COMMENTO
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (C)
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo
Luca 23,35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
(Letture: 2 Samuele 5,1-3; Salmo 121; Colossesi 1,12-20; Luca 23,35-43).


Cattedrale di Saint-Trophime, Majestas Domini, lunetta del portale d’ingresso, XII secolo, Arles.jpg

La storia del re che morì amando, all’inverosimile
Ermes Ronchi

Se sei il Cristo, salva te stesso! Sono scandalizzati gli uomini religiosi: che Dio è questo che lascia morire il suo Messia?

Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti: se sei il re, usa la forza! Salvati. C’è forse qualcosa che vale più della vita? Ebbene sì, risponde la narrazione della Croce, qualcosa vale di più, l’amore vale più della vita. E appare un re che muore ostinatamente amando; giustiziato, ma non vinto; che noi possiamo rifiutare, ma che non ci rifiuterà mai. E la risurrezione è il sigillo che un amore così non andrà mai perduto.

Un malfattore appeso alla croce gli chiede di non essere dimenticato e lui lo prende con sé. In quel bandito raggiunge tutti noi, consacrando – in un malfattore – la dignità di ogni persona umana: nella sua decadenza, nel suo limite più basso, l’uomo è sempre amabile per Dio. Proprio di Dio è amare perfino l’inamabile. Non ha meriti da vantare il ladro. Ma Dio non guarda al peccato o al merito, il suo sguardo si posa sulla sofferenza e sul bisogno, come un padre o una madre guardano solo al dolore e alle necessità del figlio.

Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. E Gesù non solo si ricorda, fa molto di più: lo porta con sé, se lo carica sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta, lo riporta a casa: sarai con me! E mentre la logica della nostra storia sembra avanzare per esclusioni, per separazioni, per respingimenti alle frontiere, il Regno di Dio è la terra nuova che avanza per inclusioni, per abbracci, per accoglienza.

Ricordati di me prega il peccatore, sarai con me risponde l’amore. Sintesi estrema di tutte le possibili preghiere.
Ricordati di me, prega la paura, sarai con me, risponde l’amore. Non solo il ricordo, ma l’abbraccio che stringe e unisce e non lascia cadere mai: con me, per sempre. Le ultime parole di Cristo sulla croce sono tre parole regali, tre editti imperiali: oggi-con me-paradiso.

Oggi: adesso, subito; ecco l’amore che ha sempre fretta; ecco l’istante che si apre sull’eterno, e l’eterno che si insinua nell’istante.

Con me: mentre la nostra storia di conflitti si chiude in muri, frontiere e respingimenti, il Regno di Dio germoglia in condivisioni e accoglimenti.

Nel paradiso: quel luogo che brucia gli occhi del desiderio, quel luogo immenso e felice che «solo amore e luce ha per confine».
E se il primo che entra in paradiso è quest’uomo dalla vita sbagliata, allora non c’è nulla e nessuno di definitivamente perduto, nessuno è senza speranza. Le braccia del re-crocifisso resteranno spalancate per sempre, per tutti quelli che riconoscono Gesù come compagno d’amore e di pena, qualunque sia il loro passato: è questa la Buona Notizia di Gesù Cristo.


Gesù Cristo Re dell’Universo.jpg

La centralità di Cristo
Papa Francesco

[…] Le Letture bibliche che sono state proclamate hanno come filo conduttore la centralità di Cristo. Cristo è al centro, Cristo è il centro. Cristo centro della creazione, Cristo centro del popolo, Cristo centro della storia.

  1. L’Apostolo Paolo ci offre una visione molto profonda della centralità di Gesù. Ce lo presenta come il Primogenito di tutta la creazione: in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui furono create tutte le cose. Egli è il centro di tutte le cose, è il principio: Gesù Cristo, il Signore. Dio ha dato a Lui la pienezza, la totalità, perché in Lui siano riconciliate tutte le cose (cfr 1,12-20). Signore della creazione, Signore della riconciliazione.

Questa immagine ci fa capire che Gesù è il centro della creazione; e pertanto l’atteggiamento richiesto al credente, se vuole essere tale, è quello di riconoscere e di accogliere nella vita questa centralità di Gesù Cristo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. E così i nostri pensieri saranno pensieri cristiani, pensieri di Cristo. Le nostre opere saranno opere cristiane, opere di Cristo, le nostre parole saranno parole cristiane, parole di Cristo. Invece, quando si perde questo centro, perché lo si sostituisce con qualcosa d’altro, ne derivano soltanto dei danni, per l’ambiente attorno a noi e per l’uomo stesso.

