Novembre si apre con due grandi celebrazioni liturgiche che ne segnano il tono spirituale: la Solennità di Tutti i Santi (1 novembre) e la Commemorazione dei Fedeli Defunti (2 novembre). Questi giorni invitano i credenti a volgere lo sguardo al cielo, ricordando la comunione dei santi e pregando per quanti ci hanno preceduto nella fede. È un tempo di raccoglimento, di preghiera e di riflessione sul mistero della vita e della morte, illuminato dalla speranza cristiana della risurrezione.
Sul piano sociale, novembre segna il passaggio verso l’inverno: le giornate si accorciano, il ritmo rallenta, e la natura si prepara al riposo. È anche un mese di memoria civile — tempo di ricorrenze legate alla pace, al ricordo dei defunti e alla gratitudine — che invita alla solidarietà e alla cura reciproca.
Così, tra silenzio e contemplazione, novembre diventa un mese di memoria, interiorità e speranza, ponte tra la fine dell’anno liturgico e l’attesa dell’Avvento.

3/11 S. MARTINO DE PORRES (1579-1639), fratello coadiutore domenicano, portinaio e infermiere, uomo di preghiera, austerità e carità, patrono della giustizia sociale.

S. Martino de Porres (1579-1639). Fu un frate domenicano peruviano, noto per la sua umiltà, carità e straordinaria dedizione ai poveri e ai malati. Figlio illegittimo di un nobile spagnolo e di una donna afroperuviana, affrontò discriminazioni razziali ma si distinse per la sua vita di servizio, preghiera e miracoli attribuiti alla sua intercessione. È patrono della giustizia sociale, della pace e della fratellanza tra i popoli. Fu canonizzato da papa Giovanni XXIII nel 1962.

3/11 SdD. BERNARDO LONGO (1907-1964), missionario dehoniano fra i pigmei, torturato e ucciso dai ribelli simba.

Bernardo Longo nacque nel 1907 in Italia e, fin da giovane, maturò la vocazione religiosa entrando nella congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, noti come dehoniani. Dopo gli anni di formazione e l’ordinazione sacerdotale, fu destinato alle missioni in Africa centrale, in un territorio allora sotto amministrazione belga, oggi Repubblica Democratica del Congo.
La sua attività missionaria si sviluppò tra le popolazioni pigmee e bantu delle regioni forestali dell’Ituri. Si dedicò soprattutto all’istruzione, all’assistenza sanitaria di base e all’accompagnamento delle comunità locali nella vita quotidiana. Il suo approccio, improntato a una presenza discreta e rispettosa, gli valse la fiducia di molte persone del luogo, nonostante il contesto complesso di tensioni etniche e trasformazioni sociali che stavano investendo il Congo negli anni successivi all’indipendenza del 1960.
Nel 1964, durante l’insurrezione dei Simba, un movimento di ribelli che si oppose al governo centrale con un programma ispirato a ideali anticoloniali e socialisti, le missioni cattoliche divennero bersaglio di violenze diffuse. I missionari europei furono spesso considerati rappresentanti di un potere straniero e, di conseguenza, vittime di rappresaglie.
Bernardo Longo si trovava ancora al suo posto di missione quando la zona fu occupata dai ribelli. Rifiutò di abbandonare la popolazione locale, preferendo condividere la sorte dei suoi collaboratori e dei fedeli. Fu catturato, sottoposto a sevizie e infine ucciso nel 1964, in circostanze che riflettono la brutalità e la confusione di quei mesi di guerra civile.
La sua morte, insieme a quella di altri religiosi e laici, segnò uno degli episodi più drammatici della crisi congolese degli anni Sessanta. Nella memoria delle comunità che aveva servito, Bernardo Longo restò come una figura di riferimento, non tanto per il martirio in sé, quanto per la costanza con cui scelse di restare accanto alle persone affidate alla sua cura in un momento di estrema vulnerabilità.

5/11 S. GUIDO MARIA CONFORTI (1865-1931), fondatore dei Missionari Saveriani.

Guido Maria Conforti nacque a Casalora di Ravadese, presso Parma, nel 1865, in un periodo in cui l’Italia stava ancora definendo la propria identità nazionale e la Chiesa cercava nuovi equilibri nel mondo postunitario. Fin da giovane mostrò una spiccata inclinazione per la vita religiosa e un interesse profondo per la dimensione universale della fede, maturato anche attraverso la lettura di testi che raccontavano le grandi missioni cattoliche del secolo precedente.
Ordinato sacerdote nel 1888, Conforti si trovò ben presto a confrontarsi con le sfide pastorali e sociali di un Paese in trasformazione. L’industrializzazione incipiente, le tensioni politiche e il distacco crescente tra Chiesa e società civile fecero emergere in lui la convinzione che la risposta della Chiesa dovesse essere non solo pastorale, ma anche culturale e universale.
Nel 1895 fondò a Parma la congregazione dei Missionari di San Francesco Saverio per le Missioni Estere — comunemente noti come Saveriani — con lo scopo di formare sacerdoti e religiosi destinati all’evangelizzazione dei non cristiani, in particolare in Asia. La Cina divenne ben presto la principale destinazione dei primi missionari saveriani, che partirono nel 1899, in un contesto non privo di difficoltà politiche e culturali, segnato dalla complessa interazione tra tradizione locale, colonialismo occidentale e presenza religiosa straniera.
Conforti guidò l’istituto con equilibrio e determinazione, curando la preparazione culturale dei missionari e insistendo sulla necessità di comprendere e rispettare le civiltà con cui entravano in contatto. Il suo approccio, più attento al dialogo e alla testimonianza che alla mera conversione, lo colloca tra i precursori di una sensibilità missionaria più moderna, orientata all’incontro tra culture.
Nel 1902 fu nominato vescovo di Ravenna, ma rinunciò presto all’incarico per motivi di salute. Pochi anni dopo, nel 1907, fu trasferito alla sede episcopale di Parma, che resse fino alla morte. In quel ruolo, oltre all’impegno pastorale, continuò a seguire con attenzione le vicende della congregazione e delle missioni saveriane, mantenendo contatti regolari con le comunità cinesi e incoraggiandone lo sviluppo anche in altre regioni del mondo.
Morì a Parma nel 1931, lasciando un’eredità che si estese ben oltre i confini della sua diocesi. La sua figura rimase legata all’idea di una Chiesa aperta al mondo e consapevole della propria dimensione universale, capace di guardare alle culture lontane non come a territori da conquistare, ma come spazi di incontro e di scambio.

