In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?
(Letture: Isaia 11,1-10; Salmo 71; Romani 15,4-9; Matteo 3,1-12)

Giovanni il Battista predicava nel deserto della Giudea dicendo: convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino (Mt 3,2).
Gesù cominciò a predicare lo stesso annuncio: convertitevi perché il regno dei cieli è vicino (Mt 4,17). Tutti i profeti hanno gli occhi fissi nel sogno, nel regno dei cieli che è un mondo nuovo intessuto di rapporti buoni e felici. Ne percepiscono il respiro vicino: è possibile, è ormai iniziato. Su quel sogno ci chiedono di osare la vita, ed è la conversione.
Si tratta di tre annunci in uno, e tra tutte la parola più calda di speranza è l’aggettivo «vicino». Dio è vicino, è qui, prima buona notizia: il grande Pellegrino ha camminato, ha consumato distanze, è vicinissimo a te. E se anche tu ti trovassi ai piedi di un muro o sull’orlo del baratro, allora ricorda: o quanti cercate, siate sereni / egli per noi non verrà mai meno / e Lui stesso varcherà l’abisso (David Maria Turoldo).
Dio è accanto, a fianco, si stringe a tutto ciò che vive, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente (parola di Isaia), uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, per una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani. Il regno dei cieli e la terra come Dio la sogna. Non si è ancora realizzata? Non importa, il sogno di Dio è più vero della realtà, è il nostro futuro che ci porta, la forza che fa partire.
Gesù è l’incarnazione di un Dio che si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore, un respiro: infatti vi battezzerà nello Spirito Santo, vi immergerà dentro il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra.
Convertitevi, ossia osate la vita, mettetela in cammino, e non per eseguire un comando, ma per una bellezza; non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. Ciò che converte il freddo in calore non è un ordine dall’alto, ma la vicinanza del fuoco; ciò che toglie le ombre dal cuore non è un obbligo o un divieto, ma una lampada che si accende, un raggio, una stella, uno sguardo. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui.
Conversione, non comando ma opportunità: cambiate lo sguardo con cui vedete gli uomini e le cose, cambiate strada, sopra i miei sentieri il cielo è più vicino e più azzurro, il sole più caldo, il suolo più fertile, e ci sono cento fratelli, e alberi fecondi, e miele.
Conversione significa anche abbandonare tutto ciò che fa male all’uomo, scegliere sempre l’umano contro il disumano. Come fa Gesù: per lui l’unico peccato è il disamore, non la trasgressione di una o molte regole, ma il trasgredire un sogno, il sogno grande di Dio per noi.

Prima della venuta del Signore, del giorno del Signore, secondo alcuni esperti delle sante Scritture sarebbe venuto il profeta Elia per preparare il popolo all’incontro con Dio, Salvatore e Giudice. Questa speranza è confermata da Gesù, che però invita a discernere tale presenza profetica in Giovanni il Battezzatore, venuto tra quelli che non l’hanno riconosciuto ma hanno fatto di lui ciò che hanno voluto (cf. Mt 17,10-13). Proprio perché nell’Avvento si attende la venuta del giorno del Signore, e dunque del Figlio dell’uomo, la chiesa ci fa sostare sul ministero di Giovanni: ministero di preparazione della strada per la manifestazione di Gesù a Israele. La sua predicazione, infatti, è più che mai attuale in questo tempo “ultimo”, in cui il Signore viene.

“Giovanni sopraggiunge” (paraghínetai) come predicatore nel deserto della Giudea, a sud-est di Gerusalemme, nelle terre attorno al Giordano, affluente del mar Morto. Sembra un profeta dell’antica alleanza, e lo è dopo almeno cinque secoli di silenzio della profezia nel popolo di Dio. Ha i tratti del profeta Elia: un vestito di peli di cammello (cf. 2Re 1,8; Zc 13,4), una cintura di cuoio, un nutrimento ascetico fornitogli dai frutti del deserto. Come Elia, chiama il popolo alla conversione, a ritornare al Signore prima del suo giorno: “Convertitevi, perché il regno dei cieli si è avvicinato!”. A questo annuncio nuovo le folle accorrono da Gerusalemme e dalla Giudea, accogliendo l’invito del profeta: confessano i loro peccati, si fanno responsabili davanti a Dio del male operato, si pentono e con un’azione decisa e vissuta, l’essere immersi da Giovanni nelle acque del Giordano, testimoniano la loro purificazione e il loro mutamento di vita. È come un nuovo inizio, anche perché Giovanni appare come il profeta designato da Isaia quale annunciatore della definitiva liberazione, del nuovo esodo, della creazione di cieli nuovi e terra nuova (cf. Is 40,1-11).

