“La Parusia del Signore. Un’attesa senza esitazioni” è il tema della prima delle tre meditazioni verso il Natale di questa mattina, 5 dicembre, in Aula Paolo VI, alla presenza del Papa, fatta dal predicatore della Casa Pontificia, Padre Roberto Pasolini.

Scarica il testo della Meditazione

Per gentile concessione di
Vatican News

Quest’anno le meditazioni di Avvento ci introducono in un tempo singolare: mentre entriamo nel nuovo anno liturgico, ci avviciniamo anche alla conclusione del Giubileo ordinario che ci ha rimesso tutti in cammino come pellegrini di Speranza. Il 6 gennaio, solennità dell’Epifania, papa Leone chiuderà la Porta Santa aperta da papa Francesco, segno del passaggio di un testimone che anche ogni battezzato ha potuto sperimentare quest’anno, accogliendo la proposta di rinnovare la propria vita battesimale.

L’Avvento è il tempo in cui la Chiesa riaccende la speranza, contemplando non solo la prima venuta del Signore, ma soprattutto il suo ritorno alla fine dei tempi. Le antiche absidi raffiguravano il Cristo Veniente, con la mano destra alzata in benedizione e il Vangelo nella sinistra: un potente richiamo visivo alla certezza della sua promessa e al valore della nostra attesa.

Questo tempo liturgico vuole ricordarci che non siamo viandanti smarriti, ma pellegrini verso una patria. L’invocazione «Marana-tha» — «Vieni, Signore» — è il canto fiducioso che accompagna i nostri passi. Tuttavia, come ricorda l’apostolo Pietro, questa speranza non ci rende spettatori passivi: siamo chiamati ad attendere e insieme ad affrettare la venuta del Signore con una vigilanza serena e operosa.

Accorgersi della grazia

Prima di farci contemplare il mistero dell’Incarnazione, la liturgia di Avvento ci fa sempre misurare con i discorsi escatologici di Gesù, nei quali lo stesso Maestro ha preannunciato la sua Parusia, il giorno glorioso della sua venuta alla fine dei tempi. In realtà è solo l’evangelista Matteo a utilizzare questo termine greco (parousía) che racchiude un duplice significato: «presenza» e «venuta», simile alla visita di un sovrano che si rende presente in una provincia remota del suo regno.

Matteo ne parla quattro volte, tutte nel capitolo 24, dove condensa gli insegnamenti di Gesù sulle cose future o “ultime” (ta eschata), in cui ci vengono offerte delle indicazioni importanti per camminare con fiducia e senza angoscia verso l’incontro definitivo con Dio. Il discorso si apre con l’annuncio della rovina del Tempio e prosegue descrivendo un tempo segnato da guerre, carestie e sconvolgimenti che, tuttavia, non coincidono ancora con la fine. In mezzo a questo scenario difficile, sorgeranno falsi cristi e falsi profeti capaci di confondere molti, mentre l’iniquità farà raffreddare l’amore. Sarà proprio allora che i discepoli saranno chiamati a rendere testimonianza, accogliendo con mitezza le tribolazioni a causa dal Vangelo: solo così la sua parola potrà giungere a tutte le nazioni. Dopo una grande tribolazione, segni cosmici annunceranno la venuta del Figlio dell’uomo, che radunerà i suoi eletti. Poiché il termine di questo giorno resta ignoto, l’unico atteggiamento possibile è vegliare, come servi fedeli che attendono il ritorno del loro padrone senza lasciarsi sorprendere dal sonno o dall’inganno.

Verso la fine del discorso Gesù istituisce un paragone tra l’attesa della sua venuta e i giorni di Noé, quando la terra intera ha vissuto l’esperienza del diluvio universale.

Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo (Matteo 24,37-39).