5/11 Ricordo di Alexandre de Rhodes (1591-1660), gesuita francese, uno dei più noti evangelizzatori del Vietnam.

Il 5 novembre si ricorda Alexandre de Rhodes, gesuita francese nato ad Avignone nel 1591, figura di rilievo nella storia delle missioni cattoliche in Asia e, in particolare, in Vietnam. Entrato nella Compagnia di Gesù agli inizi del Seicento, de Rhodes fu inviato in Oriente in un periodo in cui l’espansione europea nel continente asiatico favoriva anche la diffusione del cristianesimo. Dopo un primo periodo trascorso in missione in Persia, giunse nella regione dell’attuale Vietnam attorno al 1620, operando inizialmente a Cochinchina e successivamente nel Tonchino.
Durante il suo soggiorno in quelle terre, de Rhodes si dedicò non solo alla predicazione, ma anche allo studio approfondito della lingua e della cultura locali. La sua maggiore eredità non risiede tanto nell’attività pastorale, quanto nell’elaborazione di un sistema di trascrizione della lingua vietnamita in caratteri latini, basato su lavori precedenti di missionari portoghesi ma da lui rielaborato e sistematizzato. Questo sistema, che sarebbe poi divenuto l’attuale alfabeto vietnamita, rappresentò un ponte decisivo fra la tradizione letteraria indigena e l’influenza culturale occidentale.
La sua azione missionaria si svolse in un contesto difficile, segnato da diffidenze politiche e religiose. Dopo anni di predicazione e viaggi, de Rhodes fu espulso dalle autorità locali e fece ritorno in Europa. Nei decenni successivi cercò di promuovere la creazione di un clero indigeno e la fondazione di missioni sostenute direttamente dalla Santa Sede, indipendenti dal controllo coloniale portoghese. I suoi sforzi contribuirono alla nascita delle Missioni Estere di Parigi, che avrebbero avuto un ruolo importante nella diffusione del cristianesimo in Asia.
Alexandre de Rhodes morì a Isfahan, in Persia, nel 1660, dopo una vita trascorsa tra viaggi, studi linguistici e attività missionaria. La sua figura rimane legata al momento in cui l’incontro tra Europa e Asia generò nuove forme di scambio culturale, ma anche tensioni religiose e politiche che avrebbero segnato la storia dei secoli successivi.

7/11 SdD. FRANCIS MICHAEL DUFF (1889-1980), irlandese, laico sposato, fondatore della Legione di Maria (1921).

Francis Michael Duff nacque in Irlanda nel 1889, in un contesto sociale e religioso profondamente segnato dalle tensioni del suo tempo. Fin da giovane mostrò una viva sensibilità per la vita spirituale e per le questioni sociali che attraversavano la sua patria. La sua formazione avvenne in un ambiente cattolico fervente ma anche aperto alle sfide della modernità, un equilibrio che avrebbe caratterizzato tutta la sua opera futura.
Sposato e impegnato nella vita civile, Duff non intraprese la via sacerdotale, ma scelse di vivere la propria fede nella dimensione laicale, convinto che il Vangelo potesse trovare piena espressione anche nelle strutture ordinarie dell’esistenza quotidiana. Nel 1921, in un periodo di forti trasformazioni per l’Irlanda e per la Chiesa, fondò a Dublino la Legione di Maria, un movimento di laici che intendeva unire la preghiera a un impegno attivo e concreto nella vita della comunità. L’iniziativa nacque in modo semplice, ma con una visione chiara: favorire una partecipazione più profonda dei fedeli alla missione della Chiesa, non solo attraverso la devozione, ma mediante un servizio diretto e perseverante verso i poveri, i lontani e i non credenti.
Sotto la sua guida, la Legione di Maria si diffuse rapidamente oltre i confini irlandesi, trovando terreno fertile in diversi continenti. Duff concepiva il movimento non come un’associazione chiusa, ma come una realtà dinamica capace di dialogare con culture differenti, mantenendo al centro la dignità della persona e la chiamata universale alla fede. Il suo spirito organizzativo e la sua visione ecclesiale contribuirono a delineare una nuova figura di laico impegnato, capace di coniugare contemplazione e azione.
Nel corso della sua lunga vita, Duff continuò a seguire con attenzione lo sviluppo della Legione, sostenendone la diffusione e promuovendo una formazione che unisse semplicità evangelica e rigore spirituale. Morì nel 1980, lasciando un’eredità che avrebbe continuato a influenzare il laicato cattolico in molte parti del mondo. La sua esistenza rappresenta un esempio di come l’iniziativa personale, nutrita da fede e intelligenza, possa generare movimenti duraturi e capaci di incidere profondamente nella vita ecclesiale e sociale del Novecento.