Giovanni dunque è ascoltato dalle folle, ma sa anche discernere al loro interno quanti ricorrono a lui solo per soddisfare la propria religiosità: sono persone che in realtà non si convertono, non cambiano vita e modo di pensare, ma sono sempre disponibili a vivere riti e a compiere ciò che la religione richiede. Matteo identifica queste persone in farisei e sadducei (attenzione a non tipizzare, soprattutto il primo gruppo!), cioè negli uomini religiosi esperti della dottrina e zelanti nel loro comportamento secondo la Legge. Ecco allora l’invettiva del Battista: “Razza di vipere (cf. Sal 139,4)! Chi è il vostro vero suggeritore? È colui che vi ispira di sfuggire alla passione per la giustizia di Dio, fingendo e aumentando le azioni rituali?”. Sono credenti che non ascoltano le parole di Giovanni, non riconoscono in lui le parole del Signore, eppure vengono al suo battesimo… Per loro il rito va benissimo, mentre fare la volontà di Dio e vivere ciò che il rito dovrebbe significare, no! Hanno dentro di sé certezze: sono figli di Abramo, hanno il senso dell’appartenenza al popolo eletto e scelto da Dio, sanno invocare Dio come il Dio con loro. Giovanni però con la sua predicazione manda in frantumi queste certezze e garanzie: “Non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’, perché Dio può creare figli di Abramo dalle pietre del deserto”. Ormai il giorno del Signore è vicino e il Giudice si sta manifestando come una scura che abbatte alla radice l’albero che non dà frutti buoni, destinandolo al fuoco.

Le immagini della predicazione del Battista sono dure, destano timore, ma in realtà sono quelle tipiche di tutti i profeti, che hanno annunciato il giorno del Signore a quanti contraddicevano la sua volontà vivendo invece formalmente (cioè da ipocriti!) l’alleanza con Dio. Giovanni mette in luce quella rottura che sarà portata a pienezza da Gesù: rottura con i legami di sangue, con l’appartenenza etnica. Figli di Abramo lo si è non per appartenenza carnale, ma perché si vive l’obbedienza e l’adesione a Dio da lui vissute, dirà Paolo (cf. Rm 4,1-3; Gal 3,6).

Giovanni però non vuole che l’attenzione si concentri su di sé e tanto meno vuole apparire lui come il Giudice: costui è veniente, anzi sta dietro (opíso) a lui ed è più forte di lui. Il Battista non si sente nemmeno degno di essere suo servo, portandogli i sandali. Colui che viene è il Giudice che immerge non in acqua, ma nel fuoco escatologico dello Spirito di Dio: non più un rito, ma un evento ultimo e definitivo. Giovanni fa dunque l’ultima chiamata alla conversione, prima della venuta del regno dei cieli ormai imminente; nello stesso tempo, manifesta la sua fede in Gesù, già presente tra i suoi discepoli, che presto sarà manifestato a Israele come “il Veniente” (ho erchómenos: Mt 11,3; 21,9; 23,39). Solo a lui spetta il giudizio definitivo, descritto dal suo precursore con un’immagine apocalittica: “Tiene in mano il ventilabro, per separare la pula dal buon grano. Al passaggio del vento la pula sarà portata via e poi bruciata, mentre il grano sarà raccolto nei granai”.

Sì, di fronte a questi annunci e a queste immagini è doveroso provare sentimenti di timore. Il giudizio è un evento serio ma, quando avverrà, sarà nient’altro che la manifestazione di ciò che ciascuno di noi ha operato ogni giorno, scegliendo il bene o il male. Siamo noi stessi a darci il giudizio, ora e qui: il giudizio non è una spada di Damocle che pende sulla nostra testa, ma un evento che decidiamo oggi. Ecco come la chiesa ci attualizza la predicazione di Giovanni il Battista sulla venuta gloriosa del Figlio dell’uomo.


Isaia 11,1-20

Quando il popolo di Israele è invaso, minacciato dalle potenze di questo mondo ed è diventato come un albero abbattuto, ridotto a un tronco (cf. Is 6,13), ecco l’azione di Dio: da quel tronco fa spuntare un germoglio che si nutrirà della linfa dell’albero abbattuto. Giunge dunque un discendente di Iesse, un nuovo David ricolmo dei doni dello Spirito di Dio: il suo respiro sarà il timore del Signore, la piena obbedienza a lui e alla sua volontà. Per questo sarà un giudice che non guarda alle apparenze, ma non sarà neppure bendato, perché vedrà nel cuore degli umani e inaugurerà un tempo nel quale giungerà la pace cosmica e la conoscenza del Signore riempirà la terra. Oggi, come allora, attendiamo questo compimento, sapendo che il discendente di Iesse ha un volto: quello di Gesù di Nazaret, il figlio di David, il Messia del Signore.

