Prima Domenica di Avvento
Anno A
Matteo 24,37-44
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
(Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24, 37-44).

Lo stile dell’Avvento:
accorgersi, vivere con attenzione
Ermes Ronchi
Inizia il tempo dell’Avvento, quando la ricerca di Dio si muta in attesa di Dio. Di un Dio che ha sempre da nascere, sempre incamminato e sempre straniero in un mondo e un cuore distratti. La distrazione, appunto, da cui deriva la superficialità «il vizio supremo della nostra epoca» (R. Panikkar). «Come ai giorni di Noè, quando non si accorsero di nulla; mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito e non si accorsero di nulla». È possibile vivere così, da utenti della vita e non da viventi, senza sogni e senza mistero.
È possibile vivere “senza accorgersi di nulla”, di chi ti sfiora nella tua casa, di chi ti rivolge la parola, di cento naufraghi a Lampedusa o del povero alla porta.
Senza vedere questo pianeta avvelenato e umiliato e la casa comune depredata dai nostri stili di vita insostenibili. Si può vivere senza volti: volti di popoli in guerra; volti di donne violate, comprate, vendute; di anziani in cerca di una carezza e di considerazione; di lavoratori precari, derubati del loro futuro.
Per accorgersi è necessario fermarsi, in questa corsa, in questa furia di vivere che ci ha preso tutti. E poi inginocchiarsi, ascoltare come bambini e guardare come innamorati: allora ti accorgi della sofferenza che preme, della mano tesa, degli occhi che ti cercano e delle lacrime silenziose che vi tremano. E dei mille doni che i giorni recano, delle forze di bontà e di bellezza all’opera in ogni essere.
L’altro nome dell’Avvento è vivere con attenzione. Un termine che non indica uno stato d’animo ma un movimento, un “tendere-a”, uscendo da sé stessi. Tempo di strade è l’avvento, quando il nome di Dio è “Colui-che-viene”, che cammina a piedi, senza clamore, nella polvere delle nostre strade, sui passi dei poveri e dei migranti, camminatore dei secoli e dei giorni. E servono grandi occhi.
«Due uomini saranno nel campo, due donne macineranno alla mola, uno sarà preso e uno lasciato»: non sono parole riferite alla fine del mondo, alla morte a caso, ma al senso ultimo delle cose, quello più profondo e definitivo. Sui campi della vita uno vive in modo adulto, uno infantile. Uno vive sull’orlo dell’infinito, un altro solo dentro il circuito breve della sua pelle e dei suoi bisogni. Uno vive per prendere e avere, uno invece è generoso con gli altri di pane e di amore. Tra questi due uno solo è pronto all’incontro con il Signore. Uno solo sta sulla soglia e veglia sui germogli che nascono in lui, attorno a lui, nella storia grande, nella piccola cronaca, mentre l’altro non si accorge di nulla. Uno solo sentirà le onde dell’infinito che vengono ad infrangersi sul promontorio della sua vita e una mano che bussa alla porta, come un appello a salpare.
Una generazione che non si accorge di nulla
Don Angelo Casati
La venuta del Signore è come quella del ladro. L’accostamento è inquietante e, in qualche misura, sembra anche irriguardoso. Quasi dissacrante del volto del Signore. Ma, voi lo intuite, è solo per dire che la visita di Dio è, come afferma Gesù, nell’ora che non immaginiamo.
E così la vigilanza, la vigilanza cui siamo richiamati, proprio perché non sappiamo il giorno né l’ora, va distesa su tutta la vita. Non un istante su cui accendere l’attenzione. No, l’attenzione su tutta la vita: svegli, svegli e lucidi, su tutta la vita.
Perché la venuta, dice Gesù nella pagina di Matteo, sarà come ai tempi del diluvio. È interessante notare come l’evangelista Matteo, riferendosi al tempo del diluvio, non accenni, come invece fa il libro della Genesi, alla malvagità e alla violenza di quella generazione. Scrive il libro della Genesi: “La malvagità era grande sulla terra, ogni disegno concepito nel cuore non era altro che male, la terra per causa loro era piena di violenza”.
Ebbene la generazione del diluvio, nella redazione del vangelo di Matteo, non viene rimproverata per la sua malvagità e violenza. Fa cose, diremmo, normali, fa le cose che fanno tutti, le cose che appartengono al nostro vivere quotidiano: “Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito”. Il rimprovero dunque non può essere evidentemente per queste cose, ma è per quello che segue. È scritto: “E non si accorsero di nulla, finché non venne il diluvio e inghiottì tutti”.
