento, formò rapidamente il personale, cercò di mantenere la calma tra i pazienti e nelle comunità circostanti. Era consapevole del rischio altissimo per medici e infermieri, ma riteneva impossibile ritirarsi.

Durante le fasi più drammatiche dell’epidemia, quando parte del personale si ammalò e alcuni fuggirono per paura, Lukwiya rimase al suo posto, assumendo turni massacranti e seguendo personalmente i casi più difficili. Fu in una di queste occasioni che contrasse il virus, probabilmente durante il tentativo di calmare un paziente in preda al delirio febbrile. Morì il 5 dicembre 2000, dopo pochi giorni di malattia, in un ospedale che aveva guidato per dieci anni e che considerava la sua casa.

La sua morte ebbe un’eco immediata: non solo in Uganda, ma in tutta l’Africa orientale e tra le organizzazioni sanitarie internazionali. Lukwiya venne riconosciuto come uno dei simboli del personale sanitario che, negli ultimi decenni, ha pagato con la vita la scelta di assistere i malati durante epidemie devastanti — Ebola, Marburg, HIV/AIDS nelle sue fasi iniziali, fino alle crisi sanitarie più recenti. La sua storia richiama quella di medici, infermieri, volontari e missionari che, in diversi continenti, si sono ammalati mentre cercavano di contenere infezioni ad alta letalità in contesti fragili.

Il nome di Matthew Lukwiya resta legato al coraggio silenzioso della medicina africana contemporanea: una medicina spesso priva di mezzi, ma capace di gesti estremi di dedizione. La sua figura rimane, per molti, l’emblema di un impegno umano e professionale portato avanti fino all’ultimo, in un ospedale ai margini del mondo, in cui la vita di ogni paziente aveva per lui lo stesso valore.

5/12 – Giornata internazionale del Volontariato.

Il 5 dicembre si celebra la Giornata internazionale del Volontariato, istituita negli anni Ottanta dalle Nazioni Unite in un periodo in cui, dopo le grandi tensioni della Guerra Fredda, la società civile internazionale stava assumendo un peso crescente nelle dinamiche sociali, umanitarie e di sviluppo. L’appuntamento annuale nacque con l’intento di dare visibilità a un fenomeno che, pur essendo radicato da secoli nella storia delle comunità locali, stava entrando in una nuova fase: quella dei movimenti transnazionali, delle organizzazioni non governative e dei gruppi di cittadini capaci di mobilitarsi oltre i confini nazionali.

Negli anni in cui la giornata venne istituita, il volontariato aveva ormai assunto forme moderne e strutturate. Le grandi crisi internazionali – dai terremoti alle carestie africane, dalle migrazioni alle epidemie – avevano messo in evidenza il ruolo indispensabile di migliaia di persone che operavano spesso senza compenso e talvolta in condizioni di grande rischio. Allo stesso tempo, nelle città di tutto il mondo cresceva l’associazionismo: cooperative, gruppi parrocchiali, centri giovanili, reti di assistenza domiciliare e iniziative culturali. Il volontariato non era più un’attività marginale, ma un elemento sempre più centrale nella costruzione del tessuto sociale.

Il 5 dicembre venne così scelto come occasione per riconoscere pubblicamente questa realtà, dando spazio alle storie e ai volti di chi, in contesti diversissimi, contribuiva alla vita delle proprie comunità: dai soccorritori nelle emergenze ai formatori nei campi profughi, dagli animatori culturali nei quartieri periferici ai medici e infermieri impegnati in programmi internazionali di salute pubblica.

Nel corso degli anni la giornata ha seguito l’evoluzione del mondo contemporaneo. Ha accompagnato i cambiamenti del volontariato giovanile, la nascita di iniziative ambientali globali, l’impegno per i diritti sociali, le nuove forme di solidarietà digitale e i grandi movimenti di risposta alle crisi umanitarie. In molti Paesi, il 5 dicembre è diventato anche uno spazio per riflettere sul contributo economico e sociale del volontariato, che spesso supplisce alle carenze dei sistemi pubblici e favorisce la coesione tra gruppi diversi.

Oggi questa ricorrenza non è solo una celebrazione, ma un modo per leggere la storia recente attraverso l’azione silenziosa di milioni di persone: una trama di gesti quotidiani che, pur non entrando nei manuali di storia, hanno influenzato profondamente la vita di comunità, città e intere regioni del mondo.

6/12 – B. Pietro Pascual (ca. 1225-1300)

Mercedario spagnolo, evangelizzatore in Spagna e Portogallo, vescovo di Jaén, martirizzato da musulmani a Granada. ·

Il 6 dicembre ricorda Pietro Pascual, figura che emerge nel crocevia politico e religioso della penisola iberica del XIII secolo, quando la Reconquista stava trasformando in modo radicale il mosaico di regni cristiani e domini musulmani. Nato intorno al 1225 a Valencia, pochi anni dopo che la città era passata sotto il controllo aragonese, crebbe in una regione segnata dal confronto tra culture e da un’intensa mobilità di popoli, lingue e tradizioni.

Entrato nell’Ordine della Mercede, fondato per l’assistenza e il riscatto dei prigionieri cristiani catturati durante i conflitti con i regni musulmani, Pietro Pascual si trovò presto coinvolto in un’attività che univa catechesi, mediazione e diplomazia. L’ordine, diffuso soprattutto nelle regioni orientali della penisola, era attivo nei porti e nelle frontiere, dove gli scambi di prigionieri erano frequenti e spesso complessi. In questo ambiente, il giovane religioso maturò un’esperienza diretta del dialogo — e talvolta dello scontro — tra le due sponde del Mediterraneo.

Il suo ministero si sviluppò tra Spagna e Portogallo, territori allora impegnati in una lenta ma costante espansione verso sud. Il contesto politico era in pieno mutamento: nuovi regni cristiani si consolidavano, mentre gli antichi regni musulmani della penisola – Almohadi prima, Nasridi poi – cercavano di riorganizzarsi. In questo quadro, Pietro Pascual si distinse come predicatore e uomo di studio, e le sue capacità lo condussero a incarichi sempre più rilevanti.