Lo scenario in cui è maturato il diluvio era scandito da azioni ordinarie, simili a quelle che anche noi ogni giorno ci troviamo a fare: bere e mangiare, prendere scelte di vita e portarle avanti. Tuttavia, mentre tutti svolgevano queste normali attività, un uomo soltanto – Noè – aveva investito il suo tempo costruendo uno strumento di salvezza destinato a ospitare la sua famiglia e tutti gli animali che si sarebbero poi salvati dalle acque imminenti. E gli altri esseri umani? Non si accorsero di nulla, dice Gesù.

Cosa significa questo richiamo? In che modo può essere un monito anche per noi? Di cosa è necessario accorgersi, senza distrarci dalle questioni che ogni giorno siamo chiamati ad  affrontare?

La risposta potrebbe andare in molte direzioni. Dobbiamo accorgerci che il tempo in cui siamo chiamati a essere testimoni di Cristo è caratterizzato da sfide nuove e complesse: la Chiesa è chiamata a restare sacramento di salvezza in un cambiamento d’epoca che, come ricordano teologi e sociologi, ha trasformato profondamente il modo di credere e di appartenere. La pace rimane un miraggio in molte regioni finché ingiustizie antiche e memorie ferite non trovano guarigione, mentre nella cultura occidentale si indebolisce il senso della trascendenza, schiacciato dall’idolo dell’efficienza, della ricchezza e della tecnica. L’avvento delle intelligenze artificiali amplifica la tentazione di un umano senza limiti e senza trascendenza.

Ma accorgerci di tutto questo non basta a convertire il cuore. Occorre riconoscere qualcosa di più importante e decisivo: la direzione in cui il Regno di Dio continua a muoversi dentro la storia. È questo lo sguardo che possiamo ritrovare attingendo alla capacità profetica ricevuta nel battesimo. Gesù, più volte, rimproverava le persone del suo tempo proprio per l’incapacità di cogliere l’agire di Dio nella storia: «Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?» (Luca 12,59).

Di che cosa deve accorgersi la nostra – come ogni – generazione, sollevando gli occhi al cielo e contemplando il mistero di Dio ormai rivelato in Cristo? La risposta, in realtà, la conosciamo bene e nei giorni di Natale la liturgia ce la richiama puntualmente.  

È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo (Tito 2,11-13).

Ecco di cosa dobbiamo renderci sempre più conto: della grazia di Dio, quel dono di salvezza universale che la Chiesa umilmente celebra e offre, perché la vita umana sia sollevata dal peso del peccato e liberata dalla paura della morte. Di questa grazia, noi ministri della Chiesa parliamo e viviamo ogni giorno. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che i gesti di fede a cui siamo abituati, ai quali cerchiamo di restare fedeli, non producono solo l’effetto di nutrire la nostra relazione con Dio. Col tempo, il nostro cuore rischia di perdere slancio e vigore, fino a smarrire lo stupore per la grazia di Dio che siamo chiamati a gustare e a testimoniare. È il rischio della fede: diventare così familiari a Dio da darlo per scontato, dimenticando che, fin dai giorni di Noè, egli «nella sua magnanimità (makrothymia) pazientava» con noi e con tutti.

Ecco ciò di cui ogni generazione si deve accorgere, valutando con attenzione il tempo meraviglioso e drammatico in cui la vita sempre si svolge: il mistero di un Dio che, attingendo al suo infinito amore, continua a restare davanti alla sua creazione con incrollabile fiducia, nell’attesa che i giorni migliori possano – e debbano – ancora venire.

Cancellare il male

Per ritrovare il volto di un Dio che accompagna con pazienza la sua creazione ferita, il racconto del diluvio universale (Genesi 6–9) rimane una fonte inesauribile di luce e di rivelazione.

Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre (Genesi 6,5).

La storia si apre con un Dio ormai disincantato: l’essere umano, quella creatura che univa in sé i tratti della terra e del cielo, non è riuscito a far convivere gli ingredienti con cui era stato plasmato. Conserva qualche somiglianza esteriore con il suo Creatore, ma il suo agire non riflette più la capacità di amare. Una parola di menzogna ha trovato spazio nel suo cuore, e ora la vita dell’uomo non genera altro che male.

