Pochi giorni fa, il “New York Times” pubblicava un reportage dedicato a documentare un nuovo orrore dei conflitti del ventunesimo secolo: la spietata caccia dei droni russi, sulla linea del fronte ucraino, a feriti e squadre di soccorso. Una macroscopica violazione del diritto internazionale umanitario, certo non inedita, ma resa possibile su scala così massiccia dalle nuove tecnologie militari.

di Arianna Visconti
22.11.2025
Per gentile concessione di
https://rivista.vitaepensiero.it

Questi dispositivi senza pilota richiedono ancora una guida umana, seppure da remoto (così che, nel 2015, il film Eye in the Sky – emblematicamente tradotto Il diritto di uccidere – poteva ancora giocare sui potenziali dilemmi etici e giuridici sollevati da questi omicidi mirati). L’incremento di letalità è dato dalla rapidità ed economicità (relative) di produzione, dal ‘risparmio’ di addestramento (e di vite di combattenti) e dal maggior numero di bersagli (anche civili) raggiungibili, ma anche dal potenziamento dell’effetto di distanziamento deresponsabilizzante (in sé, già noto alla guerra moderna) legato all’inserimento dell’‘operatore’ in uno scenario di ‘gamificazione’ del conflitto. Ma l’evoluzione tecnologica si indirizza verso sviluppo e diffusione di dispositivi bellici completamente automatizzati, guidati dall’intelligenza artificiale. Conosciuti in gergo militare come LAWS (Lethal Autonomous Weapon Systems) – acronimo amaramente ironico – questi dispositivi renderanno presto realtà uno scenario fino a ieri monopolio della fantascienza postapocalittica: territori desolati infestati da robot militari terrestri (UGV) e sciami di droni (UAV) ‘istruiti’ a sterminare qualsiasi ‘intruso’, meccanico o umano.

Per sua natura il diritto – la cui stessa esistenza dipende dall’inevitabilità del conflitto e dall’esigenza, altrettanto intrinsecamente umana, di contenerlo e disciplinarlo – arriva sempre ‘dopo’ l’emersione di nuovi fenomeni. Ma l’accelerazione impressa allo sviluppo tecnologico dalla crescita esponenziale del potere computazionale sta portando oggi l’ordinamento al limite della sua tenuta e, forse, a una crisi esistenziale.

Una crisi che, se si è più vistosa per il diritto internazionale – fisiologicamente il più fragile, il più lento a evolversi, il più debole sul fronte dell’enforcement, a causa dell’insormontabile feticcio della sovranità nazionale – non lascia indenni gli altri rami dell’ordinamento. Basti pensare all’impatto dirompente di quella che Luciano Floridi ha definito la “quarta rivoluzione”: dopo essere stato buttato fuori dal centro dell’universo da Copernico, abbattuto dal suo piedistallo di superiorità sulla natura da Darwin, e spossessato del dominio sulla propria mente da Freud (giganti, se non altro, del pensiero), ora l’uomo si ritrova anche alla deriva nella dimensione informativa (e, quindi, sociale e cognitiva) della propria esistenza, radicalmente trasformata e resa sempre più indominabile dalle nuove ICT (Information and Communication Technologies).

Il nuovo ‘ecosistema’ in cui tutti siamo sempre più immersi, che rende inestricabili dimensione fisica (life) e digitale (online) dell’esistenza (ormai ‘onlife’), porta con sé nuove devastanti manifestazioni di vecchi conflitti (cyberbullismo, uso ricattatorio, diffamatorio o manipolativo dei deepfakes, cyberstalking e violenza sessuale ‘digitale’, e così via), ma anche forme del tutto inedite di aggressione ai beni individuali e collettivi (flash crashes capaci di mandare in fumo miliardi, disastri tecnologici da ‘fallimento algoritmico’, ecc.), che mettono profondamente in crisi non solo puntuali disposizioni di legge, dalla sempre più rapida obsolescenza, ma gli stessi fondamenti dell’ordinamento. Questo è ben evidente in ambito penale, dove non solo si assiste a un’affannosa corsa all’introduzione di nuove fattispecie, che di frequente, però, ‘nascono vecchie’ e quasi sempre non risultano coordinate con l’esistente (e spesso neppure con sé stesse), ma dove a essere messi in crisi sono principi fondamentali come la personalità del rimprovero all’‘autore’ (individuale o, perfino, organizzativo) dell’illecito.

Più radicalmente, la quarta rivoluzione sta portando con sé mutamenti antropologici – si pensi alla differente configurazione neuronale, e inferiore capacità cognitiva, dei soggetti incapaci di lettura profonda perché cresciuti con una ‘dieta’ esclusivamente o prevalentemente digitale – che non potranno che impattare le stesse fondamenta costituzionali dei nostri ordinamenti. Ancora una volta, l’immaginazione letteraria ha precorso i tempi, seppure – come del resto sempre accade con la migliore ‘fantascienza’ – ‘sbagliando tutto’ in termini strettamente tecnico-scientifici. Il pensiero corre, infatti, a quel ‘classico’ della narrativa distopica che è Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley. Raggelante, oggi, non è tanto la rappresentazione (pure attuale) di tecnologie capaci di sottrarre all’umano la stessa generazione della vita, quanto quella di una società totalitaria in cui una enorme massa di soggetti cognitivamente atrofizzati, privi non solo di diritti, ma dell’aspirazione agli stessi, è governata e sfruttata da una ristrettissima e privilegiata ‘élite cognitiva’: nel romanzo, grazie alla manipolazione dei feti per abbassarne il quoziente intellettivo, nella realtà prossima grazie agli effetti neurologico-culturali del trasferimento di un numero sempre maggiore di interazioni ‘sociali’ dall’‘analogico’ al ‘digitale’ (dai social media all’IA).

Siamo, dunque, in vista della fine del diritto – e in particolare del diritto declinato secondo il paradigma democratico? È possibile.

La speranza – a cui, non a caso, è dedicato questo anno giubilare – è però una scintilla che, come anima le più tetre narrazioni fantascientifiche, dovrebbe muovere i cittadini (forse, l’‘ultima generazione’ di cittadini?) a pretendere di meglio e di più proprio in termini di regolamentazione di quelle forze di mercato che hanno condotto al ‘distopico’ stato di fatto attuale.

Arianna Visconti
Arianna Visconti è Professoressa di Diritto penale commerciale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttrice dell’Alta Scuola Federico Stella.