La sua nomina a vescovo di Jaén, città strategica dell’Andalusia appena sottratta al controllo musulmano, lo collocò in un territorio di confine, esposto a tensioni militari e incursioni. Qui cercò di riorganizzare il clero, consolidare la vita religiosa e rafforzare la presenza cristiana in un’area dove convivevano, spesso con difficoltà, comunità di diversa provenienza.

Durante un viaggio considerato relativamente sicuro, venne catturato da forze musulmane della regione di Granada, allora governata dalla dinastia nasride. La cattura di ecclesiastici e nobili era una pratica comune: gli ostaggi potevano essere usati come moneta di scambio o fonte di riscatto. Pietro Pascual, tuttavia, non venne liberato. Trattenuto a lungo in prigionia, fu infine ucciso intorno al 1300, in circostanze che le cronache del tempo presentano come conseguenza diretta delle tensioni religiose e politiche tra i regni della penisola.

La sua morte lo rese una figura simbolica del complesso rapporto tra cristiani e musulmani nella Spagna medievale, un’epoca in cui convivere, commerciare, negoziare e combattere erano spesso facce dello stesso scenario. La sua memoria, legata al 6 dicembre, offre uno spaccato della frontiera iberica del XIII secolo: un territorio in cui il destino di singoli uomini poteva essere travolto dagli equilibri instabili tra poteri rivali che condividevano la stessa terra.

6/12 – Ricordo di Raoul Follereau (1903-1977)

Avvocato, giornalista e scrittore francese, fondatore della Giornata mondiale dei malati di lebbra (1954), “vagabondo della carità”.

Il 6 dicembre richiama la figura di Raoul Follereau, nato nel 1903 in Francia e divenuto, nel corso del XX secolo, uno dei volti più riconoscibili dell’impegno internazionale contro la lebbra. La sua storia non nasce da una vocazione religiosa né da una formazione medica, ma da un percorso insolito: avvocato di studi, giornalista per passione e scrittore prolifico, Follereau appartenne a quella generazione di intellettuali europei cresciuti tra le due guerre mondiali, in un continente segnato da crisi economiche, migrazioni e profonde inquietudini culturali.

Negli anni Trenta, mentre si occupava di reportage e conferenze in vari Paesi, venne in contatto con realtà coloniali africane e asiatiche dove la lebbra, malattia antichissima e fortemente stigmatizzata, continuava a colpire intere comunità. Il suo interesse non fu immediatamente sanitario: inizialmente fu colpito soprattutto dall’isolamento sociale che la malattia comportava, dalle città e villaggi in cui i malati vivevano ai margini, separati dai centri abitati. Da questa esperienza nacque la sua determinazione a rendere visibile un problema dimenticato.

Durante la Seconda guerra mondiale e negli anni successivi, Follereau intraprese una lunga serie di viaggi, conferenze e iniziative pubbliche che gli valsero l’appellativo di “vagabondo della carità”. Era un uomo di parola e di movimento: organizzava campagne di raccolta fondi, teneva discorsi nelle scuole e nei teatri, incontrava politici e ambasciatori, cercando di sensibilizzare un’opinione pubblica ancora poco informata sulle condizioni dei malati nei grandi lebbrosari dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.

Nel 1954 lanciò la Giornata mondiale dei malati di lebbra, un’iniziativa che mirava a unire, nello stesso giorno, azioni di solidarietà e informazione nei diversi Paesi. All’epoca, la malattia era curabile soltanto in forma limitata e molte comunità erano prive di strutture adeguate. La giornata contribuì a creare una rete internazionale di sostegno, attirando governi, associazioni, medici e volontari. Fu uno dei primi esempi, nel dopoguerra, di mobilitazione sanitaria globale ante litteram, molto prima che le grandi organizzazioni internazionali consolidassero i propri programmi contro le malattie tropicali.

Con gli anni, Follereau estese il suo impegno anche ad altre cause legate alla pace, alla dignità umana e all’educazione. Continuò a viaggiare e a scrivere fino alla morte, nel 1977, lasciando un’eredità fatta di iniziative concrete e di un linguaggio semplice, capace di raggiungere un pubblico vasto.

Il suo nome resta legato soprattutto alla campagna contro la lebbra, una malattia che nel corso dei secoli aveva generato timore e isolamento e che, anche grazie al contributo delle sue iniziative, venne progressivamente affrontata con maggiori risorse mediche, sociali e internazionali. Il ricordo del 6 dicembre invita a ripercorrere non solo la sua biografia, ma una stagione della storia del Novecento in cui singoli individui riuscirono a dare voce a problemi rimasti a lungo ai margini dell’attenzione mondiale.

7-8/12 Anniversario di importanti documenti missionari

Decreto conciliare Ad Gentes (7/12/1965); Evangelii nuntiandi di Paolo VI (8/12/1975); Redemptoris missio di Giovanni Paolo II (7/12/1990).

Il 7 e l’8 dicembre riportano alla memoria una sorta di “cascata” storica di documenti che, in tre decenni, hanno segnato in modo decisivo la riflessione e la prassi missionaria della Chiesa del Novecento: Ad Gentes nel 1965, Evangelii nuntiandi nel 1975 e Redemptoris missio nel 1990. Letti oggi, appaiono come tre tappe di un lungo percorso, profondamente legato alle trasformazioni politiche, culturali e religiose del mondo contemporaneo.

1965 — Ad Gentes
Il 7 dicembre 1965 si chiudeva il Concilio Vaticano II, e tra i testi approvati vi era il decreto Ad Gentes, interamente dedicato all’attività missionaria. Il mondo era in piena decolonizzazione: nuovi Stati nascevano in Africa e Asia, mentre l’ordine internazionale si ridefiniva tra blocchi contrapposti. In questo contesto, la missione non poteva più essere pensata secondo schemi ereditati dall’Ottocento. Ad Gentes mise in evidenza la necessità di radicare le giovani Chiese nei propri contesti culturali, di formare clero e laici locali e di superare definitivamente ogni legame tra missione e logiche coloniali. Era un documento che guardava avanti, segnando una svolta nella concezione stessa dell’evangelizzazione.