11/11 S. MARTINO DI TOURS (316-397), evangelizzatore della Francia rurale, con fama di taumaturgo, uno dei primi ‘santi non martiri’.

L’11 novembre la memoria di Martino di Tours riporta alla figura di un uomo che visse nel IV secolo, in un’epoca di transizione tra il mondo romano e la nuova civiltà cristiana. Nato in Pannonia intorno al 316, crebbe in un contesto ancora profondamente pagano, ma già attraversato dalle prime correnti del cristianesimo. Destinato inizialmente alla carriera militare, Martino intraprese il cammino delle armi sotto l’Impero, esperienza che segnò il primo tratto della sua vita e che, secondo la tradizione, lasciò presto per seguire una vocazione più alta, dedicata alla pace e alla fede.
Stabilitosi in Gallia, trovò in essa la sua terra d’adozione e il teatro della sua missione. In un’epoca in cui le città iniziavano ad accogliere la nuova religione, Martino rivolse la sua attenzione alle campagne, dove il cristianesimo faticava ancora a radicarsi. Attraverso la predicazione e l’esempio, percorse villaggi e borghi, abbattendo simboli del culto antico e fondando luoghi di preghiera. La sua opera contribuì in modo decisivo alla diffusione del cristianesimo nelle campagne galliche, tanto da farlo considerare uno dei grandi evangelizzatori della Francia rurale.
La fama di Martino crebbe durante la sua vita, alimentata da episodi che il popolo lesse come segni di potere spirituale e di guarigione. Divenuto vescovo di Tours, mantenne tuttavia uno stile di vita sobrio e itinerante, più vicino alla semplicità monastica che alla dignità episcopale. La sua figura, unita alla forza della sua predicazione, incarnò un nuovo modello di santità: non più fondata sul martirio, ma sulla testimonianza quotidiana, sulla carità e sulla dedizione alle comunità affidate alla sua cura.
Morì nel 397, lasciando dietro di sé un’eredità profonda. Nei secoli, il suo nome rimase legato alla trasformazione spirituale dell’Occidente cristiano e al volto umano di una fede che si radicava nella vita del popolo. Il giorno a lui dedicato divenne non solo una ricorrenza liturgica, ma anche un simbolo del passaggio tra stagioni, della carità concreta e della luce che si rinnova nel cuore dell’inverno.

11/11 B. MARIA DELLA PASSIONE (1839-1904), religiosa francese, missionaria in India, fondatrice delle Francescane missionarie di Maria (Fmm).

L’11 novembre la memoria liturgica richiama la figura di Maria della Passione, al secolo Elena de Chappotin de Neuville, nata in Francia nel 1839 in una famiglia nobile e profondamente cristiana. Fin da giovane mostrò una viva sensibilità spirituale e un forte desiderio di dedicarsi a Dio, ma il suo cammino non fu immediato né lineare. Dopo un periodo di ricerca interiore e di discernimento, segnato anche da esperienze di dolore e di solitudine, trovò la propria via nella vita religiosa, entrando tra le clarisse. Tuttavia, un profondo senso di chiamata alla missione la spinse a uscire dai confini di un’esistenza contemplativa per aprirsi al mondo.
Nel clima fervido dell’Ottocento cattolico, animato da nuove energie missionarie, Elena maturò la convinzione che la vita religiosa potesse essere anche un ponte tra culture e popoli lontani. Assunse il nome di Maria della Passione e, dopo un periodo trascorso in Asia, fondò la congregazione delle Francescane Missionarie di Maria. L’opera nacque con l’intento di unire la spiritualità francescana alla dedizione universale per l’annuncio del Vangelo, con particolare attenzione ai poveri, agli ammalati e alle donne.
L’India divenne il centro della sua azione apostolica e il luogo in cui la sua visione prese forma concreta. Qui, tra difficoltà, incomprensioni e malattie, la fondatrice mostrò una determinazione fuori dal comune. Le missionarie che la seguirono portarono lo spirito francescano in molte regioni del mondo, vivendo la fraternità come linguaggio universale e la missione come gesto di pace.
Maria della Passione morì nel 1904, lasciando dietro di sé una famiglia religiosa ormai diffusa nei cinque continenti. La sua vita, segnata da fede profonda e coraggio visionario, rappresenta una delle espressioni più luminose del dinamismo missionario femminile dell’età moderna, capace di coniugare contemplazione e azione, radici europee e orizzonti universali.

16/11 Giornata mondiale dei Poveri, istituita da Papa Francesco (2016).