È una generazione che non si accorge di nulla. Che non ha attenzione e lucidità. È inghiottita dagli eventi. Rimproverata è questa indifferenza, questa incoscienza. Vivere, ma senza sospetto, senza discernimento. Senza interrogazione. Senza interrogazione profonda.
Vedete, noi siamo stati educati a guardarci dalla malvagità e dalla violenza. E non sempre ce ne siamo guardati. Non siamo stati educati invece, o lo siamo stati meno, a guardarci dal sonno dello spirito: “Svegliamoci” diceva oggi Paolo “dal sonno”, dall’indifferenza, dalla cecità. Di qui questo non accorgersi di nulla, questo non interrogarci sulle questioni fondamentali, questo essere trascinati dagli eventi, risucchiati dal trantran delle cose.
“Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito”. E così anche le cose serie come mangiare e bere, prendere moglie e marito possono essere a tal punto idolatrate da occupare tutto il cuore, tutto il da fare della vita. Non c’è altro. Sommersi! Si fanno tante cose, – oggi più di ieri forse se ne fanno: pensate solo a quante se ne fanno fare ai bambini! – ma come per automatismo, come per una necessità sociale, per obbedienza, più o meno consapevole, alle mode del tempo. Ma rimanendone inghiottiti. Senza capire che cosa sta accadendo più in profondità, qual è il senso di tutto. Con l’esito – a volte devastante! – del non senso. Il non senso di tutto.
L’impressione che a volte se ne ricava è come quella di aver radunate tante cose, ma come pietre gettate. Gettate in un mucchio. Un conto sono le pietre gettate in un mucchio, un conto sono le pietre radunate in un edificio. Manca il disegno, manca l’architetto che vede il disegno, che raduna in un disegno.
Ci è chiesta una vigilanza: scoprire alla luce della parola di Dio la profondità della vita, la profondità degli avvenimenti e della storia. E non rimanere alla superficie. Alla superficie di ciò che sta accadendo. Questa nostra generazione si sta segnalando per una quantità di cose che conosce – sappiamo! – siamo gli uomini e le donne di una moltitudine di notizie, ma spesso facciamo cronaca. Non c’è sapienza di interpretazione.
Oggi le letture erano richiamo in molte direzioni. Io ne sfioro brevemente due.
La prima richiamata nella lettera dell’apostolo Paolo ai Romani: con l’invito a rivestirci di luce. Oggi sta diventando sempre più frequente il lamento, il piagnisteo sulla nequizia dei tempi. Non perdiamo ulteriormente tempo. Poniamo gesti che gettino semi per il futuro. Semi di luce. Germoglieranno. “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo”. Per questo veniamo qui la domenica: per cogliere più in profondità il senso che Gesù dava alla vita, il disegno che fa delle pietre un edificio. E farlo nostro.
Seconda indicazione sull’essere svegli, vigilanti: non guardare indietro. E, al contrario, come oggi ci invitava a fare il profeta Isaia, guardare in avanti, al progetto di Dio. Il progetto di Dio, diceva Isaia, va verso un disegno che racconta l’affluire al monte di Dio di tutti i popoli, verso un criterio che non è la soppressione dell’altro o di se stessi, ma la relazione con l’altro. Non marciamo, sembra ammonire il profeta, contro il disegno di Dio, marceremmo verso il nulla. Mettiamo le premesse, se siamo vigilanti, se siamo intelligenti, per un mondo in cui si forgeranno le spade in vomeri e le lance in falci e un popolo non sorga più contro un altro popolo e non ci si eserciti più – brutto esercizio! – nell’arte della guerra.
Il mondo da progettare, se siamo vigilanti e intelligenti, se siamo realmente credenti, dovrebbe essere un mondo in cui gli uomini non siano costretti a minacciarsi a vicenda, fino alla morte, per potere convivere. Perché non è con il gelo che noi schiudiamo i fiori – stolta illusione! – ma con il tepore, il tepore dolce che non violenta le gemme, ma le schiude alla loro bellezza. Così fa Dio, questo è il progetto di Dio, questo il progetto dei credenti, di quelli che veramente credono in Dio.
Vigilate nell’attesa
Clarisse di Sant’Agata
Con oggi iniziamo un nuovo anno liturgico; potremmo dire che per noi cristiani oggi è il “capodanno della nostra vita di fede”!
Il Signore ci mette davanti il dono di un nuovo anno da passare con Lui, alla Sua presenza, ascoltando la Sua Parola e incontrandoLo nel volto di ogni fratello e di ogni sorella che i giorni che verranno ci daranno la grazia di incontrare.