  1. Oltre ad essere centro della creazione e centro della riconciliazione, Cristo è centro del popolo di Dio. E proprio oggi è qui, al centro di noi. Adesso è qui nella Parola, e sarà qui sull’altare, vivo, presente, in mezzo a noi, il suo popolo. E’ quanto ci viene mostrato nella prima Lettura, dove si racconta del giorno in cui le tribù d’Israele vennero a cercare Davide e davanti al Signore lo unsero re sopra Israele (cfr 2 Sam 5,1-3). Attraverso la ricerca della figura ideale del re, quegli uomini cercavano Dio stesso: un Dio che si facesse vicino, che accettasse di accompagnarsi al cammino dell’uomo, che si facesse loro fratello.

Cristo, discendente del re Davide, è proprio il “fratello” intorno al quale si costituisce il popolo, che si prende cura del suo popolo, di tutti noi, a costo della sua vita. In Lui noi siamo uno; un solo popolo uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come centro, abbiamo l’identità come popolo.

  1. E, infine, Cristo è il centro della storia dell’umanità, e anche il centro della storia di ogni uomo. A Lui possiamo riferire le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di cui è intessuta la nostra vita. Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano, e ci dà speranza, come avviene per il buon ladrone nel Vangelo di oggi.

Mentre tutti gli altri si rivolgono a Gesù con disprezzo – “Se tu sei il Cristo, il Re Messia, salva te stesso scendendo dal patibolo!” – quell’uomo, che ha sbagliato nella vita, alla fine si aggrappa pentito a Gesù crocifisso implorando: «Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). E Gesù gli promette: «Oggi con me sarai nel paradiso» (v. 43): il suo Regno. Gesù pronuncia solo la parola del perdono, non quella della condanna; e quando l’uomo trova il coraggio di chiedere questo perdono, il Signore non lascia mai cadere una simile richiesta. Oggi tutti noi possiamo pensare alla nostra storia, al nostro cammino. Ognuno di noi ha la sua storia; ognuno di noi ha anche i suoi sbagli, i suoi peccati, i suoi momenti felici e i suoi momenti bui. Ci farà bene, in questa giornata, pensare alla nostra storia, e guardare Gesù, e dal cuore ripetergli tante volte, ma con il cuore, in silenzio, ognuno di noi: “Ricordati di me, Signore, adesso che sei nel tuo Regno! Gesù, ricordati di me, perché io ho voglia di diventare buono, ho voglia di diventare buona, ma non ho forza, non posso: sono peccatore, sono peccatore. Ma ricordati di me, Gesù! Tu puoi ricordarti di me, perché Tu sei al centro, Tu sei proprio nel tuo Regno!”. Che bello! Facciamolo oggi tutti, ognuno nel suo cuore, tante volte. “Ricordati di me, Signore, Tu che sei al centro, Tu che sei nel tuo Regno!”.

La promessa di Gesù al buon ladrone ci dà una grande speranza: ci dice che la grazia di Dio è sempre più abbondante della preghiera che l’ha domandata. Il Signore dona sempre di più, è tanto generoso, dona sempre di più di quanto gli si domanda: gli chiedi di ricordarsi di te, e ti porta nel suo Regno! Gesù è proprio il centro dei nostri desideri di gioia e di salvezza. Andiamo tutti insieme su questa strada!

(Omelia del 24 novembre 2013)


Gesù Cristo è Re perché regna sulla croce; è un Re al contrario dei re di questo mondo, crocifisso tra malfattori; è un Re condannato dai poteri religioso e politico; è un Re che salva gli altri e non se stesso. È un Re paradossale! Gesù non ci salva ora come vorremmo noi, ma ci salva se noi, che non siamo mai né giusti né buoni, sappiamo accogliere il perdono che Dio ci offre, che Gesù ci offre, dicendogli semplicemente: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno”.

La festa per eccellenza di Cristo Re dell’universo è l’ascensione, la glorificazione di Gesù da parte del Padre che lo intronizza accanto a sé quale Kýrios, Signore vivente per sempre. Nel 1925 si è aggiunta la festa odierna per ricordare tale regalità ai re di questo mondo. La riforma liturgica del concilio Vaticano II, in verità, l’ha mutata in profondità: Gesù Cristo è Re perché regna sulla croce; è un Re al contrario dei re di questo mondo, crocifisso tra malfattori; è un Re condannato dai poteri religioso e politico; è un Re che salva gli altri e non se stesso. Insomma, è un Re paradossale!

Il brano evangelico di Luca previsto per questa festa nell’annata liturgica C è il racconto della crocifissione di Gesù. Dopo la condanna chiesta dai sacerdoti e inflitta da Pilato (cf. Lc 23,13-26), il corteo che scorta Gesù e i due delinquenti condannati insieme a lui giunge a una piccola collina fuori della città di Gerusalemme, al di là della porta di Efraim, altura che i giudei chiamavano Golgota, o Cranio, o monte Calvo, dove secondo una leggenda era stato sepolto Adamo. Proprio qui i tre vengono crocifissi, con il terribile supplizio riservato agli scarti della società, ai peggiori delinquenti. Tra due criminali, “annoverato tra quelli che hanno commesso il male” (Is 53,12; Lc 22,37), viene crocifisso il nuovo Adamo (cf. Lc 23,32-33), o meglio il vero Adamo, l’uomo totalmente a immagine e somiglianza di Dio (cf. Col 1,15).