È un’analisi che, a prima vista, appare molto netta e forse persino troppo pessimista. Eppure è utile, perché riequilibra il modo spesso ingenuo con cui noi moderni guardiamo al mistero del male. Mentre ci illudiamo di poterlo superare semplicemente perfezionandoci o evolvendoci, dovremmo ricordare che la nostra umanità non ha solo bisogno di realizzarsi, ma anche – e soprattutto – di essere salvata. Il male non va semplicemente perdonato: deve essere cancellato, perché la vita possa finalmente fiorire nella sua verità e nella sua bellezza.

Il Signore disse: «Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti» (Genesi 6,7).

Nel proposito di cancellare l’uomo dalla faccia della terra non dobbiamo vedere l’inizio di un progetto distruttivo da parte di Dio, ma piuttosto l’urgenza di giocarsi fino in fondo, pur di non rinunciare al disegno d’amore che aveva dato origine alla creazione. Dio decide di “azzerare tutto” proprio perché non si rassegna davanti all’evidenza del male. Del resto, se avesse voluto davvero distruggere ciò che aveva fatto e ricominciare da capo, avrebbe potuto farlo liberamente, senza neppure sentire il bisogno di condividere le sue intenzioni con qualcuno.

Esplicitando il proposito di cancellazione, Dio dichiara il tentativo di plasmare ancora quel mondo uscito dalla fantasia del suo cuore e dall’ingegno delle sue mani. La stessa passione audace e ostinata animerà il cuore del Signore Gesù, quando piangerà davanti a Gerusalemme prima della sua passione (cf. Luca 19,41-44), o quando tenterà fino alla fine di impedire a Giuda di scivolare nella tentazione mortale del tradimento: «Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!» (Marco 14,21).

Nella logica della cancel culture in cui siamo immersi, per noi cancellare rischia di diventare solo il gesto con cui eliminiamo tutto ciò che non si allinea immediatamente ai nostri desideri o alla nostra sensibilità. Tuttavia, cancellare non significa solo questo, né può ridursi al tentativo di liberarsi di ciò che dell’altro ci appare faticoso.

Ogni giorno cancelliamo molte cose, senza sentirci in colpa e senza compiere alcun male. Cancelliamo messaggi, file inutili, errori su un documento, macchie, tracce, debiti. Molti di questi gesti, anzi, sono necessari per far maturare le nostre relazioni e rendere vivibile il mondo. Non a caso, i profeti useranno proprio questo verbo non per minacciare, ma per consolare Israele, ricordandogli la misericordia infinita di Dio.

Il Signore eliminerà (lett. cancellerà) la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato (Isaia 25,8).

Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati (Isaia 43,25).

Ho dissipato (lett. cancellato) come nube le tue iniquità e i tuoi peccati come una nuvola. Ritorna a me, perché io ti ho redento (Isaia 44,22).

Il verbo cancellare esprime bene anche ciò che l’uomo, consapevole della propria fragilità, chiede a Dio di fare sulla carne ferita della sua umanità, quando si riconosce bisognoso di essere di nuovo guarito e rinforzato.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe (Sal 51,3.11).

Ogni volta che il Signore si affaccia dal suo cielo per scrutare gli abitanti del mondo, dovremmo sempre pensare che lo faccia con la speranza di trovare un buon motivo per continuare a sostenere il disegno della sua creazione. Così recita il verso di un salmo: «Il Signore dal cielo si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio» (Salmo 14,2). E, infatti, proprio un uomo si dimostra capace di sollevare gli occhi in alto, anche se le circostanze non sembrano molto favorevoli: Noè, di cui si annota un particolare interessante.

Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore (Genesi 6,8).

