L’autore russo esule in Francia nel 1907 elogiò il pensare ossimorico. Il contrario del buon senso, la cui logica lineare ostacola il comprendere la vita

Boris Grigor’ev, “Ritratto di Lev Šestov” / Alamy
di Simone Paliaga
14 novembre 2025
Per gentile concessione di
AVVENIRE
«La Stupidità ha le sue leggi che non si sottopongono né al controllo né alle limitazioni. Essa e bellissima, non si discute, il buon senso invece ha stancato da morire ed e noioso, come una vecchia bigotta». A scrivere queste parole è Lev Isaakovič Šestov (1866-1938), pensatore russo tra i più interessanti soprattutto perché inclassificabile. Quantunque sia difficile ascriverlo a una scuola a lui si richiamano soprattutto autori di lingua francese che entrarono in contatto con la sua riflessione dopo il suo trasferimento a Parigi, avvenuto nel 1920, in seguito alla Rivoluzione bolscevica. Benjamin Fondane e Rachel Bespaloff oltre a André Gide, Gabriel Marcel e, a distanza di decenni, Julien Freund non disdegnarono mai o di frequentare lui o i suoi testi. Di solito Šestov viene dipinto alla stregua di un filosofo, o forse sarebbe meglio dire pensatore, dell’aut-aut. Secondo la vulgata egli avrebbe incarnato la sfida “esistenziale” scagliata dalla Bibbia alla Grecia, dunque la rivolta di Gerusalemme contro Atene, e in particolare contro i sistemi di pensiero che accarezzano l’idea di accogliere e trovare una ragione a tutto. Invece la posizione del pensatore russo nato a Kiev è forse più complessa di quanto possa apparire di primo acchito. Lo si scopre dalla lettura di un suo breve intervento Elogio della stupidità (pagine 94, euro 12,00) da oggi in libreria per le edizioni di Nino Aragno con la traduzione a fronte opera, al pari la curatela, di Lucio Coco e di cui pubblica sotto un estratto per gentile concessione dell’editore. Dato alle stampe per la prima volta nel 1907 sulla rivista Fakely, il testo nasce come una recensione a una raccolta di saggi di Nikolaj Berdjaev. Ma, come tutto ciò che è maneggiato da Šestov, non si riduce a una banale nota di lettura. Esso è invece l’occasione colta dal pensatore nato a Kiev per aprire al suo pensiero ulteriori opportunità di affinamento e di sviluppo. In sintesi, in questa manciata di pagine, sostiene che la stupidità possieda potenzialità superiori rispetto al buon senso, considerando questo come un ostacolo alla autentica comprensione della vita. Al buon senso l’autore associa la logica e tutto quanto insiste sui principi di identità e non contraddizione. Ciò che andrebbe cercato in alternativa a esso è un pensare per ossimori, una strategia di ragionamento capace di cortocircuitare la linearità della logica che poco ha da dire intorno alla vita. Per dirlo con le stesse parole di Šestov occorre cercare «un dogmatismo adogmatico un adogmatismo dogmatico, la cosiddetta contradictio in adjecto: la quiete che si muove, il ferro di legno, etc.». Assumendo uno stile di pensiero che procede per ossimori diventa possibile mettere in crisi una visione edulcorata del mondo dove ogni cosa ha e sta al suo posto. Vale per la filosofia che ambisce a spiegare l’intero esistente e per le scienze positive che coltivano la presunzione di racchiudere il mondo in una formula. «Le leggi della fisica – ammonisce l’autore di La bilancia di Giobbe – sono solo una malattia dell’esistenza e da qui la deduzione: poiché a noi la logica è necessaria, allora le leggi della natura esistono e allo stesso tempo non esistono». A sovvertirle e dunque a scuotere l’ordine delle cose possono intervenire il miracolo o il caso. Pertanto, prosegue il filosofo, «o la posizione della scienza, per la quale le leggi della natura sono inviolabili, contro la logica coesiste con la posizione contraria per la quale le leggi della natura possono essere violate, o essa è semplicemente falsa». Da queste argomentazioni fa capolino proprio la necessità di pensare non con ma attraverso gli opposti, di comprendere insieme, senza timore della contraddizione, due fenomeni, due stili di pensiero che sia in apparenza sia realtà confliggono. Occorre non farsi intrappolare in facili ma incapacitanti dicotomie dal momento che la vita non è riassumibile in nessuna di esse. Dell’uomo o della vita il buon senso ovvero la logica nulla possono raccontare. E se raccontano qualcosa è inesatto. «La stupidità di Šestov include – precisa Coco nell’introduzione – necessariamente la possibilità del Terzo – Tertium datur – ovvero l’abbandono della logica binaria dell’o questo o quello, dell’aut aut imposto dalla ragione. La stupidità di Šestov postula infatti che ci sia e questo e quello, si fonda sulla congiunzione correlativa et… et. Non il dualismo di Cielo e Terra, non Spirito e Carne, nessuna sopravvalutazione dell’uno a discapito della dannazione dell’altro».