È una scena crudele, carica di violenza e di orrore, eppure il popolo (laós), quel popolo che aveva seguito Gesù, che l’aveva acclamato (cf. Lc 19,38), che pochi giorni prima pendeva dalle sue labbra mentre insegnava nel tempio (cf. Lc 19,48), ebbene quel popolo “sta a vedere”. Non sta più dalla parte di Gesù, non lo segue più, non lo difende: appare deluso dall’esito della sua vicenda, incapace di comprendere ciò che si sta consumando. Luca ricorda che, dopo la morte di Gesù, “tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo (theoría), ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto” (Lc 23,48), iniziando cioè un cammino di conversione, ma per ora no: Gesù muore abbandonato veramente da tutti, solo, perché i discepoli sono fuggiti e l’uditorio che prima lo applaudiva è muto e non sta più dalla sua parte. Avevano atteso un Messia vittorioso, potente, un vero Re, più forte dei re di questo mondo, e invece hanno visto uno che non è neppure capace di salvarsi…

Guardando il popolo e gli aguzzini dall’alto della croce, Gesù può solo affermare: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34), ma neanche questa parola lo rende comprensibile al popolo. E proprio in quella solitudine, in quell’abbandono, ecco riapparire la tentazione, come all’inizio della sua missione, quando aveva sostato nel deserto (cf. Lc 4,1-12). Luca allora aveva avvertito i lettori del vangelo: “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al tempo opportuno” (Lc 4,13). Ed eccolo, puntuale, riapparire nell’ora estrema. Come allora la tentazione verteva per Gesù sulla sua capacità di provare di essere Figlio di Dio mediante segni eclatanti, non nella possibilità di un umano ma nella potenza divina, lo stesso avviene ora.

Il primo strumento demoniaco sono i capi religiosi, quei sacerdoti presenti alla croce perché avevano chiesto ai romani la condanna a morte di Gesù. Da veri esperti delle Scritture, essi proclamano con precisione teologica: “Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Messia di Dio, l’Eletto!”. Se Gesù è l’Unto del Signore, il Figlio di David, il Re di Gerusalemme, l’Eletto inviato da Dio (cf. Is 42,1), salvi innanzitutto se stesso, mostri la sua potenza liberandosi dal supplizio che lo porta alla morte! Ma Gesù resta sulla croce: ascolta e tace, si lascia accusare di impotenza, non si difende, non cede a comportamenti frutto dell’inimicizia. Fino alla fine vive nella logica di amore di Dio, un Dio che ha un amore misericordioso anche verso i suoi nemici; anzi, simultaneamente all’odio che riceve da loro, continua ad amarli (cf. Rm 5,6-10).

La seconda tentazione viene espressa dal potere politico e militare dei soldati pagani che lo uccidono. Lo deridono dando da bere dell’aceto a lui che ha la gola riarsa, bruciante, e nella loro ottica politica lo scherniscono così: “Se tu sei il Re dei giudei, salva te stesso!”. Un re che non è in grado di salvare se stesso, come potrà salvare gli altri? E allora che re è mai? Come può un re tanto impotente opporsi a Cesare e insidiare il suo potere? No, egli merita solo disprezzo! Eppure Gesù è Re, come proclama l’iscrizione posta sulla croce, più in alto del suo capo; iscrizione che nell’intenzione dei suoi autori vorrebbe essere dileggiante, causa di commiserazione, e invece dice una verità ben diversa, per chi sa vederla… Gesù è veramente l’Unto del Signore, il Messia promesso da Dio a Israele, ma questa regalità è sorprendente, perché non è modellata su quella dei re di questo mondo, dove i governanti opprimono, comandano e si fanno applaudire come autori del bene comune (cf. Lc 22,25). La regalità di Gesù, invece, è altra e sta nello spazio dell’amore: chi ama regna, chi ama fino alla fine (cf. Gv 13,1) è vero re! Gesù accoglie in silenzio anche questa seconda tentazione, come se continuasse a ripetere: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”…

La terza tentazione gli viene da chi è solidale con lui nel supplizio, nella tortura e nella morte, uno dei “compagni” di Gesù, uno dei due banditi condannati insieme a lui. Gesù aveva iniziato il suo mistero mettendosi in una fila di peccatori per andare da Giovanni il Battista a chiedere il battesimo (cf. Lc 3,21), per tutta la vita è stato tra i peccatori (cf. Lc 15,1-2; 19,7) e ora muore tra peccatori. Anche qui Gesù resta quello che è sempre stato: “un amico dei peccatori” (Lc 7,34). Uno dei due crocifissi con lui, dunque, gli dice: “Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!”. È un grido di disperazione: “Salva anche noi perché, se sei il Messia inviato da Dio, puoi farlo!”. Ma Gesù tace, comprendendolo nella sua protesta e nella sua sfida. È l’altro condannato che interviene osservando: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”.