La Giornata Mondiale dei Poveri è stata istituita da Papa Francesco nel 2016, con l’intento di richiamare l’attenzione sulla povertà e sull’importanza della solidarietà. Si celebra ogni anno nella XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, che precede la solennità di Cristo Re. Questa giornata è un’opportunità per riflettere su come la povertà sia al centro del messaggio evangelico e per incoraggiare le comunità a impegnarsi attivamente nella lotta contro la povertà.
Vedi il messaggio del Papa per questa Giorna – Tema: Sei tu, mio Signore, la mia speranza (Sal 71,5)

16/11 Ss. Rocco González de Santa Cruz (1576-1628), paraguayano, Alfonso Rodríguez (1599-1628), spagnolo, e Giovanni del Castillo (1595-1628), spagnolo, martiri gesuiti, uccisi nelle reducciones del Paraguay per il loro impegno missionario nella difesa e promozione degli indigeni. Il film Mission (1986) ne ha riprodotto l’epopea.

Nel cuore del Sud America del Seicento, tra le foreste e i fiumi che segnavano il vasto territorio del Paraguay, prese forma una delle esperienze più singolari della storia missionaria e coloniale: le reducciones, villaggi organizzati dai gesuiti in cui le popolazioni indigene potevano vivere secondo un modello comunitario che coniugava la fede cristiana con il rispetto delle proprie tradizioni e autonomie. In questo scenario operarono Rocco González de Santa Cruz, nativo del Paraguay, e due gesuiti spagnoli, Alfonso Rodríguez e Giovanni del Castillo.
Rocco, cresciuto nella stessa terra che poi sarebbe divenuta il campo della sua missione, portava in sé una profonda conoscenza del mondo guaraní e un sincero desiderio di costruire un futuro in cui i popoli locali potessero essere protagonisti della propria storia. A lui si unirono Rodríguez e del Castillo, giovani religiosi venuti dalla Spagna con l’entusiasmo e la determinazione di chi vede nella fede anche un impegno civile e umano. Insieme percorsero i territori dell’alto Paraná e dell’Uruguay, fondando comunità, educando, traducendo la lingua, organizzando la vita quotidiana secondo principi di solidarietà e mutuo rispetto.
Il loro operato, tuttavia, incontrò resistenze violente. Le reducciones, con la loro struttura autonoma e il rifiuto delle logiche di sfruttamento imposte dai coloni, apparivano come una minaccia agli interessi economici e al dominio di chi vedeva negli indigeni solo manodopera o ostacolo. Le tensioni crebbero fino a culminare, nel 1628, in un’ondata di ostilità che travolse i tre missionari. In luoghi diversi ma in circostanze analoghe, Rocco González, Alfonso Rodríguez e Giovanni del Castillo furono uccisi da coloro che temevano il potere trasformativo del loro lavoro e l’unità che le comunità gesuitiche rappresentavano.
La loro morte segnò la fine di un capitolo, ma non spense l’eredità delle reducciones, che continuarono a esistere ancora per più di un secolo come testimonianza di un incontro possibile tra culture, spiritualità e giustizia sociale. Secoli dopo, il cinema ha rievocato quell’epopea con immagini di straordinaria potenza: nel film Mission del 1986, la grandezza e la tragedia di quelle comunità rivivono come simbolo della tensione eterna tra idealismo e potere, tra fede e violenza, tra il sogno di una società giusta e le forze che cercano di distruggerlo.

16/11 Ricordo di SEGUNDO MONTES e 5 compagni gesuiti, detti “martiri dell’Uca” (Università Centroamericana), uccisi nel 1989 a San Salvador (El Salvador).

Il 16 novembre 1989, a San Salvador, l’alba si levò su una città lacerata dalla guerra civile. Nelle ore precedenti, un commando militare era entrato nel campus dell’Università Centroamericana “José Simeón Cañas”, trascinando con sé la violenza e la paura che da anni dominavano il Paese. In quella notte, furono assassinati sei gesuiti — tra loro Segundo Montes, insieme a Ignacio Ellacuría, Ignacio Martín-Baró, Juan Ramón Moreno, Amando López e Joaquín López y López — insieme a Elba Ramos, collaboratrice della comunità universitaria, e a sua figlia adolescente, Celina.
Segundo Montes, sociologo e docente, era noto per il suo impegno nella difesa dei diritti dei rifugiati e degli sfollati interni, testimoni di un El Salvador diviso tra repressione e speranza. Accanto a lui, i suoi compagni di comunità condividevano la stessa convinzione: che la conoscenza e la ricerca potessero essere strumenti di giustizia e di pace. L’università in cui vivevano e lavoravano era divenuta uno dei pochi spazi di libertà critica, e per questo considerata una minaccia da chi voleva mettere a tacere ogni voce di dissenso.
La loro uccisione non fu un atto isolato, ma il riflesso di un conflitto che da anni devastava il Paese, in cui l’intellettuale e il pensatore erano spesso percepiti come nemici. Quella notte del novembre 1989 segnò uno dei momenti più oscuri della storia salvadoregna, ma anche uno spartiacque nella coscienza collettiva: le vittime dell’UCA divennero simbolo di un sapere che non si piega alla violenza, di un impegno civile che non arretra davanti alla minaccia.
Oggi il ricordo di Segundo Montes e dei suoi compagni rimane legato a quell’aula universitaria e a quel giardino dove caddero, ma soprattutto alla memoria di un Paese che continua a cercare la verità e la giustizia. Le loro vite, intrecciate con la storia dell’El Salvador contemporaneo, continuano a evocare la forza silenziosa di chi scelse di restare accanto al proprio popolo, anche quando la paura suggeriva di fuggire.