Lettera ai Romani 15,4-9

L’Apostolo ricorda ai cristiani che, nelle difficoltà della vita comunitaria, nelle tensioni tra forti e deboli, tra conservatori e innovatori, nei conflitti che possono sorgere anche tra discepoli di Gesù, occorre che ognuno accolga l’altro come fratello o sorella, cercando di assumere i sentimenti e i pensieri di Cristo. Ognuno è stato accolto, carico dei propri debiti, da Cristo, che lo ha perdonato e gli ha usato misericordia, e lo stesso deve fare nei confronti dell’altro, nella speranza della venuta del Signore. La parola di Dio contenuta nelle Scritture sempre ci illumina, ci sostiene, ci consola, ci indica il compimento della promessa del Signore, il suo giorno.

Il nostro cammino incontro al Signore che viene prosegue, e dopo esserci lasciati accompagnare nella scorsa domenica dentro la grande chiamata alla vigilanza, per non essere fra coloro che “non si accorgono di nulla” (Mt 24,39), la liturgia della Parola di questa seconda domenica ci invita a fare un passo nuovo incontro al Veniente: preparare la via.

Ad illuminare il nostro cammino in questa domenica e nella prossima sarà l’austera figura del Battista, il suo annuncio, il suo grido, il suo sconvolgimento e la sua domanda di fronte ad un Messia “diverso” da quello a lungo atteso: “In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: convertitevi perchè il Regno dei cieli è vicino”.

E’ bella questa descrizione di un uomo che si ostina ad annunciare il Regno nel deserto, si ostina ad annunciare la vita nel luogo che paradossalmente ne è privo. Il Battista racconta di sé. Il vangelo di Luca al capitolo 1,5-20 ci narra che Giovanni nella sua stessa persona è l’annuncio del Regno che viene nel deserto sterile del grembo di Elisabetta. Egli è il figlio del deserto, è il frutto di un grembo sterile; e si fa voce nel deserto perché è la testimonianza viva che, per un dono atteso, ma non meritato, il deserto può fiorire.

E che cosa genera questo Regno che viene? Conversione. Gli Atti degli apostoli ci raccontano che alla predicazione di Pietro che annuncia la morte per amore del Signore, tutti coloro che lo ascoltavano “all’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: che cosa dobbiamo fare, fratelli? Pietro rispose: convertitevi …” (At 2,37-38). Così ancora Gesù stesso nel vangelo di Marco inizia la sua predicazione annunciando: “il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,14-15).

L’evangelo continua con la descrizione di Giovanni prima in ciò che annuncia e poi nella sua persona: “Egli infatti è colui del quale aveva parlato i profeta Isaia quando disse: voce di uno che grida nel deserto preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico.”

Giovanni dunque è quella “voce” della quale aveva parlato Isaia, una voce che chiede di preparare la via, di colmare le valli, di abbassare il monti (cf. Is 40), di spianare la strada (cf. Is 35,8), di trasformare i monti in strade (cf. Is 49,11). E’ la voce che riapre il cammino lì dove sembrava interrotto. E questa voce non è una voce sommessa, è una voce che grida, che annuncia con tutta la forza di cui è capace che camminare è possibile, sempre e comunque, perché è il Signore stesso a farsi via per noi, come dice Gesù: “io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Non ci viene chiesto di percorrere la strada, ma solo di prepararla perché Lui possa percorrerla.

In altre parole, la conversione che ci viene chiesta in questa domenica di avvento è quella di permettere al Signore di raggiungerci, nel deserto, lì dove siamo. Preparargli la via attenderlo e permettergli di venire a noi, magari togliendo di mezzo tutto quello che non ci permette di riconoscerlo e di accoglierlo. Lui viene a noi perché noi possiamo tornare a Lui.

Ed è bello vedere che sia la descrizione del Battista, sia la sua predicazione ci annunciano che l’Emmanuele, Colui che viene, il Dio con noi, è “oltre” ogni attesa: “E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle intorno ai fianchi … Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo Battesimo, disse loro: razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?”.