1975 — Evangelii nuntiandi
Dieci anni dopo, l’8 dicembre 1975, Paolo VI pubblicava Evangelii nuntiandi, in un mondo ormai segnato dalla globalizzazione delle comunicazioni, dalla crisi dei grandi sistemi politici e dall’emergere di nuove domande sociali e spirituali. In America Latina si diffondevano movimenti popolari, in Asia si rafforzavano nuove identità religiose, in Europa cresceva il secolarismo. L’annuncio cristiano doveva confrontarsi con città in espansione, migrazioni, mezzi di comunicazione di massa. Paolo VI affrontò la questione in termini ampi: evangelizzare non significava più solo raggiungere territori lontani, ma anche interpretare le trasformazioni culturali delle società moderne. Il testo divenne rapidamente uno dei pilastri della riflessione missionaria della seconda metà del secolo.

1990 — Redemptoris missio
Il 7 dicembre 1990, nel mondo post-Guerra Fredda, Giovanni Paolo II firmava Redemptoris missio. Il crollo del Muro di Berlino aveva ridisegnato gli equilibri globali; regioni a lungo chiuse all’attività missio­naria si riaprivano, mentre nuovi fenomeni — pluralismo religioso, mobilità internazionale, nascita di metropoli globali — cambiavano profondamente i luoghi e i volti della missione. Il documento riaffer­mava l’urgenza dell’annuncio in un tempo in cui vecchi confini erano caduti e nuove forme di ricerca spirituale emergevano ovunque. Guardava al futuro della missione come a un processo dinamico, in cui le Chiese di ogni continente avrebbero contribuito con la propria creatività e le proprie esperienze.

Nell’arco di trent’anni, queste tre date formano un itinerario coerente: dal ripensamento del mandato missionario in epoca postcoloniale, all’attenzione per le trasformazioni culturali della società contemporanea, fino alla lettura delle nuove sfide globali dopo il 1989. Il 7 e l’8 dicembre diventano così un punto di osservazione privilegiato sull’evoluzione della missione nel Novecento, strettamente intrecciata alla storia politica e culturale del mondo.

8/12 – Solennità dell’Immacolata Concezione della B. V. Maria.

L’8 dicembre, nella tradizione cattolica, è dedicato alla solennità dell’Immacolata Concezione, una ricorrenza che unisce un lungo percorso storico–teologico a un forte radicamento popolare. La scelta di questa data è legata alla proclamazione ufficiale del dogma: fu infatti l’8 dicembre 1854 che venne definito solennemente il principio secondo cui Maria, fin dal primo istante della sua esistenza, fu preservata dal peccato originale. Da allora, il giorno dell’8 dicembre è rimasto stabilito come festa liturgica della sua concezione.

Questa definizione, però, non nacque dal nulla. Da secoli la cristianità occidentale coltivava una festa dedicata alla concezione di Maria, già conosciuta nel Medioevo in Inghilterra e nel mondo francese. Nei secoli successivi, soprattutto tra XV e XVIII secolo, la ricorrenza si diffuse capillarmente nell’Europa mediterranea e nei territori ispanici oltremare, accompagnata da una ricca produzione artistica e da un forte sostegno popolare. Nel frattempo, nelle università medievali e poi moderne, teologi e scuole filosofiche avevano discusso a lungo il significato della santità originaria di Maria, anticipando la formulazione ottocentesca.

Proprio l’atto del 1854 trovò qualche anno più tardi un riscontro inatteso nella vicenda delle apparizioni di Lourdes. Nel 1858, in un piccolo villaggio dei Pirenei francesi, la giovane Bernadette Soubirous dichiarò che la “Signora” che le era apparsa si era presentata con l’espressione: «Io sono l’Immacolata Concezione». Queste parole, inattese sulle labbra di una ragazza priva di istruzione, furono interpretate dalle autorità ecclesiastiche come una conferma della definizione proclamata pochi anni prima. Lourdes divenne rapidamente un punto di riferimento europeo, richiamando pellegrini, malati e curiosi, e contribuì a consolidare nell’immaginario collettivo l’idea di Maria come figura luminosa, vicina alle fragilità umane.

La solennità dell’8 dicembre, vista in questa prospettiva, assume un duplice significato storico. Da un lato, è il frutto di una lunga evoluzione dottrinale che attraversa quasi un millennio; dall’altro, è una festa resa popolare anche da un evento dell’Ottocento che ebbe risonanza internazionale. Oggi la celebrazione apre simbolicamente il tempo natalizio in molti Paesi, ed è legata a tradizioni urbane e familiari che uniscono la memoria teologica a una partecipazione popolare radicata nel tessuto delle comunità cristiane.

8/12 – Anniversario della chiusura del concilio Vaticano II (1965).

L’8 dicembre 1965 segnò la conclusione solenne del concilio Vaticano II, uno degli eventi più significativi della storia della Chiesa contemporanea, ma anche uno degli snodi culturali e sociali del Novecento. Quel giorno, nella basilica di San Pietro, si chiudeva un percorso iniziato tre anni prima, quando il mondo era nel pieno della Guerra Fredda, e che si era sviluppato attraverso quattro sessioni conciliari, migliaia di interventi, dibattiti intensi e un dialogo ininterrotto con le trasformazioni dell’epoca.

Quando venne convocato, nel 1959, il concilio sembrò a molti un gesto inatteso: l’idea era quella di “aggiornare” la Chiesa in un tempo che stava cambiando rapidamente. Nel giro di pochi anni, la scena internazionale aveva visto l’Europa ricostruirsi dopo la Seconda guerra mondiale, la nascita delle nuove nazioni in Africa e Asia, l’ascesa dei grandi blocchi politico-militari, il progresso tecnologico e il diffondersi di nuove questioni sociali. In questo contesto, il concilio si inserì come luogo di confronto globale, con la partecipazione di vescovi provenienti da ogni continente, molti dei quali testimoni diretti delle trasformazioni del loro tempo.

I lavori conciliari affrontarono temi che toccavano le strutture interne della Chiesa, il dialogo ecumenico, la presenza nel mondo moderno, la liturgia, la formazione dei laici, la missione ad gentes, la libertà religiosa e i rapporti con altre religioni. Il clima del concilio oscillò tra fedeltà alla tradizione e desiderio di apertura: commissioni e assemblee discutevano testi che avrebbero ridefinito il linguaggio e l’approccio della Chiesa nei decenni successivi.

