
di Emanuela Buccioni
17 Novembre 2025
Per gentile concessione di
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Il concetto di terra promessa è tra i più fecondi e fraintesi della tradizione biblica e l’eco dei fraintendimenti strumentalmente applicati a scelte politiche ci raggiunge da troppo tempo. La terra evoca il sogno di un approdo, la fine di un cammino, ma anche il rischio di ridurre l’esperienza della fede a una conquista territoriale. L’idea di “possedere la terra” attraversa tutta la storia umana, per Levinas, invece, l’ospitalità è la vera patria dell’uomo.
La promessa della terra non è mai un premio per la forza, ma una scuola di libertà. Dio non consegna a Israele una proprietà da difendere, bensì un orizzonte da abitare in modo responsabile, come ospiti e custodi.
Quando Abramo riceve la promessa, il testo di Genesi non parla ancora di possesso: «Vattene dal tuo paese… verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). La terra promessa nasce da un verbo di movimento. È un cammino, non un diritto acquisito. L’ebreo è definito da una tensione: tra la memoria dell’esodo e l’attesa della terra, tra l’essere stato straniero e il dover accogliere lo straniero (ger). In questa dinamica si forma un popolo: non per confini, ma per un modo di camminare insieme.
IL DESERTO COME GREMBO DEL POPOLO
La libertà non nasce con l’uscita dall’Egitto, ma nel lungo tratto di deserto che segue. È lì che il gruppo di schiavi liberati diventa popolo. L’Esodo, nella sua etimologia greca (ex-hodos, “uscita dalla via”), non è fuga, ma riapertura del cammino. L’ebraico yetsiat Mitzrayim, “l’uscita dalle angustie”, indica un processo di dilatazione: l’esperienza di un Dio che libera, ma anche educa. Nel deserto Israele impara la precarietà del pane (la manna), il limite, la fiducia quotidiana. Lì si forgia la coscienza di un popolo chiamato a vivere non per accumulare, ma per condividere. La fame e la sete diventano esperienze formative: «Ti ho fatto provare la fame e ti ho nutrito di manna, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane»(Dt 8,3). È un cammino di metamorfosi: da massa indistinta a popolo (‘am) chiamato a relazione di alleanza. Mosè è guida per un popolo informe verso una maturità faticosa. La terra promessa non è dunque un arrivo geografico, ma una maturazione interiore.
Per questo la Torah descrive la terra non come conquista ma come morashah – “eredità ricevuta”, termine che implica responsabilità più che possesso. Israele non ottiene la terra, ma vi entra per “servirla” e “custodirla”, come l’Adam nell’Eden (Gen 2,15). La vera libertà non è essere padroni, ma essere affidabili.
La terra promessa è anche promessa differita: occorrono quarant’anni di formazione. Il deserto è una scuola di lentezza e di ascolto, dove il popolo impara che la fedeltà non si misura con la rapidità del successo ma con la capacità di perseverare. La generazione uscita dall’Egitto non entrerà nella terra: segno che il cammino è più decisivo del possesso.
Questa tensione attraversa tutta la Bibbia. Nel Deuteronomio la terra è dono condizionato all’obbedienza: «Affinché prolunghiate i vostri giorni sulla terra che il Signore vi dà»(Dt 11,9). La promessa resta viva solo se è custodita in giustizia e misericordia. La terra che stilla latte e miele è tale solo se è abitata da relazioni di equità. Quando diventa luogo di oppressione, Dio stesso la ritira: l’esilio ne è la conseguenza, ma anche la possibilità di una nuova interiorizzazione del dono.
CRITICA ALLA VIOLENZA SACRALIZZATA
Il libro di Giosuè, con la narrazione delle conquiste e della cherem (distruzione votiva), resta un banco di prova difficile. Come conciliare la promessa divina con la violenza esercitata in suo nome? La tradizione rabbinica e quella profetica hanno sempre avvertito la tensione. Anche l’interpretazione raccolta nel Talmud (Shevi‘it 6,1) sottolinea che la terra appartiene a Dio e che l’uomo non può appropriarsene in modo assoluto. I profeti interpretano la conquista in chiave simbolica: il vero possesso della terra non è militare, ma etico. Isaia proclama: «Il popolo giusto entrerà nella terra, chi mantiene la fedeltà» (Is 26,2).
La violenza del racconto di Giosuè va letta come linguaggio teologico, non come modello storico: ciò che deve essere bandito, espulso, è l’idolatria, non i popoli. L’esodo, come movimento di liberazione, diventa un criterio di discernimento etico: ogni volta che la fede si traduce in conquista o dominio, essa tradisce la propria origine liberatrice.
Il Levitico offre una ulteriore correzione decisiva: «La terra non sarà venduta per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come stranieri e ospiti(gerim ve-toshavim)» (Lv 25,23). La vera terra promessa è quella che non si possiede, ma si custodisce: è uno spazio di ospitalità reciproca.
Ogni generazione deve riscoprire la fraternità come condizione di permanenza nella terra. Il Giubileo (yovel) – quell’istituzione che libera gli schiavi e restituisce le terre – è una forma di “nuovo esodo”, un richiamo periodico alla memoria della liberazione. In esso risuona la proclamazione di derór, la libertà messianica evocata da Isaia e ripresa da Gesù a Nazareth (Lc 4,18): la terra è promessa di libertà per tutti, non privilegio per pochi.
Ecco il segno di una tensione tra radicamento e distacco. Senza una casa concreta, il popolo si disperde; ma quando la casa diventa idolo, si perde l’anima della promessa. Per questo Israele è chiamato a vivere in equilibrio tra l’essere “popolo sulla terra” e “popolo in cammino”.
OLTRE LA CONQUISTA
L’esilio babilonese e poi la diaspora non cancellano la promessa, ma la trasformano. Nelle parole dei profeti la terra diventa simbolo del cuore rinnovato: «Vi prenderò dalle nazioni e vi condurrò nella vostra terra… vi darò un cuore nuovo» (Ez 36,24-26). La terra promessa non è più soltanto un luogo geografico, ma uno spazio di alleanza.
Nella tradizione ebraica moderna, pensatori come Abraham Heschel e Martin Buber hanno ripreso questa dimensione spirituale. Per Heschel la vera terra promessa è il tempo consacrato, lo Shabbat; per Buber, è la reciprocità dell’“Io-Tu”, dove il divino si manifesta nella relazione. In entrambi, la terra si fa simbolo dell’alleanza: non un luogo da difendere o conquistare, ma una promessa da vivere.
Leggere la Bibbia in tempi di confini e stermini significa ricordare che ogni giustificazione teologica della guerra tradisce il Dio dell’Esodo. Non esiste terra promessa senza la conversione dell’uomo che la abita. L’Esodo resta allora il paradigma di ogni cammino umano: liberarsi dalle schiavitù interiori, formare comunità giuste, imparare ad abitare la terra come dono. E forse, ancora oggi, l’unico modo per raggiungere la promessa è continuare a cercarla insieme.