Se accostiamo queste parole alla profezia di Isaia presente nella prima lettura notiamo un linguaggio completamente diverso. Isaia ci parla di un germoglio che nascerà dalla radice di Iesse, di un virgulto che permetterà al lupo di dimorare con l’agnello, al leopardo di sdraiarsi accanto al capretto, al lattante di giocare sulla buca della vipera. Un germoglio, un principio, qualcosa di estremamente fragile, debole, in balia di tutto e di tutti. Ascolteremo nella notte santa: “Oggi nella città di Davide vi è nato un salvatore, che è il Messia Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia” (Lc 2 11-12). Dunque alla predicazione di fuoco del Battista che chiede frutti di conversione, che annuncia una scure alla radice dell’albero per recidere ciò che non porta frutto, risponde un “oltre”, annunciato da Isaia, capace di tenere insieme i contrari, di continuare ad investire sull’albero che sembra non portare frutto: “Ecco sono tre anni che vengo a cercare frutto su questo fico ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: padrone, lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se non lo taglierai”. (Lc 13,6-9).

Di fronte a questo Messia, il Battista stesso dice: “ora la mia gioia è compiuta: egli deve crescere, io invece diminuire” (Gv 3,30). Ed è questa la strada da preparare, quella di chi lascia al Signore di venire nella forma del seme, del germoglio, del bambino, nella forma della nostra umanità. A questo “modo” del Veniente anche il Battista dovrà convertirsi, perché la sua gioia sia piena. E si tratta di convertirsi ad un altro modo di vivere, quello che scommette sull’Amore che è capace di far nascere vita dal deserto. Preparare la via è credere, è dare fiducia alla logica del germoglio, è affidarsi non alla giustizia, per la quale non abbiamo bisogno di Lui, ma all’ “oltre di Dio”, all’ “oltre che è Dio”.

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Ogni vero inizio richiede un cambiamento. Iniziare un cammino, un viaggio, una relazione, vuol dire scomodarsi, tagliare, rischiare. Forse è per questo che i nostri inizi sono spesso finzioni. Sono inizi immaginari. Il viaggio che desideriamo intraprendere rimane una fantasia o, al più, una buona intenzione.

Iniziare vuol dire cominciare a cambiare. E la concretezza dei segni ci aiuta a riconoscere questo cambiamento in noi. Ignazio di Loyola, per esempio, comincia la sua esperienza di conversione cambiando il suo vestito. Da cavaliere si fa pellegrino. In una singolare veglia d’armi, nel santuario di Monserrat, Ignazio depone le sue vesti di uomo di corte scambiandole con quelle di un mendicante. L’abito dice chi sono. Ignazio non vuole più restare chiuso nella torre della sua fortezza interiore, ma desidera partire da se stesso per essere compagno di qualcun altro.

Anche la prima parola di Gesù nel Vangelo è un invito al cambiamento: metanoeite ovvero cambiate modo di pensare. Abbiamo tradotto in genere questa parola con convertitevi e abbiamo dato a essa un’accezione morale: eppure Gesù intende dire che i cambiamenti morali sono vani e inefficaci se non presuppongono un cambiamento nel modo di pensare. Rischiamo di essere ridicoli: facciamo finta di essere mendicanti, ma continuiamo a indossare l’abito del cavaliere.

Cambiate modo di pensare perché Dio (il Regno dei cieli) è vicino: finora hai pensato di doverti sforzare, migliorare, fortificare la volontà per raggiungere la perfezione di Dio. Cambia questo modo di pensare perché in verità è Dio che ti viene incontro. Abbi l’umiltà di lasciarti raggiungere, abbi la disponibilità di fargli spazio, abbi l’onestà di riconoscere che è lui che costruisce una casa per te e non tu per lui.

Giovanni Battista è il primo a vivere quel cambiamento che serve per iniziare: prende le distanze.

Abbandona i luoghi del potere, dell’istituzione e del sacro. Figlio del sacerdote Zaccaria, Giovanni abbandona le vesti sacerdotali della sua stirpe. Giovanni ha intuito che occorre ripartire in modo nuovo.

Come in un gioco dell’oca, Giovanni si riposiziona nel punto di partenza. Torna nel deserto, vicino al Giordano. Il deserto infatti è il luogo in cui è iniziata la relazione di Dio con il suo popolo: è il luogo dell’intimità, del dono della Legge, della paura e della scoperta. Nel suo cammino verso la terra promessa, il popolo si fermò proprio davanti al Giordano. Quello è il punto in cui ci fu un nuovo inizio: Mosè salutò il popolo per consegnarlo a Giosuè.

Per ripartire in una relazione, in una vocazione, in un percorso di vita, occorre tornare all’inizio, occorre rifare l’origine in modo nuovo.

Ricominciare, soprattutto quando le relazioni si spezzano, non è mai un automatismo. A volte per ricominciare occorre avere il coraggio di ascoltare la parola dura che ci rimanda nella casella numero 1.