L’8 dicembre 1965, con la promulgazione degli ultimi documenti, quel percorso arrivò al suo termine visibile. Le immagini di quella giornata mostrarono una Chiesa che si voltava verso il mondo con un atteggiamento nuovo: la conclusione non fu tanto una chiusura quanto un passaggio di consegne, come se il concilio lasciasse alle comunità dei cinque continenti il compito di tradurre nella pratica le intuizioni maturate in aula.

Il significato storico di questa data si comprende soprattutto nel tempo lungo. Negli anni successivi, le idee conciliari si confrontarono con profondi cambiamenti: i movimenti del ’68, la decolonizzazione ormai compiuta, le riforme liturgiche, le nuove correnti teologiche, la crisi di alcune istituzioni tradizionali e, allo stesso tempo, la nascita di esperienze pastorali e missionarie inedite. L’8 dicembre divenne così un punto di riferimento: non solo la fine di un’assemblea, ma l’inizio di un periodo in cui la Chiesa avrebbe dovuto ripensare sé stessa in un secolo accelerato, dialogando con una modernità in continua evoluzione.

Oggi quell’8 dicembre è ricordato come la conclusione formale di una stagione conciliare che, pur con sviluppi complessi e talvolta contrastati, ha lasciato un’impronta profonda nella storia religiosa, culturale e sociale del Novecento. Una data che segna la fine di un grande processo e, al tempo stesso, l’avvio di un nuovo capitolo.

8/12 – Bb. Paolo Yun Ji-chung e 123 compagni martiri

Uccisi in Corea tra il 1791 e il 1888.

L’8 dicembre è dedicato alla memoria di Paolo Yun Ji-chung e dei 123 compagni martiri, figure che attraversano quasi un secolo di storia coreana, tra il 1791 e il 1888: un periodo segnato da profondi mutamenti politici, conflitti interni e tensioni tra tradizioni locali e aperture verso idee provenienti dall’esterno.

Il cristianesimo arrivò in Corea non attraverso missionari stranieri, come avvenne altrove in Asia, ma grazie ai contatti culturali e diplomatici con la Cina. Studiosi coreani, affascinati dal pensiero occidentale e dalle scienze, scoprirono testi cristiani nell’ambiente degli esami imperiali di Pechino e li riportarono in patria. Nacque così, negli ultimi decenni del Settecento, una piccola comunità autoctona, senza clero, che cercava di organizzarsi attorno ai testi disponibili, mescolando curiosità intellettuale e ricerca spirituale. Tra i primi credenti figurava Paolo Yun Ji-chung, un giovane appartenente alla classe yangban, la nobiltà letterata del regno Joseon.

Il contesto politico, però, era ostile. La dinastia Joseon si reggeva su un ordinamento ispirato al neoconfucianesimo, che regolava i rapporti familiari e le pratiche rituali. Il cristianesimo, che rifiutava i culti ancestrali tradizionali, appariva come una minaccia all’ordine sociale. Le autorità reagirono con misure crescenti di controllo: inizialmente ammonimenti, poi interrogatori, infine vere e proprie persecuzioni.

Nel 1791 Paolo Yun Ji-chung fu coinvolto in uno dei primi casi emblematici. In occasione della morte della madre, aveva omesso i riti ancestrali imposti dalla tradizione, scegliendo una sepoltura secondo usi cristiani. Il gesto, di per sé privato, venne considerato un attacco all’armonia sociale e all’autorità dello Stato. Arrestato insieme ad altri membri della giovane comunità, fu giustiziato dopo un processo esemplare. La sua morte divenne il primo grande episodio di persecuzione nella storia della Chiesa coreana.

Da allora, in varie ondate, le repressioni si ripeterono. Nel 1801, nel 1839, nel 1846 e soprattutto nel 1866, quando un’ondata particolarmente violenta colpì missionari francesi e migliaia di fedeli locali. Le carceri di Seoul e di altre città si riempirono di sospetti cristiani: nobili, contadini, artigiani, donne e bambini. Le cause erano spesso identiche: il rifiuto dei riti confuciani, la fedeltà a una fede percepita come straniera, ma soprattutto la sfida implicita che questa comunità rappresentava per la struttura sociale tradizionale.

Il periodo si chiuse formalmente solo nella seconda metà dell’Ottocento, quando il regno Joseon iniziò ad aprirsi alle potenze esterne, firmando trattati e limitando la repressione religiosa. Tra il 1791 e il 1888, tuttavia, centinaia di cristiani coreani avevano perso la vita: una lunga serie di processi, esili, confische, esecuzioni, che rivelano il volto complesso di una società attraversata da tensioni tra riforma e conservazione, tra apertura e difesa dell’identità tradizionale.

L’8 dicembre, dedicato a Paolo Yun Ji-chung e ai suoi 123 compagni, richiama dunque una pagina significativa della storia asiatica: quella di un cristianesimo nato dall’interno, sviluppatosi senza missionari per decenni e messo alla prova da persecuzioni che riflettono i grandi cambiamenti politici e culturali del tempo. Una testimonianza di come idee nuove, giunte attraverso rotte intellettuali inattese, abbiano inciso sulle vicende di un regno rimasto a lungo chiuso al resto del mondo.

8/12 – Venerabile Fulton Sheen (1895-1979)

Vescovo nordamericano, ideatore del “Rosario missionario”.

L’8 dicembre ricorda il venerabile Fulton Sheen, figura centrale del cattolicesimo nordamericano del XX secolo, noto tanto per le sue doti comunicative quanto per la sua visione missionaria. Nato nel 1895 nel Midwest rurale degli Stati Uniti, in un’epoca in cui le comunità immigrate – irlandesi, tedesche, italiane – stavano ancora trovando il proprio posto nel tessuto sociale americano, Sheen crebbe in un ambiente segnato da una religiosità semplice, fatta di parrocchie di frontiera e scuole gestite da congregazioni religiose.

Dopo brillanti studi teologici negli Stati Uniti e in Europa, entrò progressivamente nella vita pubblica del cattolicesimo americano. Gli anni Trenta e Quaranta furono decisivi: la radio, allora mezzo di comunicazione di massa, divenne il suo primo grande palcoscenico. Sheen seppe adattare il linguaggio religioso alle esigenze del pubblico moderno, intrecciando riflessioni spirituali, riferimenti culturali e osservazioni sul mondo contemporaneo. Negli anni Cinquanta approdò alla televisione, mezzo ancora giovane, diventando uno dei volti più riconoscibili del panorama mediatico statunitense. I suoi programmi raggiunsero milioni di spettatori, un fenomeno senza precedenti per un vescovo cattolico negli Stati Uniti.