E questo tempo nuovo che ci viene donato, comincia nello spirito di una attesa che è vigilante.
E’ il tempo in cui scrutare i giorni e nella quotidianità scorgere la Sua presenza. E’ attendere che Lui arrivi a “illuminare chi sta nelle tenebre e nell’ombra di morte” (Lc 1,79).
Facciamoci accompagnare proprio dalla Parola di Dio che la Chiesa ci dona in questa prima domenica di Avvento.
Il profeta Isaia, nella prima lettura, ci parla di una visione. Lui vede ciò che ancora non è, vede il sogno di Dio per questo mondo che Lui stesso ha creato e che tanto ama: “Il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti….. ad esso affluiranno tutte le genti……. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance falci…. Non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,1-5).
Il profeta vede una nuova umanità, dove l’altro non è più qualcuno da cui doversi difendere, ma è il fratello che cammina con me alla luce del Signore: “Venite camminiamo alla luce del Signore” (Is 2,5).
Ogni strumento di “male”, diventa strumento per la vita, per curare e custodire il creato e per far si che la terra produca i suoi frutti.
San Paolo nella lettera ai Romani (13,11-14a) ci parla di luce, di trasparenza, di onestà; ci parla di una salvezza vicina più che mai, nel qui e ora della nostra vita.
La notte, ci dice, non è più notte perché è illuminata da stelle che fanno luce sui nostri incontri senza più paura, ma pieni di fiducia.
Le stelle sono i Santi, coloro che ci hanno preceduto nel cammino della vita alla sequela del Cristo Risorto e che ora sono come luci, discrete e fedeli, che illuminano il nostro cammino qui sulla terra, di noi che viviamo nella speranza e non ancora nella visione.
“La fede è un’offerta di solarità” (E. Ronchi).
Paolo ci vuole svegliare da un sonno pericoloso, quello in cui ci si abitua al miracolo della vita eterna già presente nel nostro oggi.
Nel brano del Vangelo, l’evangelista Matteo (24,37-44), ci parla dei “giorni di Noè” nei quali gli uomini e le donne mangiavano, bevevano, prendevano moglie e prendevano marito….
Cosa c’è di male in quello che facevano? Non era stato Dio stesso che nel giardino dell’Eden aveva detto all’uomo e alla donna: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela.. Ecco io vi do ogni erba che produce seme e che è sulla terra e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo” (Gen 1,28.29)? E allora perché qui ci sembra che Dio rimproveri queste azioni degli uomini? Dio non rimprovera all’uomo di vivere la sua quotidianità nella pienezza, ma di vivere di sola quotidianità, senza più Dio, senza più sogni, senza più l’Essenziale.
Noè costruisce un’arca, una barca enorme, in pieno giorno e in totale assenza di acqua! Per giorni, settimane e mesi fa qualcosa che sembra assurdo agli occhi di chi è capace di guardare solo il contingente, senza sapersi aprire ad orizzonti più grandi dove la Provvidenza di Dio si fa concreta e tangibile.
Emblematico anche l’episodio di Marta e Maria: Gesù non dice che quello che fa Marta è sbagliato, ma dice che Maria si è scelta la parte migliore, cioè l’Essenziale!
Quello che conta è dov’è il nostro cuore: “Là dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore” (Lc 12,34). Se il cuore, la mente, gli affetti sono legati e occupati solo del contingente, delle cose materiali, il Figlio dell’uomo quando verrà ci troverà distratti, impegnati in altro e noi non ci accorgeremo nemmeno della sua venuta!
Pensiamo a figure di chi ha saputo farsi interpellare e riconoscere senza apparentemente vedere nulla di straordinario.
Primi i pastori che all’annuncio degli Angeli lasciano le loro greggi, di notte, e corrono per vedere il Messia da tanto atteso. Arrivano e trovano un normalissimo neonato con accanto un padre e una madre come ce ne sono a milioni nel mondo. Un Messia così diverso da come lo attendevano che aveva scelto di mostrarsi prima a loro piuttosto che ai Sacerdoti o al Sinedrio…… Eppure Lo riconoscono e “tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto” (Lc 2,20).
Poi tre Re, tre personaggi un po’ “strani” anche loro venuti per adorare un Dio che probabilmente non era il loro Dio, ma che anche loro riconoscono e adorano e al quale offrono tre doni ricchi di significato.