L’inedito: «Con Berdjaev oltre i limiti della scienza»
di Lev Šestov
Ame, come ho già avuto modo di confessare, basandomi sul cuore, piace la Stupidità. E questo non perché io creda nella sua definitiva vittoria sul buon senso. Questa certezza non ce l’ho. Tuttavia non è vietato talvolta anche idealizzare la vita, cioè credere a quello che non esiste e non credere a quello che esiste. Vi è anche un indirizzo filosofico idealistico. Talora mi concedo il lusso di una illusione volontaria e con autentico piacere preferisco i luoghi del libro di Berdjaev nei quali si cita la propria stupidità o quella altrui, e ci credo, ci credo, anche se ciò contraddice mille volte ogni certezza e ogni evidenza. Per esempio, dice: «Il realismo mistico non porta a un dogmatismo statico, ma a un dogmatismo dinamico, che si muove sempre, senza limiti creativo, penetrante e trasfigurante. La mistica vera e reale deve scoprire qualcosa, affermare qualcosa, deve produrre esperienze e parlare di ciò che ha esperito e visto, essa e dogmatica in nome del movimento perché realmente ci sia movimento, perché nel movimento qualcosa accada». Ovvero un dogmatismo adogmatico un adogmatismo dogmatico, la cosiddetta contradictio in adjecto: la quiete che si muove, il ferro di legno, etc. Io domando quale scrittore ancora ha l’ardire di contraddire così apertamente alle leggi della logica e cosi poco si preoccupa della logica (quel buon senso)?! E questo proprio all’inizio del libro, nella premessa! Mi dispiace terribilmente solo che Berdjaev utilizzi così tanto termini stranieri sconosciuti al pubblico. A motivo di ciò il senso dei suoi discorsi rimane oscuro ai più. Forse, si trovano alcuni lettori che, essendosi accostati ai passi citati, non li valutino affatto di valore. Pensano che si tratti della solita cultura, difficile per la comprensione perché molto rigidamente si attiene alla logica e ha paura di peccare contro il principio di contraddizione.
E adesso ecco un brano dalla postfazione: «Nessuna scienza può dimostrare che al mondo è impossibile un miracolo, che Cristo non è risorto, che la natura di Dio non si rivela in una esperienza mistica; tutto ciò è semplicemente fuori dalla scienza, la scienza non ha le parole per esprimere non solo qualcosa di positivo in questo campo, ma nemmeno qualcosa di negativo. La scienza positiva può solo dire: secondo le leggi della natura, scoperte dalla fisica, dalla chimica, dalla fisiologia e di altre discipline, Cristo non è potuto risorgere, ma in questo essa converge con la religione, la quale anche afferma che Cristo è risorto non secondo le leggi della natura, ma avendo superato la necessità, avendo vinto la legge della corruzione, [afferma] che la Sua risurrezione è un atto mistico arcano al quale ci si accosta solo nell’esperienza religiosa». La scienza, mettiamo, dice il contrario, ma non è questione di scienza. In Berdjaev risulta che le leggi della natura esistono e non esistono. Infatti i miracoli non solo sono possibili ma si sono realizzati agli occhi degli uomini. Berdjaev ricorda solo la risurrezione di Cristo. E la risurrezione di Lazzaro, la guarigione dei ciechi e dei paralitici, le cinquemila persone che furono sfamate con due pani e cinque pesci, etc.? Tutto ciò ci è noto da quella stessa fonte dalla quale sappiamo della risurrezione di Cristo. Quindi a quel tempo la violazione delle leggi di natura era un fenomeno consueto così come oggi lo è la loro inviolabilità. E, quindi, o la posizione della scienza, per la quale le leggi della natura sono inviolabili, contro la logica coesiste con la posizione contraria per la quale le leggi della natura possono essere violate, o essa è semplicemente falsa. Questa conclusione mi è particolarmente vicina e cara così come è vicina e cara al cuore di Berdjaev. Egli la formula con le seguenti parole: «Forse le leggi fisiche che ci tengono stretti nella morsa sono solo una malattia dell’esistenza, un difetto dell’esistenza stessa». Perché solo «forse»? Sarebbe un dogma: le leggi della fisica sono solo una malattia dell’esistenza e da qui la deduzione: poiché a noi la logica è necessaria, allora le leggi della natura esistono e allo stesso tempo non esistono. Così sarebbe meglio.
Inizialmente il pensiero che le leggi della natura esistono e non esistono è un pensiero, che attraversa tutta la seconda parte del libro di Berdjaev, pronunciato con particolare chiarezza nell’articolo “Sulla nuova coscienza religiosa”, dedicato a Merežkovskij. Evidentemente questo pensiero sorse in lui in parte sotto l’influenza di Merežkovskij. Evidentemente Berdjaev ritiene se stesso molto in debito con quest’ultimo e non trova utile celare questa circostanza. Egli considera i temi di Merežkovskij geniali e assimila non solo i temi ma anche le parole preferite e le espressioni di Merežkovskij. Berdjaev dice: «Merežkovskij ha capito che la via d’uscita dal dualismo religioso, dalla contrapposizione dei due abissi del cielo e della terra, dello spirito e della carne, dalla fascinazione pagane del mondo e dal rifiuto cristiano del mondo che questa via d’uscita non si trova in nessuno dei Due, ma in un Terzo, nel Tre. Questo è il suo enorme merito, l’enorme significato per il moderno movimento religioso. Il suo tormento, il tormento a noi congenito, e nell’eterno pericolo della confusione, della sostituzione nel duplice volto di Cristo e dell’Anticristo, nell’eterno orrore che non si adora il Vero Dio, del rifiuto di una delle Persone della Divinità, uno degli abissi, non un polo contrario a Dio, ma solo opposto e ugualmente Divino della coscienza religiosa». Io personalmente non condivido il giudizio né di Merežkovskij né di Berdjaev. Io anche non credo che la questione così posta del cielo e della terra possa avere un grande interesse. Trovo che Merežkovskij, che ha preso in prestito anche l’impostazione della questione e la sua soluzione, grosso modo, da Dostoevskij, ha inteso male quest’ultimo. La fondamentale domanda dell’uomo non e affatto una domanda morale.