Diciamo la verità: abbiamo fatto del primo “il cattivo ladrone” e del secondo “il buon ladrone”, ma in realtà erano entrambi malfattori, omicidi secondo gli altri vangeli. Dunque sono tutti e due cattivi, e se c’è una differenza va cercata solo nel fatto che il secondo arriva a fare questa invocazione confidente: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno”, ovvero chiede a Gesù di essere salvato non qui, perché questo a Gesù non è possibile, ma quando verrà nel suo Regno; anzi, neanche di essere salvato, ma di essere ricordato, che sarebbe già molto… Gesù può forse rifiutarsi di salvare il primo ladrone che gli chiede: “Salva anche noi”? Egli in verità può mostrare il suo potere solo salvando, ma non facendoli scendere dalla croce, bensì non abbandonandoli nell’ora della venuta del suo Regno.

Salvare un altro non è preservarlo dalla morte ma rendere la sua morte un passaggio, un esodo per la vita eterna, per il Regno! Gesù non ci salva ora come vorremmo noi, ma ci salva se noi, che non siamo mai né giusti né buoni, sappiamo accogliere il perdono che Dio ci offre, che Gesù ci offre. Entrambi i malfattori hanno capito che essere buoni e giusti è secondo la volontà di Dio ma che, se questo non è avvenuto nella propria vita, ciò che conta alla fine è accogliere il suo perdono, dicendo semplicemente: “Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno”.

Per gentile concessione dell’autore
www.ilblogdienzobianchi.it

Ci sono le “Sette Parole di Gesù in croce”. Ma anche le “sette parole dette a Gesù in croce”. Le prime sono tema di abbondanti predicazioni e scritti spirituali. Ma anche le seconde si prestano per commenti e riflessioni feconde. Nel Vangelo lucano di oggi troviamo quattro parole pronunciate verso Gesù: dai capi (v. 35), dai soldati (v. 36-37) e dai due malfattori crocifissi accanto a Gesù (v. 39-42). Queste quattro parole hanno in comune, sia pur con sfumature diverse, la sfida rivolta a Gesù: “dimostra chi sei (il Cristo, il re…), salva te stesso, scendi dalla croce…” Le parole dei capi, dei soldati e di uno dei malfattori sono ingiuriose, sprezzanti, senza pietà, mostrano una totale incomprensione e stravolgimento della identità di Cristo.

La scritta sopra il capo di Gesù parla da sola: “Questi è il Re dei Giudei” (v. 38). Dice tutto di quella condanna. Ma come decifrarla?, chi la capisce nella sua verità? Per i capi religiosi e politici sono parole da burla; ma per Dio e per il cristiano dal cuore sincero sono parole vere, che centrano in pieno l’identità di quello strano condannato. Quella lapide è una sfida che attraversa i secoli: o la si accetta o la si rifiuta. Con alterne conseguenze! “Il popolostava a vedere” (v. 35): muto e perplesso, fra curiosità e impotenza, non capiva cosa sta succedendo, non sapeva cosa fare… Poco dopo, però, quando lo spettacolo si concluse in orrenda tragedia, quelle folle “se ne tornavano percuotendosi il petto” (v. 48).

È possibile cogliere il significato di quella morte dalle parole del secondo dei malfattori, il famoso ‘buon ladrone’, l’unico che riconosce il senso di quella scritta e l’identità di Gesù. Non gli chiede una clamorosa liberazione, ma solo di stare accanto a Lui nell’ultima fase della vita: “Ricordati di me…” (v. 42). Richiesta subito esaudita: “Oggi sarai con me nel paradiso” (v. 43). È la prima sentenza del nuovo Re! Gesù ha solo parole di salvezza piena: oggi, in paradiso! Il silenzio di Gesù, il suo gesto di perdono, le poche parole (con il Padre, la madre, gli amici…) svelano il mistero di un re splendido e potente, ma che finisce su una croce. La sua è una regalità strana: ha mandato in tilt Erode, Pilato, Tiberio, i capi, il popolo… Una regalità difficile da comprendere e ancor più da accettare. Una regalità spesso incompresa e travisata! Ma per chi l’accetta, è regalità vera, che da senso pieno alla vita. (*)

