L’editoriale
Pregare e praticare la giustizia
17 Novembre 2025Per gentile concessione di
https://rocca.cittadella.org

Dal 6 al 9 novembre si è tenuto a Cefalù un interessante convegno, promosso dalle Comunità missionarie del Vangelo con la collaborazione di Rocca dal titolo impegnativo ma necessario “Vita da vivere, la ricerca di un senso”. Mi è stato chiesto di intervenire con quelli che sono stati definiti “Pensieri da Assisi”. L’ho fatto con molto pudore.

1. Si può vivere la vita, trovando un senso nella condivisione di una ricerca e di un impegno comune per alleggerire il mondo da piccole e grandi ingiustizie. Percorrere la strada ordinaria evocata negli stupendi versi con cui Jorge Luis Borges descrive i giusti: un hombre quecultiva su jardin… el que acaricia un animal dormido… el que justifica o quiere justificar un mal que le han heco… Esas personas que se ignoran estan salvando el mundo. Non c’è solo il male radicale che con mille evidenze attraversa la storia, quel mistero dell’iniquità che tanto ha inquietato Paolo e che entra come un veleno nelle nostre viscere (perché faccio il male che non voglio e non faccio il bene che voglio?); c’è anche un mistero del bene per il quale il mondo continua ad esistere. C’è una “santità” del quotidiano, un farsi carico, un trovare senso nel prendersi cura di ciò che è fragile, uno scegliere di stare dalla parte sbagliata, nella prassi di ogni giorno e/o nell’impegno civile e politico: con chi ha più bisogno di aiuto e di giustizia.

2. Nella vita succede che ci siano delle svolte, che si presentino delle occasioni. Che spesso vengano ignorate per disattenzione o per paura o per ribrezzo. Anche a un giovanotto benestante di Assisi capitò una cosa del genere. “Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo”. Questo fu il punto di rottura di Francesco non con il mondo, che continuò a frequentare e ad amare in e con tucte le sue creature, ma con una mondanità che escludeva, scartava, chiudeva nei ghetti, toglieva dalla vista la sofferenza e la miseria. Fu una spoliazione liberante vedere il mondo dal punto di osservazione delle periferie sociali ed esistenziali del suo tempo. È l’indicazione di una strada difficile ed entusiasmante. Per disegnare bene una società giusta bisogna mettere la punta del compasso li, fondarsi su quella che è stata definita “l’autorità di coloro che soffrono”. Poi ognuno sceglierà la sua strada.

3. Il 3 ottobre 2020, l’anno del Covid, non a caso, un altro Francesco, quello di Buenos Aires, davanti alla tomba del santo, firmò la Fratelli tutti, una grande enciclica. Non pochi e poche avrebbero preferito richiamare anche le sorelle… e avevano ragione. Questo resta un grande problema della Chiesa cattolica. E tuttavia è un documento prezioso. Perché ci parla di una fratellanza e di una sorellanza universali tra gli umani e anche tra tutti i viventi. Ci parla dell’uguaglianza, del bene comune, della destinazione universale dei beni, dei limiti sociali della proprietà, della prevalenza della forza del diritto sul diritto della forza, della casa comune da proteggere dall’aggressività della legge del profitto, della pace da costruire sul fondamento della giustizia e sulla luce guida della misericordia. Qualcosa che sembra lontana dalla politica. Anni luce da quella che oggi pare dominare gli scenari del mondo. Ma, non dimentichiamolo, ci può essere un’altra politica fatta di passione, solidarietà e mutuo soccorso, laica e cristianamente ispirata.  Non è un caso che la parabola che fa da riferimento all’enciclica è quella del buon samaritano. Molto di quel che di buono l’umanità ha realizzato trova la sua radice lì. Nel caricarsi sulle proprie spalle il prossimo in difficoltà, come singoli, come comunità, come società. Lo Stato sociale faticosamente costruito e frettolosamente avviato alla sepoltura, cioè il diritto ad avere cure, istruzione, alloggio, una vecchiaia dignitosa non è che la secolarizzazione del samaritano. Resistere a questa deriva individualistica ed egoistica, stupida e triste, è dunque indispensabile. Per i cristiani un mandato se non vogliono negare se stessi. Per i giovani un fronte di testimonianza e di lotta per guardare con speranza attiva al futuro.

