Antiche parole per leggere le fragilità del presente

L’io assoluto e i vizi capitali, oggi
di Pietro Giordano
1 Novembre 2025
Per gentile concessione di
http://www.vinonuovo.it
Da più di quindici secoli, la tradizione occidentale conosce un elenco di sette atteggiamenti considerati particolarmente pericolosi per la crescita interiore della persona: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia. Nati in un contesto religioso, sono stati per secoli interpretati come “peccati capitali”, cioè radici profonde da cui germogliano molti altri comportamenti negativi.
Oggi, in un mondo secolarizzato e attraversato da nuove domande, quell’antica classificazione può sembrare obsoleta. Eppure, se li leggiamo con occhi diversi, quei sette “vizi” continuano a parlarci con sorprendente attualità. Perché al di là del linguaggio del passato, ciascuno di essi descrive una distorsione della relazione: con sé stessi, con gli altri, con la comunità e con il mondo. Sono forme di chiusura, rigidità e fuga che ci impediscono di diventare ciò che potremmo essere.
Il pensiero personalista – da Mounier a Maritain, fino a filosofi come Guardini o Lévinas – ci offre una chiave preziosa: la persona umana non è un individuo isolato, ma un essere che vive e cresce nelle relazioni. È nella relazione che scopriamo la nostra identità, che diamo senso alle nostre azioni, che costruiamo futuro. Rileggere i sette vizi capitali alla luce di questa prospettiva significa allora esplorare sette modi in cui l’umano si spezza. E provare a immaginare le vie per ricucirlo.
Superbia: il mito dell’autosufficienza
Tutto comincia da qui: dall’illusione di bastare a sé stessi. La superbia non è solo arroganza o vanità, ma la convinzione profonda di non aver bisogno di nessuno. È il culto dell’“io” che rifiuta il confronto, la fragilità e il limite. Oggi prende la forma dell’individualismo assoluto, della costruzione ossessiva di un’identità di successo, della narrazione del “self-made” come valore supremo. Ma nessuno si realizza da solo. L’umiltà – che non è sottomissione ma verità su sé stessi – ci ricorda che la nostra libertà cresce soltanto con e grazie agli altri.
Avarizia: la paura che chiude
L’avarizia è il desiderio di possedere, ma ancora più profondamente è la paura di perdere. È la diffidenza verso l’altro, visto come minaccia alla mia sicurezza. Nell’economia globale di oggi, questa paura si traduce in accumulo senza fine, nella corsa alla crescita per la crescita, nella concentrazione di ricchezze e potere. Ma il possesso senza condivisione impoverisce, non arricchisce. La generosità non è filantropia: è riconoscere che il valore di ciò che abbiamo sta anche nella possibilità di metterlo a disposizione, di trasformarlo in legame e non in isolamento.
Lussuria: il corpo come oggetto
Il desiderio è una forza vitale, ma può diventare distruttivo quando perde profondità. La lussuria, intesa nel senso originario, è questo: ridurre l’altro a strumento del proprio piacere, spezzare il legame tra eros e relazione. Nel presente, questa dinamica è amplificata dalla mercificazione del corpo, dalla banalizzazione dei sentimenti, da relazioni superficiali che anestetizzano invece di nutrire. Reimparare il valore del desiderio significa riconoscere l’altro come soggetto, non come oggetto: cercare un incontro che unisca corpo, emozione e responsabilità.
Invidia: il veleno del paragone
L’invidia nasce da un confronto sbagliato: guardiamo agli altri non per imparare, ma per misurare il nostro valore e trovarlo mancante. In un mondo che misura tutto – successo, bellezza, visibilità – il paragone è continuo e devastante. Ma la gioia dell’altro non diminuisce la nostra. Coltivare la gratitudine e la benevolenza ci permette di vedere negli altri non rivali, ma compagni di cammino. E di capire che il nostro valore non dipende da quanto “vinciamo” sugli altri, ma da ciò che costruiamo insieme.
Gola: il troppo che non sazia
Nella versione antica era l’eccesso di cibo e bevande. Oggi è molto di più: è bulimia di esperienze, consumo senza fine, saturazione di stimoli. Non cerchiamo più ciò che ci nutre davvero, ma ciò che ci distragga, riempia, anestetizzi. Il problema non è il desiderio, ma la sua perdita di senso. La temperanza – parola spesso fraintesa – è la capacità di orientare i nostri desideri verso ciò che dà significato e non solo gratificazione. È scegliere la qualità invece della quantità.
Ira: la forza che distrugge
La rabbia è un’emozione naturale e spesso giusta. Ma l’ira è qualcosa di diverso: è la perdita del controllo, l’aggressività cieca che ferisce e distrugge. Oggi prolifera nelle polarizzazioni, nei social network, nelle piazze virtuali e reali dove l’altro non è più interlocutore ma nemico.
La sfida è trasformare la rabbia in energia costruttiva, capace di denunciare le ingiustizie senza negare la dignità di chi la pensa diversamente. La mitezza – altra virtù da riscoprire – è forza sotto controllo, lucidità che trasforma il conflitto in occasione di crescita.
Accidia: il male della rassegnazione
È forse il vizio più contemporaneo: la rinuncia. Non è semplice pigrizia, ma una stanchezza profonda, la sensazione che nulla abbia senso e nulla valga la pena. È il cinismo di chi si rifugia nell’indifferenza e smette di credere che le cose possano cambiare.
Ma l’essere umano non è fatto per l’inazione. Ogni gesto, anche minimo, può diventare seme di trasformazione. Coltivare la speranza non significa essere ingenui, ma scegliere ogni giorno di non arrendersi all’inerzia.
Dalle colpe alle possibilità
Riletti in questa luce, i sette vizi capitali non sono più un elenco di colpe individuali ma specchi delle nostre fragilità. Ci mostrano come possiamo deviare dal nostro stesso potenziale, come possiamo tradire la nostra vocazione alla relazione e alla costruzione di senso.
Non c’è bisogno di credere in Dio per riconoscerne la verità profonda: ogni vizio è un ostacolo alla nostra umanità, ogni virtù è un modo di riappropriarcene. E forse oggi, in un’epoca che esalta l’ego, il consumo e la competizione, questa antica mappa morale può tornare a essere un percorso di liberazione. Riletti con questa chiave, i sette vizi capitali non sono semplici “trasgressioni” ma ferite antropologiche che deformano la nostra capacità di relazione. Sono modi in cui l’uomo tradisce la propria natura di essere-in-relazione e si riduce a individuo isolato, consumatore, antagonista, spettatore. Superarli non significa moralizzarsi, ma ritrovare se stessi: reintegrare corpo e spirito, individuo e comunità, libertà e responsabilità, io e Dio.