16/11 GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA TOLLERANZA, dichiarata dall’Unesco (1995).

Il 16 novembre di ogni anno si celebra la Giornata Internazionale della Tolleranza, istituita dall’UNESCO nel 1995 per richiamare l’attenzione sul valore universale del rispetto reciproco tra individui e popoli. Questa ricorrenza nacque in un momento storico segnato da profondi mutamenti globali, quando la fine delle contrapposizioni ideologiche del Novecento non portò automaticamente alla pace, ma mise in luce nuove tensioni etniche, religiose e culturali.
La Giornata della Tolleranza si inserisce in un percorso più ampio di riflessione sull’idea di convivenza civile. Essa non si limita a proporre un atteggiamento di sopportazione passiva delle differenze, ma richiama alla consapevolezza che la diversità è parte integrante della condizione umana. In ogni epoca, l’umanità ha conosciuto il conflitto tra chi teme ciò che è diverso e chi, al contrario, vi scorge una possibilità di crescita. La tolleranza nasce proprio da questo conflitto e rappresenta la scelta consapevole di mantenere aperto il dialogo, di anteporre la comprensione alla paura.
Nel corso degli anni, il 16 novembre è divenuto un’occasione per ricordare che la tolleranza non è un dono spontaneo, ma una pratica che si costruisce con l’educazione, la memoria e la responsabilità. È un esercizio quotidiano che attraversa le istituzioni, la cultura e la vita privata, chiamando ciascuno a riconoscere la dignità dell’altro come fondamento della propria libertà.
Così, ogni anno, questa data invita le società a interrogarsi sul loro grado di apertura e sulla capacità di trasformare la diversità in un elemento di coesione piuttosto che di divisione. In un mondo ancora attraversato da disuguaglianze e intolleranze di vario genere, la celebrazione del 16 novembre assume il valore di un monito e di una speranza: ricordare che la pace non è soltanto assenza di guerra, ma il risultato di una convivenza costruita con rispetto, ascolto e giustizia.

20/11 Giornata internazionale per i DIRITTI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA (ONU 1989).

Il 20 novembre si celebra la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, una data che richiama alla memoria un momento cruciale della storia recente, quando la comunità internazionale riconobbe ufficialmente che i bambini e i ragazzi non sono soltanto soggetti da proteggere, ma persone titolari di diritti propri. In quella giornata del 1989, le Nazioni Unite approvarono la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, frutto di un lungo percorso di riflessione e di confronto tra culture, governi e sensibilità diverse.
Da allora, il 20 novembre è diventato un’occasione per rinnovare l’impegno verso le nuove generazioni, ricordando che il benessere dei bambini riflette la qualità morale, civile e sociale di ogni comunità. È un giorno che invita a guardare al mondo con gli occhi dei più piccoli, a interrogarsi su quanto realmente le promesse di tutela, educazione, salute, ascolto e partecipazione trovino spazio nella vita quotidiana di ciascun paese.
Nel corso degli anni, questa ricorrenza ha assunto un valore simbolico e concreto insieme: simbolico, perché ricorda l’universalità dell’infanzia come patrimonio comune dell’umanità; concreto, perché richiama all’azione — nelle scuole, nelle istituzioni, nelle famiglie — affinché nessun bambino sia privato delle opportunità di crescere in dignità, sicurezza e libertà.
Ogni 20 novembre, dunque, la memoria del passato si intreccia con l’urgenza del presente. È un giorno che invita a non dare per scontato ciò che è stato conquistato, ma a continuare a costruire una società capace di riconoscere in ogni bambino e adolescente non un destinatario di carità, bensì un protagonista del proprio futuro e di quello collettivo.

21/11 Festa della Presentazione della B. V. Maria al tempio, GIORNATA PRO ORANTIBUS, istituita da Pio XII (1953) per pregare per le religiose e i religiosi di clausura.

Il 21 novembre la tradizione cristiana celebra la Presentazione della Beata Vergine Maria al tempio, memoria che affonda le sue radici nei primi secoli della Chiesa e che nel corso del tempo ha assunto un valore simbolico profondo. La narrazione, che non si trova nei testi canonici ma nella pietà popolare antica, racconta di Maria, ancora fanciulla, condotta dai genitori al tempio di Gerusalemme per essere offerta al Signore. Questo gesto è stato interpretato come segno della sua totale disponibilità al disegno divino, una consacrazione silenziosa che anticipa la piena adesione della giovane donna al mistero dell’Incarnazione.
Nel corso dei secoli, la ricorrenza ha evocato il tema della dedizione e della vita nascosta, del servizio silenzioso che si compie lontano dagli sguardi del mondo. È in questo spirito che nel 1953 papa Pio XII volle istituire, nella stessa data, la Giornata pro Orantibus, dedicata alla preghiera per le religiose e i religiosi di clausura. La scelta non fu casuale: il legame tra la Presentazione di Maria e la vita contemplativa esprime la stessa tensione interiore verso Dio, la stessa disponibilità a un’esistenza spesa nella discrezione e nel raccoglimento.
Da allora, ogni anno, la giornata del 21 novembre diventa occasione per ricordare quelle comunità che, nel silenzio dei monasteri, sostengono la Chiesa con la loro preghiera costante. È un momento per riconoscere la presenza nascosta ma essenziale di chi ha scelto la via della contemplazione, e per intrecciare idealmente il gesto antico della fanciulla Maria con la vita quotidiana di tanti uomini e donne che, come lei, offrono sé stessi nell’intimità del rapporto con Dio.

