di Marta Sordi
VP Plus+22.11.2025
Per gentile concessione di
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Che i Vangeli appartengano al genere letterario della storia (o della biografia storica) non dovrebbe, a mio avviso, essere messo in dubbio da nessuno: lo rivela, fra l’altro, il prologo di Luca, l’unico greco degli evangelisti, che, dedicando il suo scritto ad un cavaliere romano, l’«egregio» (kratistos) Teofilo, imposta il suo discorso sui canoni della storiografia scientifica greca, usandone anche la terminologia: «Poiché molti hanno preso l’iniziativa di raccontare gli avvenimenti (pragmata) che si sono compiuti fra noi, come li hanno tramandati quelli che sono stati fin dall’inizio testimoni oculari (autoptai) e servi della Parola, ho deciso anch’io, dopo aver seguito tutto attentamente con senso critico (akribōs), di scrivertene ordinatamente (kathexēs), perché tu conosca la sicurezza (asphaleia) dei discorsi che ti sono stati insegnati a viva voce (katechethes)» (Lc 1,1-4).

La terminologia che Luca usa qui è quella tipica della storiografia greca: la dipendenza da testimoni oculari, l’autopsia, fondamentale da Erodoto in poi; l’esercizio della critica (akribeia), su cui insiste Tucidide e che porta alla certezza storica dell’insegnamento orale (tale è il senso di kathecheo); la «sicurezza» che corrisponde al saphès tōn ghenomenōn di Tucidide I, 22.

La critica che Luca rivolge implicitamente ai suoi predecessori, di non avere scritto «in ordine» (kathexés), sembra essere stata intesa, da Papia vescovo di Gerapoli (metà circa del II secolo d.C.), come rivolta soprattutto a Marco: in un frammento riportato da Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica (III, 39,5), Papia difende infatti Marco dall’accusa di avere scritto esattamente (akribōs), ma non con ordine (ou mentoi taxei) e aggiunge che egli non sbagliò, preoccupandosi solo di non tralasciare nulla e di non falsificare. Anche qui siamo nell’ambito della storiografia classica: Cicerone (De orat. 11,51; De leg. 1,6) dichiara che non si possono escludere dal novero degli storici quelli che si rivelano exiles nella forma e che si limitano a «non essere menzogneri».

La terminologia usata dalla storiografia greca, e ripresa dai Latini, rivela lo stretto legame che la ricerca storica ha con l’indagine processuale: histor è in Omero l’arbitro scelto fra due contendenti per ascoltare e valutare confrontandole le versioni dell’uno e dell’altro (Hom. II. 18,501; 23,486), martys, martyrion, martyria, e i verbi corrispondenti, indicano il testimone, la prova, la testimonianza e sono largamente usati dagli oratori attici e dagli storici: perché la storia è una narrazione fondata su testimonianze e prove, una narrazione che deve dar ragione di ciò che narra, a differenza della favola, dell’epica, del romanzo, che sono caratterizzati, come la storia, dalla narrazione, ma narrano ciò che non è mai avvenuto o che può avvenire. La storia, invece, come già sapevano Aristotele e Polibio, narra ciò che è avvenuto e di cui si possono fornire le prove, il «probabile», non il possibile né il verosimile. Ciò che appare inverosimile, il paradoxon, può essere giudicato storico, qualora se ne possano fornire le prove.

Questo spiega il ricorso frequente degli storici al concetto di martyrion come prova: Erodoto (II,22,20) porta come «prova», martyrion, del suo rifiuto ad ammettere che il Nilo nasca dallo scioglimento delle nevi, i venti caldi che soffiano dalle zone da cui il Nilo deriva; per Tucidide (1,8,1) la prova (martyrion) che gli isolani dell’Egeo erano pirati Cari e Fenici è fornita dalle armi trovate nelle tombe al tempo della purificazione dell’isola di Delo; Senofonte (Hell. 1,7,4), dice che Teramene portò una lettera come prova (martyrion) della sua versione al tempo del processo contro gli strateghi delle Arginuse.

Collegati con la necessità della testimonianza per l’accertamento di un fatto, richiesto nell’originario uso giudiziario, i termini martys, martyrion, martyria, acquistano così, anche nel linguaggio storiografico, un preciso significato tecnico, collegato con l’esigenza specifica della storia di accertare con prove e testimonianze credibili gli avvenimenti che narra.

Il significato fondamentale di testimone, testimonianza, prova di fatti storicamente accertati dei termini martys, martyria, martyrion, e dei verbi corrispondenti, si ritrova nel largo uso che di tali termini fa il Nuovo Testamento (34 volte martys, di cui 4 nei Sinottici; 20 volte martyrion, di cui 9 nei Sinottici; 30 volte martyria nel Vangelo di Giovanni, oltre ai verbi) cui corrispondono, nella traduzione latina testis, testimonium, testificor (per il verbo).