E infine, ma non per questo meno importanti, Simeone e Anna che da tutta la vita attendevano di poter vedere il giorno della venuta del Messia. Anche loro vedono un neonato, due semplici e poveri genitori, come forse ne vedevano spesso nel Tempio per presentare i loro figli al Signore, e anche loro riconoscono, adorano, rendono grazie al Padre e affermano che ora sono pronti a morire perché “i loro occhi hanno visto la salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli” (cfr Lc 2,29-31).
L’uomo diventa ciò che attende e tutta l’esistenza del cristiano è attesa di Colui che deve tornare. Allora questo è il tempo in cui Chi deve venire trovi chi lo aspetta; è il tempo per prepararGli uno spazio perché Lui possa nascere e dimorare nel nostro cuore ogni giorno della nostra vita.
Tempo di Avvento, cioè di attesa di una venuta, di Qualcuno che deve venire, che ci stimola ad entrare nel sogno di Dio per questa umanità ferita, sola, che cammina nel buio e nell’indifferenza reciproca. Ci chiede di essere vigili, svegli, attenti per poter cogliere i segni della Sua presenza nel qui e ora delle nostre giornate.
E’ solo nel qui e ora che possiamo incontrare e riconoscere il volto e l’azione di Dio nella nostra vita ed è sempre nel qui e ora che possiamo incontrare i nostri fratelli in umanità e nei loro occhi vedere il riflesso del volto di quel Padre comune che ama i suoi figli, tutti i suoi figli, nell’amore del Figlio che ha dato la sua vita per noi.
Sorelle Povere di Santa Chiara
http://www.clarissesantagata.it
Avvento: tempo d’attesa dell’umanità, tempo di missione
Romeo Ballan, mccj
Iniziamo oggi un nuovo anno liturgico, con l’impegno missionario di annunciare “la Gioia del Vangelo”, come Papa Francesco ci ha raccomandato durante l’ottobre missionario straordinario, e ci insegna ripetutamente. Il Papa ci stimola ad uscire all’incontro del Signore che viene anche nel prossimo Natale, per offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. In questo anno liturgico (Anno A) ci accompagna il Vangelo di Matteo, che possiamo chiamare il Vangelo dell’Emanuele; infatti, “Dio con noi” è uno dei nomi di Gesù, e lo troviamo all’inizio e alla fine del testo: vedi Mt 1,18 e Mt 28,20.
All’inizio del tempo liturgico dell’Avvento, ritorna con forza l’imperativo della vigilanza (Vangelo): “Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo… tenetevi pronti” (v. 42-44). Gli esempi che Gesù porta – l’esperienza della gente nei giorni di Noè ai tempi del diluvio (v. 37-39) e l’arrivo del ladro nell’ora più impensata (v. 43) – non hanno lo scopo di incutere terrore, ma solo di stimolare alla vigilanza e animare la speranza all’incontro del Salvatore. La vigilanza non è qualcosa di speculativo, ma la capacità spirituale di cogliere i segni della salvezza di Dio presenti nella storia umana. Vigilare è rimanere saldi nella Parola del Signore, senza esitazioni e senza cercare falsi segni. La vigilanza è un modo di vivere e di affrontare la realtà; è un atteggiamento concreto di impegno e speranza.
Tutti – credenti e non – siamo ugualmente immersi negli eventi della storia umana, eppure la comprensione degli stessi cambia radicalmente, secondo il modo di guardarli. La fede fa la differenza. La fede, infatti, è una chiave di lettura degli eventi umani, capace di cogliere e mettere in luce un amoroso piano di salvezza che altri, non avendo questo dono, non colgono e non si accorgono di nulla (v. 39). Le azioni possono essere le stesse, ma il credente e il non credente, il cristiano e il non cristiano, le guardano e le vivono in modo differente, addirittura opposto. Gesù lo spiega parlando della gente nei giorni di Noè prima del diluvio: mangiare, bere, sposarsi, lavorare nei campi o in casa… (v. 38-41), sono attività ordinarie per tutti nella vita quotidiana, ma si possono vivere distrattamente, oppure come momenti di salvezza.
“La differenza tra il credente e il non credente non sta tanto (o soltanto) in comportamenti esteriori particolari, ma in un’attitudine interiore diversa. Il non credente vive come se Dio non esistesse. Come se Dio non dovesse arrivare in modo definitivo per lui… Il credente invece vigila, sa che il Signore non potrà tardare. Non vive alla giornata, come viene viene. Non si appiattisce nella quotidiana alienazione… Il credente non sfugge certo al presente – anzi si impegna come gli altri – ma non si lascia imprigionare dalle cose” (Orazio Petrosillo). San Paolo (II lettura) chiama così i due opposti modi di vivere: opere delle tenebre o armi della luce. Il cristiano deve scegliere, senza indugi, perché il tempo è un dono prezioso per la salvezza (v. 11). Su questo famoso testo paolino andò maturando la conversione del giovane Agostino di Ippona. E così scoprì la vita vera!