La chiave del mistero di quella morte sta nella risposta alle domande ‘logiche’ di tutti: Perché non scendi dalla croce? Perché non chiarisci tutto facendo il miracolo? Ne hai fatti tanti di strepitosi, per gli altri… Se tu scendessi dalla croce, tutti ti crederebbero… Ma in che cosa crederebbero? “Nel Dio forte e potente, nel Dio che sconfigge e umilia i nemici, che risponde colpo su colpo alle provocazioni degli empi, che incute timore e rispetto, che non scherza… Questo non è il Dio di Gesù. Se scendesse dalla croce, svuoterebbe il suo messaggio anteriore, tradirebbe la sua missione: avallerebbe l’idea falsa di Dio che le guide spirituali del popolo hanno in mente. Confermerebbe che il vero Dio è quello che i potenti di questo mondo hanno sempre adorato perché è simile a loro: forte, arrogante, oppressore, vendicativo, umano. Questo Dio forte è incompatibile con quello che ci è rivelato da Gesù in croce: il Dio che ama tutti, anche chi lo combatte, che perdona sempre, che salva, che si lascia sconfiggere per amore” (F. Armellini).

Tale riflessione ha ricadute immediate sul terreno della missione: Quale Dio annunciamo? Quale volto di Dio rivela la missione che portiamo avanti: un Dio dalla povertà e debolezza o un dio alla ricerca di riconoscimenti e di potere? Quest’ultimo sarebbe in sintonia con la logica umana e con i re di questo mondo. Nel modo di far missione, a volte ci sono concessioni, c’è timore nell’annunciare, con le parole e con i fatti, un Dio che è sconfitto, che perde, soffre, perdona… E quindi non si favorisce la crescita di una Chiesa povera, umile, disposta a perdere… L’abbondanza di mezzi umani rischia di togliere trasparenza all’annuncio. È più conforme al Vangelo una missione che si realizza con mezzi deboli, che annuncia Dio dalla povertà, dall’umiltà, espulsione, persecuzione, distruzione… Perché è nella logica del Re che vince e regna dalla croce! Un re così disturba i nostri piani, perché esige un cambio di vita, capacità di perdono, accoglienza di chiunque, tempi più lunghi, prospettive scomode… Le condizioni sono esigenti, ma con Lui l’esito della missione è assicurato.

A Roma governa l’imperatore Tiberio quando, lungo il fiume Giordano, compare il Battista. Ciò che dice provoca entusiasmo, risveglia attese, suscita speranze.

Le autorità politiche e religiose si preoccupano perché considerano sovversivo il suo messaggio. Dice: Il regno dei cieli è vicino! (Mt 3,2).

Dopo di lui Gesù comincia a percorrere città e villaggi annunciando ovunque: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è imminente! (Mc 1,15). A volte dice anche: Il regno di Dio è già in mezzo a voi (Lc 17,21).

Il Regno è il centro della predicazione di Gesù; basti pensare che nel NT il tema del regno di Dio è presente 122 volte e ben 90 sulla sua bocca.

Pochi anni dopo la sua morte, troviamo i suoi discepoli che, in tutte le province dell’impero e nella stessa Roma, annunciano il regno di Dio (At 28,31).

Vorremmo che il Battista, Gesù e gli apostoli ci spiegassero il significato di questa espressione, ma nessuno di loro lo fa.

Notiamo però che Gesù prende le distanze da chi dà alla sua missione un’interpretazione politico-nazionalistica (Mt 4,8s) tuttavia, il suo messaggio contiene un’innegabile carica sovversiva per le strutture esistenti nella società. È considerato pericoloso dai detentori del potere, sia politico che religioso.

Iniziato come un piccolo seme, il Regno è destinato a crescere e a diventare un albero (Mt 13,31-32); è dotato di una forza irresistibile e provocherà una trasformazione radicale del mondo e dell’uomo.

La regalità di Gesù è difficile da capire, ha mandato in tilt anche la testa di Pilato (Gv 18,33-38). È troppo diversa da quelle di questo mondo. Quante volte lungo i secoli è stata equivocata!

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Venga il tuo regno!”.

Prima Lettura (2 Sam 5,1-3)

In quei giorni 1 vennero tutte le tribù d’Israele da Davide in Ebron e gli dissero: “Ecco noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne. 2 Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: Tu pascerai Israele mio popolo, tu sarai capo in Israele”.
3 Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re in Ebron e il re Davide fece alleanza con loro in Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re sopra Israele.

Davide era un povero pastore di Betlemme. Fin da giovane ha una vita molto avventurosa: si mette a capo di una banda di sbandati, si rifugia nel deserto e comincia a lottare contro i Filistei e contro il suo stesso re, Saul.

Impressionati dalle sue capacità – la sua intelligenza, la sua forza, il suo coraggio – i membri della tribù di Giuda lo proclamano re. Inizialmente il regno è piuttosto ridotto: si estende su un piccolo territorio al sud di Israele. Tutto il nord è occupato dalle altre tribù che rimangono fedeli a Saul.