23/11 Solennità di Nostro Signore GESÙ CRISTO, RE DELL’UNIVERSO.

Nel calendario liturgico del 23 novembre 2025 si celebra la Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo, festa che conclude l’anno liturgico e apre lo sguardo sul mistero della signoria di Cristo sul tempo e sulla storia. Nata nel XX secolo come risposta ai mutamenti del mondo moderno, questa ricorrenza è divenuta progressivamente un momento di riflessione profonda sulla natura del potere e sulla dimensione spirituale della regalità.
In questa domenica, la Chiesa contempla Cristo non come un sovrano secondo le logiche terrene, ma come colui che regna dal legno della croce, un re che non impone, ma serve; che non domina, ma riconcilia. È la figura del Messia che trasforma la forza in misericordia e la vittoria in dono di sé, mostrando che la vera grandezza non risiede nel possesso o nella conquista, ma nella capacità di amare fino alla fine.
La liturgia, posta alla soglia dell’Avvento, assume così un tono di compimento e insieme di attesa. L’anno ecclesiale si chiude con un’immagine di pienezza: tutto ciò che è stato vissuto nella sequenza delle domeniche e delle feste trova in questa celebrazione la sua sintesi. Cristo appare come il punto d’arrivo della storia umana e il principio di un tempo nuovo, in cui ogni cosa tende a ritrovare il proprio senso in lui.
L’annuncio di questa regalità universale attraversa i secoli come un messaggio di speranza. In un mondo attraversato da conflitti, disuguaglianze e poteri effimeri, la festa di Cristo Re invita a guardare oltre le apparenze, a riconoscere che la sovranità di Dio si manifesta nei gesti umili, nella compassione, nella ricerca della giustizia e della pace. È una proclamazione che non pretende trionfi esteriori, ma che chiama ciascuno a partecipare interiormente a un regno fondato sulla verità e sull’amore.
Così, il 23 novembre 2025, mentre l’anno liturgico giunge al suo tramonto, la comunità cristiana si raccoglie per celebrare un mistero che non appartiene al passato, ma continua a rinnovare il presente: la signoria di Cristo sul mondo e sul cuore dell’uomo, promessa di una creazione riconciliata e di un’umanità finalmente libera.

23/11 S. COLOMBANO, ABATE (+615), nato in Irlanda, missionario itinerante in Francia, Svizzera e Italia, fondatore di numerosi monasteri.

Colombano nacque in Irlanda verso la metà del VI secolo, in un tempo in cui l’isola era divenuta un centro vivace di vita monastica e di cultura cristiana. Fin da giovane si sentì attratto dalla vita religiosa e, dopo un periodo di formazione, si ritirò in monastero, dove maturò una profonda disciplina interiore e un forte desiderio di missione. L’Irlanda di quei secoli era animata da una spiritualità intraprendente, e non era raro che monaci lasciassero la propria terra per portare il messaggio cristiano in regioni lontane dell’Europa ancora segnate dal crollo dell’Impero romano e dalle invasioni barbariche.
Colombano decise di intraprendere quel cammino di peregrinatio, considerandosi un viandante per Dio. Attraversò il mare e giunse in Gallia, dove trovò un mondo diviso tra la nobiltà franca e la popolazione rurale, spesso ancora legata a tradizioni pagane. Qui fondò i primi monasteri, luoghi di preghiera e di lavoro che divennero centri di rinnovamento spirituale e culturale. La sua figura, austera e carismatica, attirò numerosi discepoli, ma anche l’ostilità di alcuni potenti, poiché non esitava a richiamare i principi e i vescovi alla coerenza morale.
Costretto a lasciare la Francia, Colombano proseguì il suo viaggio verso est, attraversando le regioni dell’attuale Svizzera. Lì continuò la sua opera di predicazione, portando un cristianesimo rigoroso, radicato nel silenzio e nella regola monastica. Infine, giunse nella penisola italiana, dove trovò accoglienza presso la corte longobarda. Si stabilì a Bobbio, tra le valli dell’Appennino, e vi fondò un monastero destinato a diventare un faro di spiritualità e cultura per i secoli successivi.
Morì nel 615, dopo una vita interamente spesa nel cammino e nella fondazione di comunità monastiche. La sua opera lasciò un’impronta profonda nella storia europea, contribuendo a diffondere un modello di vita religiosa che univa il rigore irlandese all’organizzazione latina, e trasformando i monasteri in centri di fede, di studio e di civiltà.

23/11 B. MIGUEL AGUSTÍN PRO (1891-1927), martire gesuita messicano durante la persecuzione contro la Chiesa.