La parola di Giovanni è una parola dura perché vuole scuotere dall’illusione di voler ricominciare senza un vero cambiamento. È la parola dura che Giovanni rivolge ai Farisei e ai Sadducei, ovvero a coloro che sono identificati come l’insieme di coloro che si oppongono alla novità di Gesù.

Farisei e Sadducei siamo noi quando ci opponiamo al cambiamento che Cristo viene a suggerire alla nostra vita. E spesso è la rigidità che ci impedisce di cambiare, l’attaccamento ai rituali, la volontà di preservare la comodità o i privilegi. Si è fatto sempre così! È il rigido rituale che spegne sul nascere il desiderio di Cristo di scuoterci dal nostro torpore. Come direbbe Jung, «ciò a cui opponi resistenza persiste. Ciò che accetti può essere cambiato».

Un nuovo inizio è sempre una sfida, un rischio, una sorpresa. Neppure Giovanni sa esattamente dove porta la strada che invita a spianare. Nel seguito del Vangelo lui stesso resterà sorpreso dalla novità di Gesù. Si è aperto al cambiamento, ora occorre lasciarsi sorprendere.

Se davvero vogliamo partire, allora prepariamo la strada. La volontà di cambiare è reale se ci diamo da fare concretamente per preparare il terreno dove mettere i piedi. Spesso il desiderio di riconciliazione in una relazione resta una parola o un pensiero senza nessun segno di concretezza. Se vogliamo veramente fare un viaggio, allora ci diamo da fare per renderlo possibile.

Il battesimo segna un inizio, una volontà di camminare, perciò non può essere ricevuto se non si ha alcuna reale intenzione di cambiare. Come Ignazio e come lo stesso Giovanni Battista, nel battesimo abbandoniamo l’abito dell’uomo vecchio per prendere un vestito nuovo.

La madre non può conservare in sé il bambino e l’albero non può impedire al seme di germogliare. La vita ci chiede continuamente di cambiare. Le stagioni ci ripropongono continuamente un nuovo inizio: la scure torna a essere posta alla radice dell’albero e il grano prima o poi dovrà essere vagliato. La vita ci chiede di generare, di portare frutto, ci chiede di cambiare. Se non siamo disposti a ricominciare, siamo già morti.

Leggersi dentro:

  • Quali sentimenti suscita in te l’idea del cambiamento?
  • Ci sono situazioni della tua vita in questo momento che chiedono un nuovo inizio?

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come-palmaIsraele era un albero che il Signore aveva fatto germogliare e aveva coltivato. Poi erano venuti i nemici che, armati di scure da tagliaboschi, avevano vibrato colpi impietosi e lo avevano ridotto a un tronco spoglio e desolato (Sal 74,5-6).

 È la nostra storia. In balia delle forze del male che ci soggiogano, ci tolgono la luce e il respiro, diventiamo rami secchi, incapaci di dare frutti.

Ma guai perdere la speranza!

“Nei giorni futuri – assicurano i profeti – Israele metterà radici, fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti” (Is 27,6). “Io sarò come rugiada per Israele – dice il Signore – esso fiorirà come un giglio, metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’ulivo e la fragranza del Libano” (Os 14,4-5).

Nulla è impossibile a Colui che ha fatto fiorire perfino il bastone secco di Aronne (Es 17,23).

Secondo le promesse del Signore, dalla radice di Iesse è spuntato un albero vigoroso – Cristo – nel quale tutti verranno innestati. Da lui uscirà la linfa che manterrà rigoglioso e farà produrre frutti abbondanti ad ogni albero piantato nel giardino di Dio.

Non esistono situazioni disperate per chi crede nell’amore del Signore.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Temiamo la scure dei nemici, non quella di Dio che elimina le piante maligne dal nostro giardino”.

Prima lettura (Is 11,1-10)

1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
3 Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
4 ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
5 Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà.
6 Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un fanciullo li guiderà.
7 La vacca e l’orsa pascoleranno insieme;
si sdraieranno insieme i loro piccoli.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
8 Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide;
il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.
9 Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la saggezza del Signore riempirà il paese
come le acque ricoprono il mare.
10 In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli,
le genti la cercheranno con ansia, la sua dimora sarà gloriosa.

Come già accaduto domenica scorsa, Isaia ci introduce in una realtà idilliaca di pace, di fratellanza, di amore universale. Con un’immagine presa dal regno animale, nella seconda parte della lettura (vv. 6-9) descrive un mondo da cui sono stati eliminati le inimicizie, gli odi, le ostilità; un mondo in cui le belve sono divenute mansuete e domestiche: il lupo dimora con l’agnello, la pantera col capretto, il leone e il vitello pascolano insieme e sono tanto docili da lasciarsi condurre da un bambino.