È interessante osservare che, nell’esortazione finale di Gesù, agli Apostoli, là dove Matteo (28,19) dice: «Ammaestrate tutti i popoli, insegnando loro…» e Marco (16,15): «Annunziate (keryxate) il Vangelo a tutta la creazione», Luca (24,48) dice: «Siate testimoni (martyres) di questo». Lo stesso Luca (Atti, 1,8) ripete: «Mi sarete testimoni (martyres)», e in I,22 spiega l’elezione di Mattia «perché sia testimone (martyra) della risurrezione» e in V,32, fa dire a Pietro davanti al Sinedrio: «E noi siamo testimoni (martyres) di questi discorsi». I concetti espressi da Matteo e da Marco con «insegnare», «annunciare», sono espressi dal greco Luca con la terminologia storica del «testimoniare». Anche Giovanni 21,24 alla fine del suo Vangelo, dichiara: «Questi è il discepolo che testimonia (bo martyron) queste cose e che le ha scritte».

Il carattere di annuncio (kerygma) del messaggio evangelico non esclude dunque l’aderenza alla realtà storica degli avvenimenti (pragmata), oggetto dell’insegnamento e dell’annuncio, che assume fin dall’inizio la forma della narrazione propria della storia, una narrazione nella quale è fondamentale, come nel prologo di Luca e nella difesa che Papia fa di Marco, l’esigenza della attendibilità.

Se in Luca l’uso di martys serve ad affermare la storicità del messaggio evangelico, nell’Apocalisse di Giovanni (1,5 e 3,14) Cristo stesso è «il testimone (martys) fedele» e in Giovanni 18,37 viene ribadito il significato anche giudiziario del verbo martyreo nell’affermazione di Gesù davanti al tribunale di Pilato: «Affinché io testimoni (martyreso) la verità».

Si fa strada l’idea di una testimonianza prestata non solo a parole, ma con la vita: essa è già presente in Apocalisse 2,13, in cui Antipa, ucciso per la fede a Pergamo, è detto «il mio testimone (martys) fedele». In questo caso egli non è più testimone di fatti o della verità, ma di una Persona, Cristo.

L’evoluzione definitiva del concetto avverrà più tardi, dopo la metà del II secolo, quando la Chiesa sarà costretta a chiarire, contro le deviazioni fondamentaliste dell’eresia montanista, il concetto ecclesiale di martys, per il quale il latino adotta, già con Tertulliano, il prestito martyr, riservando tale termine solo a coloro che testimoniano la fede col sacrificio della vita.

Il racconto del martirio di Policarpo, vescovo di Smirne, a noi conservato da Eusebio (H.E. IV, 15) nella lettera inviata dalla Chiesa smirniota ad un’altra Chiesa dell’Asia Minore, oltre che da un testo parzialmente indipendente, è per convinzione unanime dei moderni il primo testo nel quale il significato tecnico ecclesiale del termine appare ormai fissato: esso intende definire il «vero martire secondo il Vangelo», cogliendo nel comportamento di Policarpo l’imitazione del comportamento di Cristo e condannando invece l’iniziativa di un certo Quinto Frigio (la Frigia era la terra di origine del Montanismo, l’eresia dei Catafrigi) che, dopo essersi temerariamente presentato al tribunale, aveva avuto paura delle fiere ed aveva rinnegato la fede.

«Per questo dunque fratelli» dichiarano gli autori della lettera «non lodiamo quelli che si presentano di loro iniziativa ai tribunali, poiché non così ci ha insegnato il Vangelo».

Per questo Policarpo deve essere additato all’imitazione dei fedeli, per questo la Grande Chiesa comincia ora a venerare apertamente i suoi martiri e a ricordarne i nomi, perché essi sono, come Policarpo, «discepoli e imitatori di Cristo».

Marta Sordi

Marta Sordi (Livorno, 18 novembre 1925 – Milano, 5 aprile 2009) è stata una storica italiana. Si formò all’Università degli Studi di Milano, dove conseguì la laurea in Lettere sotto la guida di Alfredo Passerini. Marta Sordi fu poi ricercatrice presso l’Istituto italiano per la storia antica di Roma, allieva di Silvio Accame. Dal 1962 iniziò a insegnare all’Università di Messina; nel 1967 passò all’Università di Bologna e infine, dal 1969 fu all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in qualità di docente ordinario di Storia greca e Storia romana fino al 2001 e diresse l’istituto di Storia antica della facoltà di Lettere e filosofia. Fece parte dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere e dell’Istituto di Studi Etruschi.