La lettura di oggi racconta come un giorno gli anziani delle tribù del nord si presentano a Davide nella città di Ebron e gli dicono: noi abbiamo capito che Dio ti ha scelto come capo non soltanto di una tribù, ma di tutto Israele. Già prima, quando regnava Saul su di noi, eri tu che ci guidavi contro i nemici e ci facevi uscire vittoriosi da tutte le battaglie. Ora consideraci tuoi sudditi; noi siamo “come tue ossa e tua carne”.

Davide accetta e viene unto re su tutto Israele. Così ha inizio il regno di Davide, un regno grande e potente al quale i popoli del mondo guardarono, per alcuni decenni, con ammirazione, timore e rispetto.

Poi Davide muore e gli succede al trono il figlio Salomone. Costui riesce a conservare unito il regno di suo padre, ma presto le tribù si separano di nuovo e Israele torna ad essere un popolo insignificante, irriso dalle grandi nazioni vicine.

Ricostituire un giorno il grande regno di Davide, divenire i dominatori del mondo: ecco il sogno degli israeliti del tempo di Gesù. Per questo ogni giorno pregano il Signore di inviare il suo messia.

Come mai questo racconto viene proposto come prima lettura della festa di Cristo re? È semplice: perché Gesù è la risposta di Dio alle preghiere ed alle attese del suo popolo. È lui il messia, il re che “dominerà da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra” (Sal 72,8).

Come mai allora gli israeliti non lo hanno accolto? Perché gli anziani del popolo lo hanno fatto uccidere, invece di ungerlo re, come hanno invece fatto i loro antenati con Davide in Ebron? La ragione ci verrà spiegata nel Vangelo.

Seconda Lettura (Col 1,12-20)

12 ringraziando con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
13 È lui infatti che ci ha liberati
dal potere delle tenebre
e ci ha trasferiti
nel regno del suo Figlio diletto,
14 per opera del quale abbiamo la redenzione,
la remissione dei peccati.
15
 Egli è immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura;
16 poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potestà.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
17 Egli è prima di tutte le cose
e tutte sussistono in lui.
18 Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa;
il principio, il primogenito di coloro
che risuscitano dai morti,
per ottenere il primato su tutte le cose.
19 Perché piacque a Dio
di fare abitare in lui ogni pienezza
20 e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce,
cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.

Paolo si trova in prigione (Col 4,3.10.18) quando, dalla valle del Lico, in Asia Minore, giunge a visitarlo Epafra, il grande apostolo che ha fondato e mantiene vive le comunità di quella regione. Le notizie che egli porta sono allarmanti. I cristiani si sono lasciati sedurre da strane dottrine: credono che i cieli siano popolati da potenze, da spiriti che muovono l’universo; ritengono che questi spiriti siano dotati di una forza misteriosa capace di condizionare la vita delle persone, ne sono spaventati e sono convinti che siano superiori a Cristo. Paolo scrive ai Colossesi e raccomanda loro di far circolare la sua lettera anche nelle comunità vicine (Col 4,16).

Inizia con l’inno a Cristo che ci è proposto nella lettura di oggi.

Nella prima parte (vv.12-17) celebra il primato di Cristo su tutto il creato.

Nella seconda (vv.18-20) proclama che Cristo è il primo anche nella nuova creazione, perché egli è stato il primo a vincere la morte e ad aprire a tutti il cammino verso Dio. Così egli ha sottomesso al proprio potere i Troni, le Dominazioni, i Principati e le Potestà (erano questi i nomi con cui i Colossesi designavano gli spiriti misteriosi che incutevano loro timore). La paura degli spiriti cattivi, degli incantesimi, dei malefici, la credenza nei riti magici, nelle superstizioni, non sono compatibili con la fede nella vittoria e nel dominio di Cristo su tutte le creature.

Vangelo (Lc 23,35-43)

Gli israeliti si aspettavano un grande re.

Lo sognavano ricco, avvolto in abiti preziosi, forte, seduto su un trono d’oro. Volevano vederlo dominare su tutti i popoli e umiliare i nemici, costringendoli a prostrarsi ai suoi piedi e a lambire la polvere (Sal 72,9-11). Nutrivano la speranza che il suo regno sarebbe stato eterno ed universale.

Nel brano evangelico viene presentata la risposta di Dio a queste attese.

Siamo sul Calvario, Gesù è inchiodato sulla croce, due banditi al suo fianco, sopra il suo capo una scritta: Questi è il re dei giudei (v.38).

Sarebbe costui l’atteso figlio di Davide?

No, non è possibile: costui è solo uno sventurato. Dove sono i segni della regalità?

Egli non domina dall’alto di un trono d’oro, si trova inchiodato su una croce; non è circondato da servi che lo ossequiano, che si inchinano ai suoi piedi; non ci sono soldati pronti a scattare ad ogni suo ordine.

Egli si trova davanti a persone che lo insultano, che lo deridono; non indossa paludamenti lussuosi, è completamente nudo.