Nel Messico dei primi decenni del Novecento, attraversato da profonde tensioni sociali e politiche, la figura di Miguel Agustín Pro si staglia come emblema della fede vissuta in tempi di persecuzione. Nato nel 1891 in una famiglia numerosa e profondamente religiosa, crebbe in un ambiente segnato da una religiosità semplice e vitale. Il suo carattere, vivace e ironico, si univa a una sensibilità attenta ai poveri e agli ultimi. Entrato nella Compagnia di Gesù, dovette presto lasciare il Paese a causa delle leggi anticlericali, trovando rifugio e formazione in Europa. Gli anni di esilio lo temprarono, ma non spensero il desiderio di tornare tra la sua gente, in un Messico che nel frattempo era diventato un campo di scontro tra il potere politico e la Chiesa.
Rientrato in patria, trovò un clima di repressione e sospetto. Le autorità avevano vietato il culto pubblico, costringendo i sacerdoti a muoversi nell’ombra. Miguel visse quel tempo come una missione clandestina, cambiando spesso aspetto e nome per poter celebrare la Messa, ascoltare confessioni e portare conforto ai fedeli. In mezzo ai pericoli conservò un animo sereno, animato da un’ironia leggera che disarmava la paura. La sua azione pastorale divenne un segno di resistenza silenziosa contro un potere che voleva cancellare la fede dalla vita quotidiana.
Nel 1927, in seguito a un attentato contro il presidente, venne accusato ingiustamente di complicità e arrestato. Nonostante l’assenza di prove, la condanna a morte fu decisa rapidamente, come monito per chiunque osasse sfidare le leggi anticlericali. Il 23 novembre affrontò il plotone d’esecuzione con calma e dignità, pregando e perdonando i suoi carnefici. Le autorità diffusero le fotografie della sua morte per intimorire la popolazione, ma l’effetto fu opposto: quelle immagini fecero di lui un simbolo di libertà interiore e di fede incrollabile.
La sua vicenda rimase impressa nella memoria collettiva come una delle più intense testimonianze del conflitto tra coscienza religiosa e potere politico nel Messico contemporaneo. Miguel Agustín Pro divenne, al di là di ogni interpretazione devozionale, il segno di un’umanità capace di resistere con coraggio e dignità di fronte alla violenza della storia.

26/11 Memoria del Card. CHARLES LAVIGERIE (1825-1892), vescovo francese di Algeri (Algeria), fondatore dei Missionari d’Africa (Padri bianchi).

Il 26 novembre la memoria del cardinale Charles Lavigerie riporta alla figura di un uomo che seppe unire lo zelo pastorale alla visione ampia e concreta di un’epoca di profondi mutamenti. Nato in Francia nel 1825, visse gli anni in cui l’Europa guardava all’Africa con sentimenti contrastanti di curiosità, ambizione e dominio. Lavigerie, formatosi come sacerdote e studioso, scelse di legare la propria vita non alle aule universitarie o ai circoli ecclesiastici, ma alla frontiera viva della missione.
Nel 1867 fu nominato arcivescovo di Algeri, in un territorio allora attraversato da tensioni politiche e culturali. Egli comprese che l’annuncio del Vangelo in quelle terre non poteva limitarsi alle parole, ma doveva farsi gesto di prossimità e di servizio. Fondò così la Società dei Missionari d’Africa, più noti come “Padri Bianchi” per il colore del loro abito, volendo creare una comunità di religiosi capaci di condividere la vita e la lingua dei popoli africani, rispettandone le tradizioni e accompagnandone il cammino umano e spirituale.
Nel tempo, Lavigerie divenne una figura di riferimento anche fuori dall’ambito ecclesiale. La sua voce si levò con forza contro la schiavitù, che egli considerava una ferita aperta nella coscienza del mondo. La sua azione, tanto pastorale quanto civile, contribuì a risvegliare nell’opinione pubblica europea la consapevolezza di una responsabilità morale verso l’Africa e verso i popoli soggetti a ingiustizia.
Cardinale dal 1882, continuò a servire con lo stesso ardore fino alla morte, avvenuta nel 1892. La sua eredità rimane legata non solo alle opere fondate e ai missionari che ne continuarono lo spirito, ma soprattutto alla convinzione che la fede potesse tradursi in incontro, rispetto e difesa della dignità di ogni essere umano.

26/11 Memoria di JOSEPH-PIERRE WITTEBOLS (1912-1964), dehoniano belga, vescovo missionario di Wamba (Rep dem. del Congo), ucciso durante la ribellione dei simba.

Il 26 novembre la memoria riporta alla figura di Joseph-Pierre Wittebols, religioso dehoniano belga nato nel 1912, che legò indissolubilmente la propria vita alla terra africana del Congo. Dopo gli anni di formazione e l’ingresso nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore, Wittebols maturò una profonda vocazione missionaria, che lo spinse verso le regioni più remote dell’allora Congo Belga, dove la Chiesa cercava di costruire non solo strutture pastorali, ma anche percorsi di educazione, assistenza e promozione umana.
Con lo stesso spirito di dedizione che aveva segnato il suo ministero sacerdotale, egli accettò, nel dopoguerra, la nomina a vescovo di Wamba, una diocesi vasta e difficile, situata nel cuore della foresta equatoriale. La sua opera si distinse per un’instancabile attenzione alla formazione dei catechisti, alla crescita delle comunità locali e alla costruzione di un dialogo tra la fede cristiana e le tradizioni del popolo congolese.
Gli anni Sessanta portarono con sé un vento di cambiamento. L’indipendenza del Congo, proclamata nel 1960, fu seguita da un periodo di profonda instabilità politica e sociale. Le tensioni sfociarono in rivolte diffuse, tra cui quella dei simba, che nel 1964 sconvolse le province orientali del Paese. In quei mesi di violenza e paura, molti missionari e civili furono presi di mira come simboli di un passato coloniale ormai rifiutato.
Monsignor Wittebols, pur consapevole del pericolo imminente, scelse di non abbandonare la sua diocesi. Restò accanto alla popolazione, condividendone l’incertezza e la sofferenza. Fu in quel contesto che trovò la morte, ucciso nel 1964 durante la ribellione. La sua fine, segnata dal caos di un’epoca di transizione, divenne il sigillo di una vita spesa interamente per il servizio e la vicinanza al popolo che aveva scelto come sua famiglia spirituale.
La memoria del 26 novembre, dunque, non rievoca soltanto la morte di un vescovo missionario, ma la testimonianza di un uomo che, nel crocevia drammatico della storia congolese, incarnò fino all’ultimo la fedeltà alla sua missione e la solidarietà verso un popolo in cammino verso la libertà.