Sebbene la malvagità sulla terra fosse grande, scopriamo che qualcuno non aveva smesso di cercare il volto di Dio e di interrogarsi circa la sua volontà. Qualcuno si era accorto che l’umanità stava vivendo sotto un cielo paziente. Noè si era accorto della grazia di Dio. Finalmente l’Altissimo trova una persona a cui confidare il suo progetto: cancellare tutto e ricominciare, senza però ricreare le condizioni fondamentali di un progetto che resta valido e possibile. Il tentativo è molto ardito, perché bisogna compiere una cancellazione, senza però cedere al fascino di ricominciare totalmente da zero. Ma come si potrà cancellare una realtà senza annullarla né alterarla?

La storia è nota: Dio chiede a Noè di costruire un’arca e gli indica con precisione le misure che dovrà avere. Gli studiosi riconoscono che queste indicazioni rimandano alle proporzioni del tempio di Gerusalemme. Non è un caso. Questi racconti sono stati composti durante l’esilio in Babilonia, quando Israele era lontano da Gerusalemme senza il luogo in cui poter incontrare il suo Dio. Così, l’arca diventa il simbolo di quel tempio perduto e del desiderio di ricostruirlo.

Ma il messaggio è ancora più profondo e attuale: il testo del diluvio ci dice che, per cancellare davvero il male dalla faccia della terra, non basta cambiare le strutture umane. Occorre ricostruire il “tempio del Signore”, cioè ripristinare la corretta immagine di Dio nel cuore dell’uomo e sulla faccia della terra. Solo quando l’uomo torna a vivere davanti al vero volto di Dio, la storia può davvero cambiare.

Per questo l’arca non è solo una barca: è la speranza permanente di ogni generazione. Mentre cerchiamo soluzioni partendo sempre dalla terra, il racconto del diluvio ci ricorda che la vita rifiorisce solo quando ricostruiamo il cielo, nella misura in cui rimettiamo al centro Dio. Non sorprende allora la durezza di Gesù quando, entrando nel tempio, lo trova trasformato in un mercato: senza un’immagine vera di Dio, anche la religione si degrada.

Il diluvio, dunque, non è semplice distruzione, ma un passaggio di ri-creazione attraverso un momento di de-creazione. Le acque tornano a mescolarsi come all’inizio, non per annientare il mondo, ma per riaprire all’umanità la possibilità di comprendere più a fondo il disegno di vita voluto da Dio. È un cambiamento provvisorio delle regole del gioco, per salvare il gioco stesso che Dio aveva inaugurato con fiducia.

Così fu cancellato ogni essere che era sulla terra: dagli uomini agli animali domestici, ai rettili e agli uccelli del cielo; essi furono cancellati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca. Le acque furono travolgenti sopra la terra centocinquanta giorni (Genesi 7,23-24).

Tutto viene travolto e cancellato. Accade nella natura, quando un cataclisma improvviso cambia per sempre il volto di un territorio. Succede anche nella nostra vita, quando un imprevisto, una malattia o un lutto stravolgono senza preavviso la forma dei nostri giorni. E se i momenti di forte destabilizzazione, quando tutti gli equilibri vengono scossi e sembrano crollare, fossero in realtà parte di un processo di trasformazione più grande? Dopo l’inondazione, il testo biblico non descrive un semplice ritorno alla normalità: il lento abbassarsi delle acque avviene in risposta a un gesto preciso e decisivo, che diventa il vero centro del racconto.

Dio si ricordò di Noè, di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui

Finalmente i presagi si illuminano e i sospetti si dissolvono: Dio non si è dimenticato dell’umanità, anzi ha voluto ricordarsi che in essa rimane una capacità di corrispondere alla sua voce. Così, dopo aver sepolto ogni cosa sotto le acque, il Signore ora si mette ad asciugare tutto, perché la vita possa ricominciare presto. Non era un progetto di morte, dunque, il diluvio, ma un paradossale rinnovamento di vita. Quando le acque, finalmente, si calmano e si abbassano, Noè riceve l’ordine di uscire dall’arca insieme alla moglie, ai figli, alle mogli dei figli e a tutti gli animali.

Dopo aver tentato di “cancellare” il mondo – senza peraltro riuscirvi – il Signore sembra essersi chiarito le idee su quanto può aspettarsi dall’uomo e su quanto egli stesso è disposto a mettere sul piatto dell’alleanza con lui.

Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra (Genesi 9,12-16).

Il segno che Dio pone tra il cielo e la terra, normalmente inteso come un «arcobaleno», in realtà è lo strumento di guerra utilizzato da un arciere (in ebraico qeshet). Se questa etimologia toglie un po’ di poesia a quel gioco di colori che ci incanta dopo un temporale, aggiunge però sfumature che ci aiutano a capire meglio cosa è accaduto durante il diluvio. Non tanto sulla terra, ma in fondo al cuore di Dio.

Al termine del tentativo di inondare il mondo intero, il Signore depone davanti all’uomo le armi e pronuncia una solenne dichiarazione di non violenza. Può sembrare una metafora ardita, quasi inappropriata per parlare di Dio e del modo in cui la sua grazia si manifesta. E, tuttavia, l’umanità, dopo millenni di storia e di evoluzione, è ancora ben lontana dal saperla imitare. Quanto siamo distanti dal saper deporre i fucili e appendere al muro gli archi di guerra? La terra continua a essere lacerata da conflitti atroci e interminabili, che non concedono tregua a tante persone deboli e indifese.

Vale allora la pena domandarsi: che cosa ci rassicura davvero? Un messaggio d’amore – bello, sì, ma a volte un po’ astratto – oppure la decisione concreta di chi, pur avendo il potere di ferirci, sceglie liberamente di non farlo? Se lasciamo da parte un’idea ingenua e romantica delle relazioni, dobbiamo riconoscere che l’immagine di un arco appeso alle nuvole può essere una manifestazione altissima d’amore, forse la più certa e rassicurante.

Un guerriero che ha placato la sua collera rappresenta meglio di qualsiasi altra idealizzazione il tipo di alleato che vorremmo avere accanto: qualcuno che, pur potendo infierire contro di noi, sceglie di non farlo, perché ha compreso che, solo accogliendoci così come siamo, la nostra alleanza potrà essere duratura, vera e libera.

Dedicarsi alla salvezza

Il diluvio è finito e si sono cancellate molte cose sulla terra, soprattutto una certa immagine di Dio. Pur di continuare a credere in noi, il Signore si è adirato, ha fatto scendere le acque dal suo cielo, ha sommerso tutta la terra, non prima di aver «salvato» un resto da cui poter riprendere il filo di una generazione umana più autentica e più feconda. Poi ha posato le armi, ha dichiarato la sua pace ed è rimasto a mani nude davanti alla sua opera, per riprendersi il diritto e la gioia di continuare a plasmarla. Le uniche armi che restano nella storia del mondo saranno solo quelle che l’uomo sceglierà di costruire e utilizzare, ogni volta che si sentirà perseguitato, discriminato e oppresso. Dio le armi le ha posate e lo ha fatto per sempre, accettando l’azzardo di una creazione sicuramente più libera, ma anche più esposta al rischio del male e della violenza.

In questo grande evento del diluvio, i primi cristiani hanno visto una prefigurazione del mistero di Cristo e della sua croce, il definitivo segno di alleanza posto tra il cielo e la terra, contemplando il quale ogni essere umano può ritrovare il valore immenso della sua esistenza davanti a Dio.  

Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo (1Pietro 3,21).

Le acque del diluvio sono finite, per sempre. Per noi cristiani l’acqua è ormai il simbolo della straordinaria possibilità di accogliere in noi la vita di Cristo, nel cui nome possiamo essere nuove creature mediante il battesimo. Questa nuova esistenza ha però bisogno di essere accolta liberamente e vissuta con responsabilità, vigilando sulla nostra adesione personale al Vangelo. Per questo Gesù, nel suo discorso escatologico, dopo aver citato i giorni di Noè conclude con un’ultima raccomandazione.

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo (Matteo 24,42-44).