L’armonia non è ricostituita solo a livello animale, ma anche fra Dio e l’uomo e fra gli uomini tra loro: non c’è più alcuno che commetta malvagità, il povero e il debole non subiscono ingiustizie e soprusi, tutti sono mossi da sentimenti di amore “perché la saggezza del Signore riempirà il paese come le acque riempiono il mare” (v. 9).

L’oracolo è ancora più sorprendente se si tiene presente che è stato pronunciato in un momento drammatico della storia d’Israele, quando la dinastia di Davide, nella quale erano state riposte tante speranze, non era più forte e rigogliosa come un cedro del Libano, ma era ridotta a un tronco reciso e senza vita.

Con questo annuncio, il profeta intendeva risvegliare nel suo popolo la fiducia e la speranza. Fedele alle sue promesse, Dio avrebbe dato inizio a un’era di pace, simile a quella che esisteva nel paradiso terrestre prima del peccato.

A questo punto sorge spontanea la domanda: quando si realizzerà questa profezia? La risposta viene data nella prima parte della lettura (vv. l-5).

Con un’immagine presa dal regno vegetale il profeta annuncia il destino della dinastia di Davide. Era germogliata da una radice insignificante, da un ceppo che nessuno riteneva degno di considerazione: da Iesse, un umile pastore di Betlemme.

Benedetto da Dio, quest’albero aveva preso vigore e si era sviluppato, “la sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i più alti cedri” – dice il salmista con un’immagine piena di freschezza (Sal 80,11). Poi era giunta la rovina, il tronco era stato spezzato, bruciato, ridotto a un tizzone fumigante. Era la fine di tutto? Disgustato dalle infedeltà di questa famiglia, Dio aveva forse revocato la promessa fatta per bocca di Natan (2 Sam 7)?

Il profeta risponde: no! Dal ceppo riarso della famiglia di Iesse, spunterà prodigiosamente un nuovo germoglio per mezzo del quale tutte le promesse di Dio si compiranno.

Le doti di questo virgulto della radice di Iesse saranno straordinarie.

Sarà colmo dello spirito del Signore: possiederà in pienezza quella forza divina che aleggiava sulle acque all’aurora del mondo (Gn 1,2), che ha animato gli eroi come Sansone, che ha ispirato i profeti cominciando da Mosè (Nm 11).

Per quattro volte viene richiamato questo “spirito” e il numero quattro indica l’universalità. È come se questo “vento impetuoso”, proveniente dai quattro punti cardinali, confluisse, con tutta la sua energia, su questo “figlio di Iesse”.

Sono sei i doni offerti dallo “spirito del Signore” e il profeta li elenca in tre coppie:

– la sapienza e l’intelligenza: sono le doti che hanno caratterizzato Salomone, il re saggio “come non ci fu alcuno prima di lui né sorgerà in seguito” (1 Re 3,12);

– il consiglio e la fortezza: indicano la capacità di governare con prudenza e il valore militare, qualità di cui era colmo Davide;

– la conoscenza e il timore del Signore: si riferiscono alla docilità e all’obbedienza a Dio, virtù di cui sono stati modelli i patriarchi.

Possedendo in pienezza lo spirito del Signore, l’atteso discendente di Davide sarà un re che porterà a compimento la missione affidatagli da Dio: instaurerà la giustizia, prenderà le difese dei deboli e degli oppressi, con la forza della sua parola ridurrà all’impotenza i violenti e farà scomparire gli empi. La giustizia e la fedeltà lo accompagneranno ovunque, saranno come gli ornamenti del suo vestito.

Chi è questo re di cui parla Isaia? Nessun discendente di Davide ha mai posseduto tutte queste qualità né ha realizzato questi sogni. La promessa si è compiuta in Gesù che è spuntato come un germoglio dalla famiglia di Davide.

Anche dopo la nascita di Cristo – lo constatiamo ogni giorno – i forti continuano a opprimere i deboli, i diritti umani vengono ignorati e calpestati, le discordie, gli odi e le violenze sono ancora presenti. Tuttavia, il germoglio della famiglia di Davide è apparso, sta sviluppandosi, è già divenuto un popolo – la chiesa – incaricata di rendere presente nel mondo la società nuova annunciata da Isaia.

Seconda Lettura (Rm 15,4-9)

4 Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza. 5 E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, 6 perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
7 Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. 8 Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri; 9 le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: “Per questo ti celebrerò tra le nazioni pagane, e canterò inni al tuo nome”.