Fin dall’inizio del tempo dell’Avvento, appare il tema forte della pace e del disarmo (I lettura). Il piccolo regno di Giuda era minacciato e coinvolto in una guerra temeraria contro l’Assiria. Il re è terrorizzato e cerca alleanze militari. Solo il profeta “vede oltre, vede lontano”, invita alla fiducia in Dio, unico arbitro fra i popoli; e lancia uno sconvolgente oracolo di pace: trasformare le armi in strumenti di produzione e sviluppo, spezzare le spade per farne degli aratri, trasformare le lance in falci. Non più armi di morte, non più l’arte della guerra! (v. 4). L’utopia diventerà realtà, dice il profeta, se tutti “camminiamo nella luce del Signore” (v. 5). Noi cristiani abbiamo qui una motivazione forte per scegliere sempre e definitivamente la pace e il disarmo.
La riduzione-eliminazione delle armi, prima di essere una scelta politica, è un imperativo che nasce dalla fede in Cristo. In nome di questa fede, è doveroso protestare e denunciare i governi (l’Italia compresa!) per le eccessive, criminali e assurde spese militari, per la fabbricazione e il commercio di nuove armi di morte. Papa Francesco le ha condannate di nuovo domenica scorsa, 24 novembre, in un discorso a Nagasaki, durante il recente viaggio in Giappone: “Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo”.
Isaia è anche il profeta dell’universalità della salvezza di Dio, che è offerta a “tutte le genti” (v. 2-3). Noi cristiani sappiamo chi è il Salvatore che è venuto, che viene e che verrà anche nel prossimo Natale; mentre i non cristiani – che sono ancora la maggior parte della famiglia umana (circa due terzi) – aspettano, o non hanno ancora accolto l’annuncio di Cristo Salvatore. Perciò l’Avvento, che ci ricorda il tempo dell’attesa dell’umanità, è un periodo liturgico propizio per riscoprire “la Gioia del Vangelo” e per risvegliare in noi cristiani la coscienza della responsabilità missionaria, con la preghiera, la testimonianza e l’annuncio.
I Avvento: Un giudizio che salva
Fernando Armellini
“Temi il giudizio di Dio!”.
È la minaccia che viene impiegata ancora da qualche predicatore, come deterrente – sempre meno efficace – per distogliere dal male.
L’immagine di Dio giudice è presente nel vangelo, soprattutto in quello di Matteo in cui compare quasi ad ogni pagina. Che senso ha?
La resa dei conti finale è troppo lontana e troppo aleatoria per esercitare un impatto sulle scelte di oggi e, soprattutto, questa sentenza inappellabile, di tipo forense, pronunciata da Dio al termine della vita non servirà più a nessuno: a quel punto sarà impossibile a chiunque ricuperare il tempo perduto o impiegato male.
Ci interessa un altro giudizio di Dio: quello che egli pronuncia nel presente.
Di fronte alle scelte che siamo chiamati a fare, ascoltiamo tanti “giudizi”: quello degli amici, della pubblicità, della moda, della vanità, della gelosia, dell’orgoglio, della morale corrente… e c’è anche – spesso flebile, tacitato, sopraffatto da altre “sentenze” – il giudizio di Dio, l’unico che indica il cammino della vita, l’unico che alla fine si rivelerà valido.
Vigilare significa saper discernere, essere in grado di cogliere questo giudizio che giunge puntuale, anche se nei modi e momenti più inattesi.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Fa che io segua, o Signore, i tuoi giudizi”.
Prima Lettura (Is 2,1-5)
1 Ciò che Isaia, figlio di Amoz, vide riguardo a Giuda e a Gerusalemme.
2 Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore
sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli;
ad esso affluiranno tutte le genti.
3 Verranno molti popoli e diranno:
“Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri”.
Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.
4 Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli.
Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci;
un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo,
non si eserciteranno più nell’arte della guerra.
5 Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore.
Almeno una volta l’anno gli israeliti dovevano recarsi al tempio di Gerusalemme per partecipare alle feste, offrire sacrifici e sciogliere voti.
Isaia – il profeta nato e cresciuto nell’ambiente aristocratico e colto della capitale – ha osservato ogni giorno gruppi di pellegrini salire al monte del Signore “in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 42,5). Uno spettacolo commovente che ha suscitato nel suo animo sensibile i sogni, le attese e le speranze che ci ha consegnato nel magnifico poema che oggi ci è proposto come prima lettura.