Accanto all’attività pubblica, Sheen sviluppò una forte sensibilità missionaria. Il suo sguardo spaziava ben oltre i confini americani: seguiva con attenzione i cambiamenti in Asia e Africa, in un periodo segnato dalla decolonizzazione e dall’emergere di nuove Chiese locali. Fu in questo clima che ideò il “Rosario missionario”, una forma di preghiera pensata per ricordare i diversi continenti attraverso cinque colori simbolici. Non si trattava solo di un gesto devozionale, ma di una proposta pedagogica in un’epoca in cui molti credenti avevano una conoscenza limitata delle realtà extra-occidentali: ogni colore invitava a pensare ai popoli, alle culture e alle sfide dei vari continenti, intrecciando preghiera e consapevolezza globale.

Negli ultimi decenni della vita, Sheen ricoprì ruoli episcopali e incarichi di responsabilità nel sostegno alle missioni. Si impegnò anche nella promozione di vocazioni missionarie negli Stati Uniti, intuendo che il cattolicesimo americano – in crescita demografica e culturale – avrebbe potuto svolgere un ruolo crescente nello scenario mondiale.

Quando morì, nel 1979, lasciò un’eredità complessa e moderna: un modo nuovo di comunicare la fede nei mezzi di massa, un’attenzione costante alle dinamiche globali e un’idea di missione che univa dimensione spirituale e coscienza internazionale. Il ricordo dell’8 dicembre ne restituisce così il profilo storico: quello di un vescovo capace di muoversi tra pulpito e televisione, tra Midwest e Asia, tra tradizione religiosa e linguaggi contemporanei.

9/12 – Giornata internazionale contro la Corruzione (Onu).

Il 9 dicembre ricorre la Giornata internazionale contro la corruzione, istituita dalle Nazioni Unite all’inizio del XXI secolo in un momento in cui la comunità internazionale stava prendendo coscienza della portata globale di un fenomeno capace di influenzare economie, istituzioni politiche e vita quotidiana in modi profondi. L’attenzione verso questo tema crebbe soprattutto negli anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda e l’apertura di nuovi mercati: le transizioni politiche in Europa orientale, la crescita delle economie emergenti e l’espansione dei commerci misero in evidenza quanto sistemi fragili potessero diventare terreno fertile per pratiche illecite, clientelismi e reti informali di potere.

Fu in questo contesto che le Nazioni Unite promossero un trattato internazionale specifico, unendo Stati con storie, culture giuridiche e interessi molto diversi. L’idea era quella di creare uno strumento capace di favorire la cooperazione tra governi, la condivisione di dati, la gestione dei flussi finanziari sospetti e la protezione di testimoni e funzionari pubblici impegnati in contesti difficili. L’adozione della giornata annuale ebbe lo scopo di rendere visibile, su scala globale, un problema spesso percepito come interno ai singoli Paesi, ma in realtà connesso a dinamiche transfrontaliere: riciclaggio di denaro, traffici illegali, frodi fiscali, manipolazione di appalti, sfruttamento delle risorse naturali.

La ricorrenza dell’9 dicembre è diventata nel tempo un’occasione per rileggere la storia recente attraverso l’evoluzione dei sistemi politici. Emersero differenze significative tra regioni del mondo: istituzioni consolidate erano spesso più resilienti, mentre Stati usciti da guerre civili, dittature o profonde trasformazioni economiche risultavano più vulnerabili. Allo stesso tempo, gli scandali che hanno segnato la vita pubblica in molti Paesi hanno mostrato come la corruzione non sia confinata alle giovani democrazie o alle economie in via di sviluppo, ma possa insinuarsi anche nei contesti più avanzati attraverso circuiti finanziari opachi o intrecci tra potere economico e politico.

Negli anni, la giornata è stata usata anche per mettere in luce figure meno visibili: giornalisti investigativi, magistrati, funzionari pubblici e attivisti della società civile che, in contesti complessi, hanno cercato di contrastare pratiche radicate, spesso esponendosi a rischi personali. Le loro storie rivelano il lato umano di una battaglia che non si gioca solo nei documenti ufficiali, ma nelle scelte quotidiane di chi opera dentro istituzioni, imprese e comunità.

L’9 dicembre, dunque, non è soltanto una data simbolica, ma la sintesi di un percorso storico che ha portato la lotta alla corruzione da tema locale a questione globale. Una lente attraverso cui osservare i rapporti di potere, le trasformazioni economiche e le sfide istituzionali di un mondo sempre più interconnesso.

10/12 – Memoria di Thomas Merton (Francia 1915-1968 Thailandia)

Monaco trappista (Usa), mistico e scrittore, maestro di spiritualità e dialogo. ·

Il 10 dicembre riporta alla figura di Thomas Merton, una delle voci più originali e influenti della spiritualità del Novecento, capace di unire monachesimo, letteratura e dialogo interculturale. Nato nel 1915 in Francia da genitori artisti e cosmopoliti, trascorse l’infanzia tra Europa e Stati Uniti, vivendo sulla propria pelle le instabilità del periodo tra le due guerre. Questa mobilità precoce — scuole inglesi, viaggi in Francia, soggiorni americani — contribuì a formare un carattere inquieto, assetato di senso e sensibile ai linguaggi dell’arte e della scrittura.

Trasferitosi definitivamente negli Stati Uniti negli anni Trenta, Merton attraversò un lungo percorso interiore, segnato da studi universitari, amicizie intellettuali e l’incontro con il cattolicesimo, che lo portò a entrare nel monastero trappista di Gethsemani, nel Kentucky. Lì, nel cuore rurale dell’America, iniziò la sua vita monastica, lontana dai centri urbani, ma non per questo isolata dal mondo: attraverso lettere, saggi, articoli e soprattutto il celebre racconto autobiografico della sua conversione, Merton divenne rapidamente una voce ascoltata ben oltre le mura del monastero.