Non minaccia nessuno, usa parole di amore e di perdono per tutti; non costringe i suoi nemici a lambire la polvere, è lui che beve dell’aceto. Al suo fianco non ha i suoi ministri, i generali dell’esercito, ma due malfattori.

Un giorno Giacomo e Giovanni gli avevano chiesto: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (Mc 10,37). Avessero saputo cosa stavano domandando…

Che strana regalità quella di Gesù! È l’opposto di quella che gli uomini sono abituati ad immaginare.

Purtroppo molti cristiani non hanno coltivato speranze diverse dai giudei: hanno identificato il regno di Cristo con le vittorie e i trionfi e con il rispetto che i capi della chiesa riuscivano ad incutere ai grandi di questo mondo.

L’iscrizione posta sulla croce proclama re dei giudei un uomo sconfitto, incapace di difendersi, privo di qualunque potere. Un re così fa crollare tutti i nostri progetti. Ritorna allora, insistente, la domanda: com’è possibile che sia costui il messia promesso?.

Vediamo da vicino le tre scene che vengono descritte nel Vangelo di oggi.

Nella prima (vv.35-37) vengono introdotti tre gruppi di persone che si trovano ai piedi della croce, ai piedi del “re”.

È presente anzitutto il popolo. Come si comporta? Non fa nulla, né di bene né di male: sta ad osservare (v.35). È stupito, sembra non rendersi conto di ciò che sta accadendo. Non capisce come un uomo che muore senza reagire possa essere il re tanto atteso.

È un giusto, ma perché allora Dio non interviene per salvarlo?

Abbiamo notato più volte durante quest’anno liturgico che Luca nutre grande simpatia per i poveri, per gli ultimi, per la gente semplice. Questo evangelista ci presenta il popolo muto e perplesso ai piedi della croce: vuole dirci che non è responsabile della morte di Gesù. Pochi versetti più avanti noterà: “Tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto” (Lc 23,48).

Il popolo stupito rappresenta tutta quella gente ben disposta che vorrebbe capire il progetto di Dio, ma non riesce perché chi la dovrebbe illuminare è, a sua volta, cieco.

Oltre al popolo, ai piedi della croce ci sono i capi. Eccoli i veri responsabili! Essi, come gli anziani d’Israele che a Ebron hanno unto re Davide, dovrebbero riconoscere in Gesù il messia promesso. Invece lo scherniscono: non è il re che a loro piace, è uno sconfitto, è incapace di salvare se stesso, non scende dalla croce (v.35).

Perché Gesù non dà la prova che essi chiedono? Perché non scende dalla croce? Perché non compie il miracolo? Se lo facesse convincerebbe tutti ed eviterebbe un enorme crimine.

Se scendesse dalla croce, tutti crederebbero. Ma in che cosa? Nel Dio forte e potente, nel Dio che sconfigge e umilia i nemici, che risponde colpo su colpo alle provocazioni degli empi, che incute timore e rispetto, che non scherza… E questo non è il Dio di Gesù.

Se scendesse dalla croce tradirebbe la sua missione: avvallerebbe l’idea falsa di Dio che le guide spirituali del popolo hanno in mente. Confermerebbe che il vero Dio è quello che i potenti di questo mondo hanno sempre adorato perché è simile a loro: forte, arrogante, oppressore, vendicativo, armato.

Questo Dio forte è incompatibile con quello che ci è rivelato da Gesù in croce: il Dio che ama tutti, anche chi lo combatte, che perdona sempre, che salva, che si lascia sconfiggere per amore.

Dio non è onnipotente perché con il suo immenso potere può fare ciò che vuole, ma perché ama in modo immenso, perché si mette senza limiti e senza condizioni a servizio dell’uomo. La sua non è l’onnipotenza del dominio, ma del servizio. Lo abbiamo visto in Gesù che si china per lavare i piedi ai discepoli: quello è volto autentico del Dio onnipotente, del re dell’universo.

Il terzo gruppo che si trova ai piedi della croce è composto dai soldati. Si tratta di poveri uomini, strappati alle loro famiglie e mandati, per pochi soldi, a commettere violenze contro un popolo dalla lingua, dai costumi e dalla religione differenti.

Lungi dalle loro mogli, dai figli, dagli amici, hanno smarrito tutti i sentimenti umani e si sfogano contro uno più debole di loro. Più che colpevoli, sono vittime della follia di altri superiori a loro.

Essi sanno soltanto eseguire ordini, non possono manifestare una loro opinione, ripetono le parole che hanno sentito proferire dai loro capi: “Se sei il re dei giudei, salva te stesso” (v.36).

Per paura, per pochi soldi, per ignoranza hanno venduto la propria testa e la propria coscienza; collaborano all’ingiustizia, al sopruso, alla violenza contro i più deboli.

Sono stati educati a credere soltanto nella forza e chi confida nelle armi rispetta chi vince e schernisce chi perde. Ora Gesù è dalla parte degli sconfitti.