I tempi sono difficili, la situazione è drammatica per il piccolo regno di Giuda aggredito da una coalizione di popoli che lo vogliono coinvolgere in una guerra temeraria contro l’Assiria. L’esercito nemico si avvicina e “il cuore del re Acaz e il cuore del suo popolo cominciarono ad agitarsi, come si agitano i rami del bosco per il vento” (Is 7,2).
Tutti sono sbigottiti, solo Isaia mantiene la calma e invita alla fiducia in Dio: Gerusalemme non sarà conquistata – assicura – poi, come rapito in estasi e con lo sguardo fisso verso un futuro lontano, pronuncia il suo oracolo.
Ecco – dice – vedo il monte del tempio del Signore elevarsi; diviene il punto più alto della terra; scorgo una folla immensa di pellegrini di ogni popolo, razza, lingua e nazione (v. 2) che si dirige verso il santuario. Non va a offrire sacrifici, olocausti e incensi, ma ad ascoltare la parola del Signore, vuole apprendere “le sue vie” (v. 3).
Frutto di questo avvicinarsi al monte del tempio del Signore è la pace, descritta con immagini suggestive (v. 4).
Gli strumenti di morte – le spade e le lance – sono trasformati in mezzi di produzione, in vomeri e in falci.
I popoli distruggono le armi e pongono fine alle guerre. È l’auspicio del disarmo universale, è il regno della giustizia, delle benedizioni di Dio.
Messaggi simili – almeno in apparenza – sono già stati pronunciati. Sono innumerevoli le iscrizioni ritrovate su stele e i testi letterari che celebrano le imprese gloriose dei faraoni e dei sovrani dell’antico medio Oriente: annunciano tutti la pace.
L’ascesa al trono del nuovo re era sempre salutata come l’inizio dell’età dell’oro. Un canto su Ramses IV, in un linguaggio quasi messianico, proclama: “Coloro che avevano fame sono stati saziati e sono allegri, coloro che erano ignudi sono vestiti di lino fine, coloro che erano in prigione sono stati liberati, coloro che litigavano in questo paese, si sono rappacificati”.
Eppure, proprio nel giorno in cui si autoproclamava pacificatore del mondo, il faraone scagliava ritualmente una freccia verso ognuno dei quattro punti cardinali: gesto con cui intendeva terrorizzare chiunque avesse in mente di attaccare il suo paese. Prometteva la pace, ma continuava a ritenerla possibile solo con la minaccia dell’impiego della forza, con l’ostentazione della potenza delle armi.
Isaia annuncia una pace diversa, non basata sulle astuzie, sui calcoli umani, ma sull’adesione di tutti i popoli – convocati nella “città della pace” – alla parola del Signore. Questa parola cambia i cuori; gli uomini che la accolgono cessano di costruire delle Babele e rinunciano per sempre all’aggressività e all’uso delle armi.
I cristiani hanno visto realizzarsi questa profezia quando, in Gesù, è apparsa nel mondo “la Parola” di pace.
Egli “è la nostra pace, è venuto ad annunziare la pace, pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14.17).
Fin dai primi secoli, i giudei hanno però smentito questa interpretazione. Dicevano: Gesù di Nazaret non può essere il messia, il pacificatore annunciato dal profeta, perché il mondo nuovo non è ancora apparso. Non continuano forse gli odi, le violenze, le guerre, le disgrazie, i lutti e i pianti?
L’obiezione è seria, ma nasce da un malinteso. Il regno di Dio, la pace universale non si instaura miracolosamente, senza la collaborazione da parte dell’uomo e si sviluppa lentamente, come il piccolo seme che impiega anni per divenire un grande albero.
Gli “ultimi giorni” di cui parla il profeta (v. 2) sono già iniziati, le sue promesse hanno cominciato a compiersi nel Natale. I Padri della Chiesa dei primi secoli erano ben coscienti di questo.
“Gli altri uomini – dichiarava Origene – continuano ad impugnare la spada, ma noi siamo un popolo che si rifiuta di imparare l’arte della guerra; attraverso Gesù siamo diventati i figli della pace” (Origene, Contra Celsum, V, 33).
Giustino rispondeva al rabbino Trifone: “Sebbene fossimo ben esperti in fatto di guerra, di assassinio e di ogni specie di mali, abbiamo trasformato su tutta la terra i nostri strumenti di guerra: le spade in aratri, le lance in falci; e ora costruiamo il timor di Dio, la giustizia, l’umanità, la fede e la speranza, quella speranza che ci viene dal Padre” (Giustino, Dialogo con Trifone, 110,2s.).