Gli anni Cinquanta e Sessanta furono per lui un periodo di intensa produzione letteraria e di crescente notorietà. Merton si muoveva con naturalezza tra teologia, poesia, critica sociale e riflessione esistenziale. Da monaco contemplativo osservava il panorama internazionale segnato da Guerra Fredda, corsa agli armamenti, crisi coloniali e movimenti per i diritti civili, maturando una sensibilità attenta alla pace, alla giustizia e alle tensioni culturali del tempo. Ciò lo portò anche a un interesse crescente per le tradizioni spirituali orientali — buddhismo, taoismo, induismo — aprendo strade nuove nel dialogo tra religioni in un’epoca in cui questo campo iniziava appena a essere esplorato su larga scala.

Proprio il desiderio di confronto interculturale lo condusse in Asia nel 1968, quando partecipò a un incontro interreligioso in Tailandia. Quel viaggio, atteso da anni, rappresentava una sorta di coronamento della sua ricerca: finalmente poteva incontrare di persona quei maestri spirituali che aveva studiato nei libri. Durante una tappa del convegno, però, un incidente in albergo pose fine improvvisa alla sua vita, lasciando un senso di incompiuto ma anche una forte eredità.

Il 10 dicembre, giorno della sua morte, è divenuto occasione per ricordare non solo lo scrittore prolifico e il monaco contemplativo, ma il testimone di un approccio nuovo alla spiritualità del Novecento: un uomo che seppe unire radici cristiane e apertura alle culture del mondo, silenzio monastico e capacità di leggere il proprio tempo, tradizione trappista e desiderio di dialogo in un secolo attraversato da fratture profonde. Merton continua a essere una figura di riferimento per studiosi, ricercatori e persone in ricerca spirituale, simbolo di un monachesimo capace di parlare al mondo contemporaneo.

10/12 – Giornata mondiale dei Diritti Umani (Onu, 1948).

Il 10 dicembre 1948, a Parigi, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò un documento che avrebbe segnato una svolta nella storia contemporanea: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Era il frutto di mesi di negoziati che vedevano riuniti attorno allo stesso tavolo delegati provenienti da Paesi reduci da una guerra mondiale ancora viva nella memoria collettiva. Le discussioni furono accese, spesso rallentate da visioni politiche divergenti, ma unite dalla consapevolezza che il mondo stava entrando in una nuova fase e che servissero principi comuni a cui fare riferimento dopo anni di conflitti e devastazioni.

La giornata del 10 dicembre viene ricordata oggi come un momento simbolico, non solo per la solennità del voto, ma per il clima in cui nacque quel testo: un’epoca attraversata da tensioni e ricostruzioni, in cui molte nazioni cercavano di definire nuovi equilibri politici e sociali. Nelle sale dell’ONU si intrecciavano lingue, culture e ideologie, ma anche la volontà di lasciare alle generazioni future un segnale di cambiamento. Alcuni articoli della Dichiarazione riflettevano in modo diretto gli errori e gli orrori del recente passato, trasformandoli in principi condivisi che aspiravano a superare le frontiere.

Da allora, il 10 dicembre è diventato un appuntamento annuale che invita a tornare a quel momento fondativo: un giorno per ricordare come, in un periodo incerto, la comunità internazionale cercò di mettere per iscritto una base comune di dignità, diritti e libertà. Una ricorrenza che racconta più di una celebrazione: è la traccia di un passaggio storico in cui il mondo, appena uscito da un’epoca buia, tentò di immaginare un futuro diverso.

12/12 – Nostra Signora di Guadalupe

L’apparizione della Vergine Maria in Messico, apparsa all’indigeno S. Juan Diego (1531).

Il 12 dicembre richiama uno degli episodi più celebri della storia religiosa dell’America Latina: l’apparizione della Vergine di Guadalupe all’indigeno Juan Diego, avvenuta nel 1531 sulle pendici del colle del Tepeyac, poco fuori da Città del Messico. Siamo negli anni immediatamente successivi alla conquista spagnola, un periodo in cui le tradizioni locali e la cultura europea si incontrano e spesso si scontrano, dando vita a un panorama sociale in rapido cambiamento.

Secondo il racconto tramandato, Juan Diego — un nahua convertito al cristianesimo — avrebbe visto una figura femminile che gli parlò nella sua lingua. Il luogo stesso dell’episodio non era privo di storia: il Tepeyac era associato da tempo a un culto preispanico, e questo contribuì a intrecciare subito elementi indigeni e nuovi simboli europei nella narrazione delle apparizioni.

Ciò che accadde nei giorni successivi divenne presto oggetto di attenzione: la richiesta di costruire un santuario, il coinvolgimento delle autorità ecclesiastiche, la diffusione della vicenda tra le comunità locali. Nel giro di pochi decenni, il culto guadalupano iniziò a espandersi ben oltre i confini del Messico, accompagnando la formazione di identità collettive e trasformandosi in un punto di riferimento per popolazioni diverse per lingua, radici e tradizioni.

Il 12 dicembre, oggi, è una data che richiama non solo una storia devozionale, ma anche un momento di incontro tra mondi. L’immagine e il racconto di Guadalupe si collocarono fin da subito in una zona di confine culturale, diventando parte del processo attraverso cui il Messico coloniale cercò di dare forma alla propria identità, sospesa tra passato preispanico e nuova realtà globale. È in questa dimensione storica che la ricorrenza continua a trovare il suo significato.

16/12 – B. Filippo Siphong Onphitak (1907-1940)

Padre di famiglia e catechista, protomartire della Thailandia.

Il 16 dicembre ricorda la figura di Filippo Siphong Onphitak, nato nel 1907 in una regione rurale della Thailandia centrale, in un periodo in cui il Paese stava attraversando profondi mutamenti politici e sociali. La monarchia assoluta era da poco stata trasformata in monarchia costituzionale, mentre le comunità locali vivevano ancora secondo ritmi tradizionali, segnati dal lavoro dei campi e da rapporti comunitari molto stretti.

Filippo non era un religioso di formazione, ma un padre di famiglia e un catechista che, negli anni Trenta, svolgeva funzioni di guida all’interno della piccola comunità cristiana locale. Era un’epoca in cui la presenza cristiana nel Paese, seppur radicata da tempo, rimaneva minoritaria e talvolta guardata con sospetto, soprattutto quando le tensioni politiche interne rendevano più fragile il rapporto tra gruppi sociali e autorità.