La seconda scena (v. 38) occupa il centro del brano. Presenta la scritta posta sopra il capo di Gesù.

Luca sembra rivolgere un invito ai cristiani delle sue e delle nostre comunità: contemplate il re inchiodato sulla croce! Di fronte a lui diviene ridicola ogni bramosia di gloria, ogni volontà di dominio, ogni desiderio di raggiungere i primi posti. Dall’alto della croce Gesù indica a tutti chi è il re scelto da Dio: è colui che accetta l’umiliazione, che sa che l’unico modo per dare gloria a Dio è quello di scegliere l’ultimo posto per servire il povero.

Abbiamo contemplato ciò che avviene ai piedi della croce, poi abbiamo considerato l’iscrizione posta sopra.

La terza scena (vv.39-43) si svolge ai lati di Gesù, dove sono crocifissi due malfattori.

Come il popolo, come i capi, come i soldati, uno dei due non comprende nulla. L’unica cosa che si aspetta dal messia è la liberazione dal supplizio al quale è stato sottoposto; Gesù non lo aiuta, si mostra incapace di esaudire la sua richiesta.

Il secondo malfattore è l’unico che riconosce in Gesù il re atteso: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.

Lo chiama per nome. Ha capito che con lui può usare questa confidenza. Lo sente amico, l’amico di chi ha avuto una vita devastata. Non lo considera un “signore”, ma un compagno di viaggio, uno che ha accettato di subire, pur essendo giusto, la sorte degli empi.

Da Gesù non si aspetta una liberazione miracolosa, chiede solo di compiere con lui gli ultimi passi della vita, di quella vita che è stata un susseguirsi di errori e di crimini.

Gesù gli promette: “Oggi sarai con me nel paradiso”.

La storia di questo malfattore è quella di ogni uomo: chi non si è comportato come lui? Chi qualche volta non ha stroncato la vita di qualche fratello con l’odio, le calunnie, le ingiustizie? Chi non ha provocato piccoli o grandi disastri nella società, nelle famiglie, nella comunità cristiana?

In fondo al cuore, molti continuano a pensare che, sulla croce, la regalità di Gesù non è stata ben celebrata. Quello è stato solo un momento infausto. La manifestazione vera avrà luogo più tardi, alla fine del mondo, al momento della resa dei conti. Allora si vedrà brillare la gloria di Cristo: egli giungerà con il suo esercito di angeli e mostrerà a tutti, specialmente a chi lo ha crocifisso la sua potenza.

Prima di morire, Gesù ha pronunciato una sentenza di assoluzione nei confronti dei suoi carnefici. Sarà valida anche alla fine o si è trattato di un’affermazione provvisoria e suscettibile di revisioni? Sarà vero che coloro che lo hanno condannato e ucciso non sapevano quello che facevano (Lc 23,34)? Forse qualcuno ritiene che sul Calvario Gesù non era nelle condizioni ideali per valutare obiettivamente le responsabilità di coloro che lo stavano crocifiggendo e, ancor meno, per manifestare tutta la sua gloria.

Bene, se ancora coltiviamo simili pensieri, non abbiamo colto il volto di Dio che Gesù ci ha rivelato.

Il processo contro chi ha ucciso Gesù – sia ben chiaro! – non verrà riaperto; non ci sarà una revisione della sentenza. Gesù ha pronunciato il suo giudizio definitivo: ha assolto i suoi carnefici, li ha salvati nel momento più glorioso della sua vita: quando, sulla croce, ha manifestato il massimo del suo amore.

Per noi un re trionfa quando vince, sconfigge, umilia. Tentiamo in tutti i modi di adeguare l’immagine di Cristo‑re a quella dei re di questo mondo. Non vogliamo credere che egli trionfa nel momento in cui perde, nel momento in cui dona la vita.

Questo sovrano che regna dall’alto di una croce ci disturba perché esige un cambiamento radicale delle scelte della nostra vita. Esige, per esempio, che si offra il perdono incondizionato a tutti coloro che ci fanno del male.

In questa prospettiva anche il giudizio finale non può essere temuto, ma va atteso con gioia perché… avverrà a parti invertite.

Alla fine non sarà Dio a giudicare noi, ma noi a “giudicare” lui.

Spogliati delle miserie, meschinità e grettezze che hanno appesantito la nostra mente e irrigidito il nostro cuore, curati dalla cecità spirituale che ci ha impedito di comprendere le Scritture (Lc 24,25), “contempleremo il suo volto” (Ap 22,4), “lo vedremo come egli è” (1 Gv 3,2). Allora saremo in grado di pronunciare un “giudizio” obiettivo su di lui. Stupiti saremo costretti ad ammettere: Dio è più grande del nostro cuore (1 Gv 3,20).

Per gentile concessione di
Settimana News