Ireneo era ancora più esplicito: “Ormai non vogliamo più combattere ma, se qualcuno ci colpisce, porgiamo l’altra guancia. Se tutto questo avviene, allora i profeti non hanno parlato di nessun altro che di colui che ha realizzato tutte queste cose: Gesù di Nazareth, il nostro Signore” (Ireneo, Adv. Haer., IV 34,4).
Il mondo di pace si instaurerà certamente, ma la sua costruzione sarà tanto più rapida quanto più decisa sarà la scelta dell’umanità di volgersi a Cristo, di lasciarsi istruire dalla sua parola.
Seconda Lettura (Rm 13,11-14)
Fratelli 11 è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. 12 La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. 13 Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. 14 Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri.
Per descrivere la vita dei cristiani, Paolo ricorre alle immagini bibliche della luce e delle tenebre. Prima del battesimo – dice – essi camminavano nelle tenebre della notte e compivano quelle opere che ci si vergogna di fare alla luce del sole: crapule, gozzoviglie, immoralità, contese… Azioni che offuscano la mente, sclerotizzano il cuore e impediscono di cogliere i giudizi di Dio sulle realtà di questo mondo. Dopo il battesimo le hanno abbandonate e sono entrati nel regno della luce; si sono spogliati del vestito vecchio e hanno indossato l’abito nuovo: Cristo. In loro, oggi, è possibile contemplare le opere, lo sguardo, le parole, il sorriso del Maestro perché sono avvolti della persona di Gesù come di un manto.
Paolo tuttavia constata che le tenebre, anche fra i cristiani, non sono ancora scomparse; è cosciente che una notte cupa grava ancora sul mondo: continuano le guerre, le vendette, le invidie…, ma non si lascia prendere dallo sconforto, come spesso invece accade a noi. Le sue parole sono un invito alla speranza: la notte è già avanzata, anzi, sta per finire; un giorno nuovo sta per sorgere, un’umanità nuova sta per iniziare.
Che fiducia mostra Paolo dopo nemmeno trent’anni di cristianesimo!
Oggi i problemi esistono e sono drammatici. Il mondo sta andando verso il disastro ecologico e demografico – ammoniscono in molti – si assiste ovunque a una perdita di valori… È vero, tuttavia non è possibile, dopo duemila anni di cristianesimo, vedere solo tenebre e guardare in modo così pessimistico al futuro. Già il Qoèlet ammoniva: Non è saggio chi afferma che i tempi antichi erano migliori del presente (Qo 7,10).
Se avessimo lo sguardo dell’Apostolo, se credessimo, come lui, nella presenza dello Spirito, scorgeremmo, anche nei momenti più bui, i segni luminosi del mondo nuovo che è iniziato.
Vangelo (Mt 24,37-44)
Il linguaggio impiegato in questo brano evangelico può dar luogo a interpretazioni stravaganti (o addirittura a farneticazioni) sulla fine del mondo e sui castighi di Dio; può anche essere ridotto all’invito a stare sempre pronti, perché la morte può giungere improvvisa e cogliere impreparati. Queste interpretazioni hanno origine dalla mancata comprensione del genere letterario “apocalittico”, che era molto usato al tempo di Gesù, ma che è piuttosto alieno dalla nostra mentalità e cultura.
Un principio va sempre tenuto presente: il vangelo è, per sua natura, buona notizia, annuncio di gioia e speranza. Chi se ne serve per incutere spavento e per creare angosce – si può esserne certi – lo sta usando in modo scorretto, si è allontanato dal vero significato del testo.
Nel brano di oggi – è vero – i toni sono minacciosi: cataclismi, distruzioni, pericoli di morte. Il linguaggio è volutamente duro ed incisivo, le immagini sono quelle del giudizio punitivo perché Gesù vuole mettere in guardia dal grave pericolo di perdere le opportunità di salvezza che il Signore offre. La negligenza, l’insipienza, la mancanza di attenzione ai segni dei tempi, l’insensibilità spirituale conducono alla catastrofe. Chi perde la testa per le realtà di questo mondo e si lascia assorbire dagli affari, chi vive nel torpore, nell’ottundimento, nella ricerca dei piaceri, va incontro a un drammatico risveglio.
Ma che significano queste immagini? Richiamiamo il contesto da cui il brano è tolto.