Nel 1940, durante una fase particolarmente delicata per il Paese, la comunità di cui Filippo faceva parte rimase improvvisamente senza un sacerdote, costretto ad allontanarsi per ragioni di sicurezza. Fu allora che Filippo assunse, quasi naturalmente, il ruolo di punto di riferimento per i fedeli rimasti, guidando incontri e momenti di preghiera in un clima d’incertezza crescente. Il suo coinvolgimento lo rese però più esposto: i movimenti di sospetto verso figure considerate legate a influenze straniere finirono per concentrarsi anche su di lui.

La sua morte, avvenuta nel dicembre di quell’anno, fu subito percepita dalla comunità come un momento drammatico e decisivo. Con il tempo, il suo nome divenne simbolo delle vicende vissute da una piccola minoranza religiosa in un periodo agitato della storia thailandese, segnato da riforme nazionali, tensioni internazionali e cambiamenti culturali. La sua memoria rimane legata a quel frangente storico, nel quale il ruolo di un uomo comune assunse, per la sua comunità, il valore di una testimonianza fondativa.

16/12 – Bb. Giuseppe Thao Tien (1918-1954)

Primo sacerdote e martire del Laos.

Il 16 dicembre ricorda Giuseppe Thao Tien, figura legata a una fase cruciale della storia del Laos nel XX secolo. Nato nel 1918 in una famiglia appartenente a un gruppo etnico delle montagne del nord, crebbe in un contesto ancora segnato dall’amministrazione coloniale francese, quando il Paese era parte dell’Indocina francese. In quegli anni, molte comunità rurali vivevano in modo relativamente isolato, mentre nelle città prendevano forma i primi movimenti politici che, di lì a poco, avrebbero definito il destino della regione.

Giuseppe intraprese un percorso di formazione religiosa in un periodo in cui il Laos stava muovendo i primi passi verso la costruzione di un clero autoctono. Nel 1953 divenne sacerdote, uno dei primi del Paese, proprio mentre la regione era attraversata da conflitti e tensioni legate alla guerra d’Indocina e alla ridefinizione degli equilibri politici dopo il tramonto dell’ordine coloniale.

Nel 1954, mentre il Laos si avviava verso l’indipendenza, la situazione nelle aree interne rimaneva instabile: gruppi armati di diversa matrice si contendevano territori e influenza, e figure religiose e civili si trovavano spesso coinvolte loro malgrado nelle dinamiche del conflitto. Fu in questo clima, segnato da sospetti e rivalità, che Giuseppe venne arrestato durante una delle operazioni compiute nelle zone rurali. Il suo rifiuto di abbandonare la comunità affidatagli – una scelta che aveva più a che vedere con il senso di responsabilità verso la popolazione che con gesti eroici – contribuì a renderlo un bersaglio.

La sua morte, avvenuta nel dicembre dello stesso anno, si collocò così in un momento in cui il Laos si trovava sospeso tra passato coloniale e futuro indipendente. Con il tempo, il ricordo di Giuseppe Thao Tien ha assunto un valore particolare non solo per la comunità cristiana locale, ma anche come testimonianza di una fase storica complessa, in cui identità, fedeltà e appartenenze si ridefinivano sullo sfondo di un Paese in trasformazione.

20/12 – Giornata internazionale dei migranti

Il 20 dicembre richiama una storia antichissima, che coincide con quella stessa dell’umanità. Da quando gruppi di cacciatori e raccoglitori iniziarono a spostarsi inseguendo le stagioni e le mandrie, il movimento attraverso territori sconosciuti è sempre stato uno dei modi fondamentali con cui le comunità hanno cercato risorse, sicurezza o nuove opportunità. Nel corso dei millenni, città e civiltà sono nate proprio dall’incrocio di persone venute da altrove, portatrici di lingue, tecniche, memorie e abitudini diverse.

Le migrazioni hanno assunto forme differenti a seconda delle epoche. Nell’antichità erano spesso determinate da pressioni demografiche, dalla ricerca di terre fertili o dal desiderio di controllo delle rotte commerciali. I popoli che attraversavano continenti lasciavano dietro di sé tracce durature: un pantheon che si arricchiva di nuove divinità, alfabeti che si mescolavano, tecnologie che passavano da un popolo all’altro. Lungo le vie carovaniere e marittime, dall’Asia centrale al Mediterraneo, gli spostamenti producevano scambi continui che trasformavano tanto chi arrivava quanto chi accoglieva.

Con l’età moderna, la mobilità umana divenne un fenomeno globale. A stimolarla furono le esplorazioni, l’espansione degli imperi, la crescita delle città, ma anche conflitti e carestie che costrinsero molti a lasciare regioni d’origine diventate insicure o incapaci di garantire mezzi di sostentamento. Intere generazioni attraversarono oceani in cerca di terre nuove, contribuendo a creare società multietniche e a ridisegnare la geografia culturale del pianeta. In parallelo, milioni di persone furono spinte a spostarsi non per scelta, ma per imposizioni politiche, economiche o militari: un aspetto che mostra quanto il fenomeno sia sempre stato legato ai grandi equilibri storici.

Il Novecento aggiunse ulteriori livelli di complessità: guerre mondiali, decolonizzazione, rivoluzioni industriali e trasformazioni tecnologiche modificarono il modo di muoversi e la velocità degli spostamenti. Le migrazioni divennero parte integrante dei processi di modernizzazione, contribuendo alla crescita di metropoli cosmopolite e alla circolazione di saperi e professionalità.

La ricorrenza del 20 dicembre invita quindi a osservare la lunga traiettoria con cui gli esseri umani hanno costruito legami oltre i confini. È un’occasione per leggere nella mobilità non soltanto un fenomeno del presente, ma un tratto costante della storia, capace di influenzare culture, economie e paesaggi sociali. Ogni migrazione racconta un viaggio individuale, ma allo stesso tempo compone un mosaico più vasto, in cui il movimento diventa una delle chiavi essenziali per comprendere l’evoluzione delle società umane.

22/12 – S. Francesca Saverio Cabrini (Lodi 1850-1917 Chicago)

Fondatrice delle Missionarie del S. Cuore di Gesù, per i migranti.