Paolo era preoccupato delle tensioni che esistevano all’interno della comunità di Roma fra due gruppi di cristiani. Il gruppo meno numeroso era costituito da coloro che l’Apostolo chiama deboli, gente legata alle tradizioni religiose degli antichi. Conducevano una vita austera, si privavano dei piaceri anche leciti, osservavano numerose prescrizioni quali la circoncisione e l’astinenza da cibi impuri. L’altro gruppo, detto dei forti, sosteneva che le osservanze imposte dall’antica legge avevano perso il loro valore; bastava credere in Cristo.

I deboli giudicavano i forti e li consideravano faciloni, superficiali. A loro volta questi disprezzavano i deboli, li trattavano da ottusi mentali, retrogradi e nostalgici.

Paolo – che si colloca fra i forti – raccomanda a tutti la carità e il rispetto reciproco. Come argomento decisivo cita l’esempio di Cristo: Gesù non ha mai avuto in vista il proprio interesse egoistico, ma ha dimenticato se stesso e si è messo totalmente a servizio degli altri.

I suoi discepoli non possono essere diversi da lui; non possono cercare il proprio tornaconto, ma devono pensare solo al bene del fratello, disposti anche a porre dei limiti alla propria libertà, se questo è richiesto dall’amore verso gli altri.

Vangelo (Mt 3,1-12)

Al tempo di Gesù si riteneva che Elia non fosse morto, ma fosse stato rapito in cielo per ricomparire un giorno. Infatti il profeta Malachia aveva predetto: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me… Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,1.23).

Quando, dopo la Pasqua, i primi cristiani si resero conto che “il giorno del Signore” era quello in cui Gesù aveva portato la salvezza, compresero anche chi era l’Elia di cui aveva parlato il profeta: era il Battista, incaricato da Dio di preparare il popolo alla venuta del messia. Si ricordarono anche di ciò che di lui aveva detto il Maestro: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te” (Lc 7,25-27). “La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire” (Mt 11,13-14; 17,13).

Chi era Giovanni? Un personaggio piuttosto enigmatico. Giuseppe Flavio – il famoso storico del tempo – lo presenta così: “Era un uomo buono che esortava gli ebrei a vivere una vita retta, trattandosi con giustizia reciprocamente e sottomettendosi con devozione a Dio, e facendosi battezzare. In verità, Giovanni era dell’idea che nemmeno questo lavacro fosse accettabile come perdono per i peccati, ma era convinto che si risolveva soltanto in una purificazione del corpo, se l’anima non era stata purificata in precedenza grazie ad una condotta retta” (Antichità Giudaiche 18.5.2 §§ 116-119).

Nel vangelo di oggi Matteo lo descrive come un uomo austero (v. 4). Il suo cibo era quello semplice degli abitanti del deserto, il suo vestito era rozzo: la cintura ai fianchi che contraddistingueva Elia (2 Re 1,8) e il mantello di pelo – la divisa dei profeti (Zac 13,4).

Tutta la persona del Battista era denuncia e condanna della società opulenta che – allora come oggi – puntava sull’effimero, sul frivolo, sui falsi valori del lusso e dell’ostentazione.

Il suo messaggio è riassunto dall’evangelista in una semplice frase: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (v. 2).

La speranza in un futuro migliore era uno dei temi centrali del messaggio dei profeti. A differenza degli altri popoli che ponevano la loro età dell’oro nel passato, Israele collocava il “regno di Dio” nel futuro. Attendeva un mondo dove il Signore avrebbe fatto trionfare l’armonia e abbondare la pace, un mondo dove i rapporti interpersonali sarebbero stati improntati all’amore, alla riconciliazione con la natura, con gli uomini, con Dio.

I predicatori apocalittici avevano descritto la storia dell’umanità come un susseguirsi di regni di bestie. “Bestie emerse dal mare” erano stati i grandi imperi di Babilonia, Media, Persia, Grecia (Dn 7). I tempi erano difficili, ma non ci si doveva perdere d’animo: il mondo antico era ormai alla fine e il mondo nuovo stava per fare irruzione.

I dolori presenti non dovevano essere interpretati come segni di morte, ma come sofferenze di un difficile parto: preludevano alla nascita della nuova era.

Essendo queste le attese del popolo, è facile intuire come la predicazione di Giovanni suscitasse enorme entusiasmo. Tutti correvano a farsi battezzare per essere introdotti per primi in questo “regno di Dio”.