Il tema dell’ignoranza circa il giorno e l’ora del ritorno glorioso del Figlio dell’uomo ha sempre suscitato interrogativi nella storia della Chiesa. Le prime comunità vivevano nella fervida attesa di un ritorno imminente del Signore. Col passare dei secoli, la Chiesa ha compreso che questo orizzonte andava dilatato, collocato in un tempo più ampio e ancora oggi indecifrabile. Dopo duemila anni, ci troviamo quasi nella situazione opposta: l’attesa si è così attenuata da lasciare spazio, talvolta, a una sottile rassegnazione circa la sua effettiva realizzazione. Se agli inizi abbondavano entusiasmo e inquietudine, oggi prevale spesso una vigilanza stanca, tentata dallo scoraggiamento.

Un antico e anonimo padre della Chiesa, commentando il vangelo di Matteo, ha provato a riflettere sul perché siamo chiamati a vivere senza poter sapere con precisione né il giorno della nostra morte, né quello del ritorno di Cristo.

Perché la data della morte ci è celata? Chiaramente questo ci viene fatto, affinché facciamo sempre del bene, visto che possiamo aspettarci di morire in ogni momento. La data del secondo avvento di Cristo è sottratta al mondo per lo stesso motivo, cioè affinché ogni generazione viva nell’attesa del ritorno di Cristo [1].

In maniera simile si esprime anche san Giovanni Crisostomo:

Se la gente sapesse quando morirà, si darebbe da fare senz’altro per quel momento. [..] Perché dunque non si diano da fare soltanto per quel momento, non dice qual è, né quello comune, né quello di ciascuno, perché vuole che lo attendano sempre, perché sempre si impegnino [2].

La tradizione patristica è concorde: il tempo in cui viviamo va usato con sapienza, per compiere il bene in modo stabile – non occasionale – e per attendere senza esitazioni la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, restando fedeli alla grazia del suo Vangelo. La vigilanza a cui ci esorta il tempo di Avvento, dunque, è anzitutto su noi stessi, come raccomanda l’apostolo Paolo agli anziani di Efeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (Atti degli Apostoli 20,28).

Chi, nel corpo di Cristo, svolge un ministero per gli altri non dovrebbe mai dimenticare l’invito che l’apostolo rivolge a tutti i “santi” di Filippi, insieme ai vescovi e ai diaconi: «Dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore» (Fil 2,12). In un tempo complesso e carico di urgenze come il nostro, dobbiamo vigilare su due grandi tentazioni che possono toccare tanto la Chiesa nella persona dei suoi ministri, quanto ogni battezzato: dimenticare il bisogno di essere salvati e pensare di recuperare consensi curando la forma esteriore della nostra immagine e riducendo la radicalità del Vangelo.

Come nei giorni di Noè, la prima forma di salvezza a cui dobbiamo dedicarci non consiste nel compiere o organizzare qualche attività pastorale, ma nel tornare alla gioia – e anche alla fatica – della sequela, senza addomesticare la parola di Cristo. Solo questa forma di vigilanza ci costituisce sentinelle che, nella notte del mondo, mantengono umilmente la fiducia che presto possa sorgere la Stella del Mattino, quella stella che non conosce tramonto, la cui luce è in grado di illuminare ogni uomo. Un santo monaco del secolo scorso, Thomas Merton, ha espresso in poche parole questo stato di vigilanza a cui l’Avvento ci conduce con forza e dolcezza.

Esuli, in fondo alla solitudine,
vivendo come quelli che ascoltano,
sentinelle sulle frontiere del mondo,
aspettiamo il ritorno di Cristo.

[1] Anonimo, Opera incompleta su Matteo, omelia 51.
[2] Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 77,2-3.

Preghiamo

O Dio, che per radunare tutti i popoli nel tuo regno hai mandato il tuo Figlio nella nostra carne, donaci uno spirito vigilante, perché, camminando sulle tue vie di pace, possiamo andare incontro al Signore quando verrà nella gloria. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.

p. Roberto Pasolini, OFM Cap.
Predicatore della Casa Pontificia