Il 22 dicembre ricorda Francesca Saverio Cabrini, nata nel 1850 a Lodi, in un’Italia ancora giovane, impegnata a definire la propria identità dopo l’unificazione. Cresciuta in un contesto rurale e segnato da forti trasformazioni sociali, sin da giovane si trovò a osservare da vicino le difficoltà di un Paese in cui la povertà spingeva molti a lasciare la propria terra. Alla fine dell’Ottocento, infatti, l’emigrazione italiana verso le Americhe stava assumendo proporzioni imponenti, trasformando la vita di intere comunità.

Fu proprio in quel clima di partenze e di incertezze che Francesca fondò, nel 1880, l’istituto delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Inizialmente il suo progetto sembrava rivolto soprattutto al contesto italiano, ma presto i racconti provenienti dagli Stati Uniti – dove migliaia di connazionali si ritrovavano spesso in condizioni difficili – orientarono la missione verso una direzione nuova. Nel 1889 partì così per New York, approdando in una città che stava cambiando a ritmo vertiginoso, popolata da quartieri sovraffollati e segnata dalle differenze linguistiche e culturali dei nuovi arrivati.

Francesca e le sue compagne iniziarono a muoversi proprio in quei luoghi: scuole improvvisate, ospedali per chi non riusciva a permettersene uno, case di accoglienza per famiglie appena sbarcate. L’espansione delle loro attività seguì la geografia stessa dell’emigrazione italiana, accompagnandola da New York a Chicago, dal Colorado alla costa occidentale, e oltre, fino in America Latina. In pochi decenni, le missionarie fondarono istituzioni che divennero parte integrante del tessuto urbano delle nuove comunità di migranti.

Francesca morì a Chicago nel 1917, in una città che stava diventando uno dei cuori industriali degli Stati Uniti, alimentata anche dal lavoro e dalla presenza di intere generazioni di immigrati europei. La sua vicenda personale si intreccia così con una delle grandi storie di mobilità umana del secolo: quella di milioni di uomini e donne che attraversarono l’Atlantico in cerca di nuove opportunità. A distanza di tempo, il suo nome rimane legato non solo alla dimensione religiosa, ma anche a quel particolare momento dell’esperienza migratoria, in cui le città americane si trasformavano e i legami tra vecchio e nuovo mondo si ridefinivano giorno dopo giorno.

25/12 – Natale del Signore.

Il 25 dicembre, data oggi legata alla celebrazione del Natale, affonda le sue radici in un lungo processo storico che attraversa culture e secoli. Nei primi secoli del cristianesimo, infatti, la nascita di Gesù non aveva una collocazione liturgica definita: la comunità si concentrava soprattutto sulla Pasqua, mentre la data della nascita rimaneva incerta e oggetto di riflessioni diverse. Fu solo nel IV secolo, dopo che l’Impero romano aveva modificato il proprio rapporto con il cristianesimo, che il 25 dicembre cominciò a imporsi come giorno ufficiale.

La scelta non avvenne nel vuoto. Nelle stesse settimane, Roma e molte altre regioni dell’impero vivevano festività legate al solstizio d’inverno: celebrazioni che salutavano il ritorno della luce dopo le giornate più brevi dell’anno. In quel clima convivano riti antichi, tradizioni popolari e trasformazioni politiche che stavano cambiando il volto dell’impero. Inserire la nascita di Gesù in questo contesto significava anche collocare la nuova festività all’interno di un calendario familiare alle popolazioni dell’epoca.

Con il passare dei secoli, il Natale si diffuse lungo le rotte della cristianizzazione europea, assumendo colori e accenti diversi secondo i luoghi. Nei Paesi nordici si intrecciò con usanze legate all’inverno; nel Mediterraneo si arricchì di elementi domestici e comunitari; in Oriente seguì un calendario differente, interessando altre date e altre liturgie. La festa divenne così un punto di snodo tra tradizioni locali e memoria religiosa, un’occasione capace di adattarsi a epoche e regioni differenti.

Il 25 dicembre, dunque, non è soltanto una ricorrenza teologica, ma anche una testimonianza del modo in cui una celebrazione si è radicata nella storia, nei ritmi stagionali e nella cultura dei popoli. La sua evoluzione racconta come, attraverso incontri e contaminazioni, un giorno del calendario sia diventato un simbolo condiviso da comunità lontane nello spazio e nel tempo.

31/12 – Giornata internazionale della Speranza.

Il 31 dicembre, ultimo giorno dell’anno civile, è divenuto negli ultimi decenni occasione per celebrare la Giornata internazionale della Speranza, una ricorrenza che si inserisce in un periodo tradizionalmente dedicato a bilanci, passaggi e nuove attese. La scelta della data non è casuale: il confine tra un anno e l’altro ha sempre esercitato un fascino particolare, segnando una soglia simbolica che molte culture hanno caricato di significati propri.

La celebrazione nasce in un contesto globale segnato da profondi cambiamenti. Tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, il mondo ha attraversato transizioni rapide — politiche, tecnologiche, ambientali — che hanno reso evidente la necessità di momenti condivisi di riflessione. Introdurre una giornata dedicata alla “speranza” significava, in questo senso, riconoscere l’importanza dei sentimenti collettivi nei periodi di trasformazione, soprattutto quando le comunità internazionali cercavano nuovi linguaggi per parlare del futuro.

Il 31 dicembre, già carico di ritualità laiche e religiose, si prestava a questa funzione: tra celebrazioni di fine anno, consuetudini familiari e tradizioni secolari, la giornata rappresenta da sempre un punto di raccordo tra ciò che si lascia alle spalle e ciò che non è ancora scritto. In molte parti del mondo, l’idea della speranza è stata così reinterpretata attraverso usanze locali: fuochi d’artificio che salutano un nuovo ciclo, oggetti simbolici lasciati andare o conservati, piccoli riti domestici che accompagnano il rinnovarsi del calendario.

Negli anni, la ricorrenza si è radicata come spazio di narrazione collettiva: un’occasione in cui popoli di culture diverse si ritrovano, anche senza saperlo, a compiere gesti simili mentre attendono l’arrivo del nuovo anno. In questo intreccio di storie e tradizioni, la Giornata internazionale della Speranza si colloca come erede di una lunga storia umana fatta di passaggi di soglia, di cicli che ricominciano e di sguardi proiettati verso ciò che verrà.