Il battesimo con l’acqua non era però sufficiente. Il Giordano non era una piscina da cui si usciva miracolosamente purificati dai peccati. Per disporsi ad entrare nel “regno” era necessario “convertirsi”, cioè invertire il cammino, cambiare rotta, modificare completamente il modo di pensare e di agire. Non bastava correggere qualche comportamento morale, bisognava mettere in atto un nuovo esodo.

“Uscivano verso di lui da Gerusalemme…”. Ecco il popolo d’Israele, ormai installato nella terra promessa, che abbandona la propria condizione di presunta libertà e ritorna al Giordano. Si riteneva libero, ma in realtà continuava ad essere schiavo: delle proprie convinzioni religiose, della propria ostinazione, della falsa immagine di Dio che si era fatta.

“Confessavano i loro peccati”. Prendevano coscienza di vivere ancora in esilio, di essere privi della libertà.

Tutti gli anni, nella seconda domenica di Avvento, la liturgia propone ai cristiani la predicazione del Battista perché, come egli preparò il popolo d’Israele alla venuta del messia, così oggi è in grado di insegnare ad accogliere il Signore che viene.

Oggi come allora, il passo più difficile da compiere è comprendere che è necessario “uscire” dalla “terra” in cui ci si è installati, “uscire” dalle false sicurezze religiose e teologiche che ci si è costruiti e accogliere la novità della parola di Dio.

Non tutti hanno risposto con sollecitudine all’invito del Battista, non tutti sono stati disponibili a operare un cambiamento interiore radicale. I farisei e i sadducei, pur incuriositi dalla predicazione di Giovanni, stentavano a lasciarsi coinvolgere, non si fidavano, preferivano mantenere le loro certezze (vv. 7-10). Pensavano di essere già a posto con Dio per il fatto di essere figli di Abramo. Questa falsa sicurezza sarà denunciata in seguito da un famoso detto rabbinico: “Come la vite si appoggia su legni secchi, così gli israeliti si appoggiano sui meriti dei loro padri”.

Il rimprovero con cui il Battista accoglie farisei e sadducei è severo: “Razza di vipere!”. Li paragona a serpi che iniettano il loro veleno di morte in chi inavvertitamente si accosta a loro. Poi passa all’invettiva, all’annuncio delle catastrofi che stanno per colpirli: corrono il rischio di venire tagliati come un albero che non porta frutto e di essere bruciati come pula. Su di loro incombe l’ira di Dio.

Siamo di fronte a immagini drammatiche che sembrano smentire il sogno di Isaia della prima lettura.

Il tono è minaccioso e non sorprende sulla bocca del Battista; così si esprimevano i predicatori di quel tempo ed è questo il linguaggio che compare spesso anche nella Bibbia. Il precursore lo impiega per mettere in guardia chi rifiuta l’invito alla conversione: si priva dell’incontro di amore con Cristo che viene per introdurlo nella sua gioia e nella sua pace.

Nel contesto di tutto il vangelo le parole del precursore assumono un significato che va oltre quello immediato. È successo anche a Caifa di pronunciare, senza rendersene conto, una profezia.

Quando parlava dell’ira divina, Giovanni non aveva le idee chiare su come si sarebbe manifestata.

L’ira di Dio è un’immagine che ricorre spesso nell’AT e non va intesa come un’esplosione di livore della persona offesa. È espressione dell’amore di Dio: si scaglia contro il male, non contro chi lo compie; non vuole colpire l’uomo, ma sottrarlo al peccato.

La scure, che taglia gli alberi alla radice, ha la stessa funzione attribuita da Gesù alla forbice che pota la vite e la libera rami inutili che la privano della preziosa linfa e la soffocano (Gv 15,2). Gli alberi divelti e gettati nel fuoco non sono gli uomini, che Dio ama sempre come figli, ma le radici del male che sono presenti in ogni uomo e in ogni struttura e che devono essere fatte a pezzi in modo che non possano più gettare germogli (Ml 3,19).

I tagli sono sempre dolorosi, ma quelli operati da Dio sono tagli provvidenziali: creano le condizioni perché spuntino rami nuovi, capaci di produrre frutti.

Il ventilabro, infine, con cui il Signore attua il suo giudizio è immagine viva: descrive il modo con cui l’operato di ogni uomo viene vagliato da Dio.

Nei tribunali umani i giudici prendono in considerazione solo gli errori e pronunciano la sentenza in base al male commesso. Delle opere buone tengono poco conto. Nel giudizio di Dio avviene esattamente il contrario. Egli, con il ventilabro della sua parola, sottopone ogni uomo al soffio impetuoso del suo Spirito che spazza via la pula e lascia sull’aia solo i preziosi chicchi: le opere di amore che, poche o molte, tutti compiono.