. Che altro dire da Assisi se non due parole sulla Pro civitate christiana. Ricordando don Giovanni Rossi, nostro fondatore, abbiamo cercato di cogliere la sua intuizione di fondo, che ci è sembrata quella di mettere insieme un gruppo di ragazze e ragazzi, nell’ormai remoto 1939 e decidere di seguire Gesù sulla base di una vita comune, fondata non su voti perpetui ma su una semplice promessa che lasciava la porta aperta per entrare e per uscire. Un’impegnativa scelta di libertà nella quale laici, battezzate e battezzati, si proponevano di annunciare l’Evangelo ai crocicchi della storia e non di essere truppe di complemento dell’ordine clericale e patriarcale. Costruendo una Cittadella senza muri, luogo di incontri, di dialogo, di scoperta di sé anche attraverso lo sguardo e la parola degli altri. Annunciando Cristo certo, senza censure, come Paolo all’areopago ateniese, ma co

gliendo nella ricerca di tanti “lontani” un’autenticità che talvolta mancava nei rassicuranti recinti del sacro. Di comunità simili oggi hanno bisogno le Chiese nell’epoca della crisi dei luoghi abituali della pratica e della trasmissione della fede: dalla famiglia, alla parrocchia, agli oratori, ai tanti corpi intermedi sempre più atrofizzati.

5. Un decennio fa, un intellettuale italiano laico come Piero Citati, assumeva una posizione sorprendente proprio rispetto al piagnisteo circa la caduta della pratica religiosa. Intanto perché il cristianesimo non deve temere troppo il suo fallimento: è nelle sue corde! Mai come oggi, diceva lo scrittore fiorentino, si è letta la Bibbia, sono vive comunità e gruppi di autentica fede, si pubblicano libri sulla vita spirituale, si partecipa consapevolmente alla liturgia, si frequentano luoghi di preghiera e di meditazione. Certo è in calo la religione come senso di appartenenza formale, come una identità scontata e ininfluente. La fede torna ad essere una scelta. Perché lagnarsi di questo. Non solo non serve a nulla ma rischia di non farci vedere le potenzialità presenti in tante esperienze di fede ricche, fresche, impegnative, capaci di cambiare la vita delle persone. Dobbiamo vivere bene dopo la fine della cristianità e quella del cristianesimo la stagione della cristiania, come Pannikar chiamava questo nuovo tempo.

6. “Quello che mi fa capire se uno è passato per il fuoco dell’amore divino, non è il suo modo di parlare di Dio, è il suo modo di parlare delle cose terrene”. Simone Weil, quando scrisse queste righe, era una giovane donna che stava combattendo tutte le buone battaglie, per la giustizia sociale, perfino scegliendo di fare l’operaia, per l’uguaglianza e per la libertà, contro tutti gli autoritarismi. Nel 1937 venne ad Assisi e per la prima volta provò il bisogno di inginocchiarsi nel silenzio bianco della Porziuncola. Non riusciva a separare l’amore per Dio dall’amore per le donne e gli uomini, soprattutto per quelli che erano sfigurati, come il Crocifisso, dallo sfruttamento, dalla persecuzione e dalla sventura. Certo questo richiede un impegno sociale ma anche un mutamento personale. Contro una religione alienante, oppio dei popoli, che induca a piegare la testa attendendo il paradiso, dobbiamo vivere una fede esigente e liberante che attenda il Regno promesso ma che, anche e soprattutto, induca nel tempo della nostra vita a lavare i piedi gli uni gli altri in memoria di Lui. E a farlo sapendo di esser zoon politicon, animali di città, che devono curare la polis, lo spazio comune delle nostre relazioni.

7. Fatemi concludere con una preghiera di Adriana Zarri, una contemplattiva dei nostri giorni, una storica collaboratrice di Rocca. In fondo nella nostra preghiera ci impegniamo a pregare e praticare la giustizia: questo ci pare essenziale. “Signore, non voglio il tuo cielo, Signore voglio la mia terra. Le strade, i pozzi, le fontane e le lune che cadono nell’acqua; e, se c’è un rovo di spine, voglio anche quello, perché fiorisca a primavera; e se c’è un rospo, sul sentiero, voglio anche quello, perché sa gracidare, nella notte, lungo la riva dello stagno”. Questo amore per la terra, questo aprire le case e stare a tavola come amici, forse questo ci potrà far comprendere di nuovo il senso profondo e semplice dello spezzare il pane, che non separi il tempo della liturgia da quello dell’esistenza quotidiana. Che offra un percorso fecondo alla nostra ricerca di senso, che aiuti a vivere una vita buona.