Un giorno i discepoli invitano il Maestro ad ammirare la magnifica costruzione del tempio. Invece di condividere il loro giustificato orgoglio, Gesù li sorprende con una profezia: “Vedete tutte queste cose? Vi assicuro: non resterà qui pietra su pietra che non venga diroccata” (Mt 24,2). Gerusalemme che rifiuta di convertirsi sta decretando la propria rovina.
Stupiti, i discepoli gli rivolgono allora due domande: quando accadrà questo e quali saranno i segni premonitori (Mt 24,3).
Invece di soddisfare la loro curiosità, Gesù risponde introducendo un insegnamento che è attuale per gli uomini di ogni tempo: è necessario mantenersi vigilanti. Per chiarire meglio, cita tre esempi.
Il primo è preso da un racconto della Bibbia (Gn 6-9). Al tempo di Noè vivevano due categorie di persone: alcune pensavano unicamente a mangiare, bere e divertirsi; erano impreparate e perirono. Altre erano vigilanti, attente a ciò che poteva accadere, si resero conto che il diluvio si stava avvicinando, si salvarono e diedero inizio ad un’umanità nuova (vv. 37-39).
Come il diluvio giunse all’improvviso, così – dichiara Gesù – giungerà, repentina, la rovina di Gerusalemme. Come al tempo di Noè molti perirono, così anche i giudei che non vorranno riconoscere in lui l’inviato di Dio e non ascolteranno la sua parola, periranno nella catastrofe della città. Coloro invece che avranno gli occhi e il cuore aperto per riconoscere e accogliere il suo messaggio si salveranno e daranno inizio a un nuovo popolo.
Il secondo esempio prende spunto dalle attività che gli uomini e le donne del popolo svolgevano ogni giorno: il lavoro nei campi e la preparazione della farina per fare il pane (vv. 40-41). Proprio mentre si vivono le situazioni più normali e apparentemente più banali, alcuni si mantengono attenti, si comportano da persone sagge e scorgono il Signore che viene. Altri invece sono distratti, sbadati, negligenti e pongono le premesse della loro rovina. Le azioni che compiono sembrano identiche: si impegnano nel lavoro, si guadagnano da vivere, mangiano, bevono, si sposano; è il modo di svolgerle che è radicalmente diverso. Alcuni sono attenti, si lasciano guidare dalla luce di Dio e “vengono presi”, cioè salvati; altri sono sopraffatti dalle preoccupazioni di questo mondo, non tengono presenti i “giudizi di Dio” e “vengono lasciati”, cioè non sono coinvolti nella realtà nuova del regno di Dio.
La decisione da prendere è urgente e drammatica: si tratta di scegliere fra la vita e la morte; per questo Gesù insiste: “Vigilate, perché non sapete in quale giorno il Signore verrà” (v. 42). Vale la pena ripeterlo: Gesù non verrà per la resa dei conti al termine della nostra vita, viene oggi, con il suo giudizio salvifico.
Il terzo esempio è ancora più chiaro: il ladro non avvisa prima di arrivare; per questo il padrone non può assopirsi, neppure un istante, deve mantenersi sveglio, altrimenti rischia di vedersi involare tutti i suoi averi (v. 43).
Sorprendente questo Dio! Si comporta come un ladro e sembra voler approfittare del momento in cui l’uomo è impreparato per venirlo a visitare.
L’immagine forse non è delle migliori perché suggerisce più l’idea della minaccia che della salvezza, ma è efficace; è un campanello d’allarme: richiama l’attenzione sull’incombente pericolo di non accorgersi del momento favorevole, del giorno in cui il Signore viene per coinvolgerci nella sua pace.
Anche gli abitanti di Gerusalemme – intendeva dire Gesù – avrebbero dovuto vigilare per non essere colti di sorpresa dalla tragedia che poi li ha raggiunti. In un’altra occasione Gesù ha espresso così il suo accorato appello: “Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Mt 23,37).
La conclusione finale riprende il tema conduttore del brano e lo applica ai discepoli di ogni tempo: “Anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà” (v. 44).
Sappiamo bene cosa significhi perdere occasioni favorevoli. Tante volte ne abbiamo fatto l’esperienza. Quanto più sono sorprendenti e inattese, quanto più escono dai nostri canoni e si allontanano dai nostri criteri di giudizio, tanto più è facile lasciarsele sfuggire.
Le venute di Dio nella nostra vita sono sempre difficili da cogliere perché non si adeguano alla “saggezza umana”, sono incompatibili, sono in contrasto con la mentalità corrente.
Solo chi è “vigilante” le sa riconoscere e “viene salvato”, qui ed ora.
Per gentile concessione di
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