26/11 ADOLFO PÉREZ ESQUIVEL (n. 1931, Argentina), artista e scrittore, promotore dei diritti umani con la nonviolenza, Nobel per la pace (1980).

Il 26 novembre si ricorda Adolfo Pérez Esquivel, nato nel 1931 in Argentina, figura emblematica del Novecento latinoamericano. Artista e scrittore, seppe intrecciare la forza della creatività con l’impegno civile, ponendo la nonviolenza al centro della sua azione. In un’epoca segnata dalla repressione e dal silenzio imposto dalla dittatura militare, la sua voce si levò come richiamo alla dignità umana, alla solidarietà e alla giustizia sociale.
Con la calma e la fermezza di chi crede nella potenza della parola e dell’arte, Pérez Esquivel si fece interprete delle sofferenze di un popolo oppresso, denunciando le violazioni dei diritti fondamentali e sostenendo la resistenza pacifica. Le sue iniziative, radicate nel tessuto popolare e nella convinzione che la pace non si impone ma si costruisce, gli valsero nel 1980 il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace.
La sua vita testimonia un cammino coerente e ostinato, in cui l’arte si fa strumento di libertà e la nonviolenza diventa una forma di lotta capace di restituire dignità a chi ne è stato privato. Ancora oggi, la sua storia rappresenta un esempio di impegno civile che attraversa i confini e le generazioni, ricordando come la giustizia e la pace non siano conquiste definitive, ma orizzonti da inseguire con coraggio e speranza.

30/11 S. ANDREA, apostolo.

Il 30 novembre la tradizione cristiana ricorda la figura di Andrea, uno dei dodici apostoli. Nato in Galilea, sulle rive del lago di Tiberiade, era un pescatore come suo fratello Pietro. Entrambi vivevano di un mestiere semplice, scandito dai ritmi del vento e delle acque, in un mondo in cui il mare era insieme risorsa e minaccia.
Andrea, secondo le narrazioni più antiche, fu tra i primi a seguire Gesù, attratto dal suo linguaggio diretto e dal richiamo a una vita nuova. La sua scelta segnò il distacco da una quotidianità fatta di reti e barche, per abbracciare un cammino incerto, percorso tra villaggi e strade polverose della Palestina. Con altri compagni partecipò alla predicazione, assistette ai gesti e alle parole che avrebbero dato origine a una nuova comunità di credenti.
Dopo la morte di Gesù, Andrea sarebbe partito verso regioni lontane, spinto dall’intento di diffondere il messaggio appreso. Le tradizioni lo collocano in diverse terre del Mediterraneo e dell’Oriente, testimone di un cristianesimo nascente che si diffondeva lungo le vie commerciali e le coste del mare.
Il suo nome, legato alla fermezza e al coraggio, divenne nel tempo simbolo di una fede che si esprime nella sequela e nel servizio silenzioso. Nelle rappresentazioni artistiche, Andrea appare spesso con la croce che la tradizione associa al suo martirio, elemento che nel corso dei secoli ha assunto un valore emblematico.
La memoria liturgica del 30 novembre non è soltanto un ricordo personale, ma segna anche l’inizio di un periodo di attesa: nelle Chiese d’Oriente come in quelle d’Occidente, la festa di Andrea annuncia l’avvicinarsi dell’Avvento e il ritorno ciclico del tempo della speranza.

30/11 I Domenica di AVVENTO.

Il 30 novembre 2025 segna l’inizio del tempo liturgico dell’Avvento, periodo che apre l’anno liturgico e introduce i fedeli alla celebrazione del Natale. Con l’Avvento si rinnova il senso dell’attesa, non solo come memoria della nascita di Cristo, ma come tensione verso un compimento ancora da venire. Le chiese si spogliano dei segni festosi, i colori si fanno più sobri, le luci più misurate. Nell’aria si avverte una quieta vigilanza, un invito alla riflessione interiore e alla speranza.
Nel corso dei secoli, questo tempo ha assunto un significato che unisce la dimensione storica e quella spirituale: da un lato la preparazione concreta alla festa, dall’altro la consapevolezza del cammino umano verso la pienezza della promessa. Le settimane che lo compongono scandiscono un percorso che va dalla profezia all’annuncio, dalla penombra dell’attesa alla luce che si approssima.
Così, nella domenica del 30 novembre 2025, le comunità cristiane di tutto il mondo si ritroveranno per dare avvio a questo tempo di silenzio e speranza. L’Avvento ricomincia, come ogni anno, con il suo ritmo antico, intrecciando la memoria del passato con l’attesa del futuro, e rinnovando nel presente la fiducia in ciò che sta per nascere.