Le persone che dedicano la loro vita alla cura degli altri, e in modo particolare alla cura di coloro che sono stati scartati dalla società costituita proprio perché hanno invocato il riguardo e la compassione umana, rappresentano le truppe di prima linea dell’umanità. È dal loro coraggio e dalla loro determinazione che dipendono non solo il benessere delle persone sotto la loro tutela, ma anche la nostra umanità e quella della società che condividiamo.

di Zygmunt Bauman
Dall’Archivio della rivista
08.11.2025
Per gentile concessione della rivista
https://rivista.vitaepensiero.it
La portata di un ponte non si misura dalla forza media dei suoi piloni, ma dalla forza dei più deboli fra loro. Lo stesso vale per la “portata” della società, in altre parole per la sua qualità umana e per la sua ospitalità. La società è tanto umana quanto sono decenti e dignitose le condizioni di vita dei suoi membri più umili e meno autorevoli, e non un briciolo di più.
Mezzo secolo fa, durante i miei anni da studente, appresi dai miei professori di antropologia che la data di inizio della cultura o della “civiltà” (ossia di una società in tutto e per tutto umana) era stata determinata basandosi sul ritrovamento di uno scheletro umanoide di un maschio che era morto a trent’anni, ma che si era rotto una gamba e aveva iniziato a zoppicare durante l’infanzia. I miei professori mi spiegarono che solo all’interno di una società umana sarebbe stato possibile a una creatura simile sopravvivere fino all’età di trent’anni. Mi chiarirono, infatti, che la società umana si differenzia dalle mandrie, dai branchi o dalle orde di animali per la sua capacità e volontà di annoverare fra i suoi membri anche creature in cattive condizioni.
Ciò che imparai dai miei insegnanti, e che da allora non ho mai più dimenticato, fu che la compassione e il riguardo avevano sede nella culla della società umana e che il modo migliore per individuare una società umana è attraverso la sua opera “abilitante” (enabling), ossia quella che abilita a sopravvivere coloro che, altrimenti, da soli, non riuscirebbero a rimanere in vita. Erano proprio quella capacità e quella funzione abilitante a rendere umana la società e tutti i suoi membri (sia quelli che venivano curati, sia quelli che si prendevano cura di loro).
Per essere in tutto e per tutto umani e al sicuro nella nostra umanità, è necessario che altri uomini si prendano cura di noi e che noi abbiamo la convinzione che tali cure ci saranno offerte nel momento del bisogno. Tuttavia, per essere umani, è necessario anche essere morali: abbiamo bisogno di prenderci cura di altri uomini e dobbiamo essere pronti a scattare per correre in loro soccorso quando tale soccorso è richiesto. In sostanza, la società umana e l’umanità dei suoi membri sono costruite e si reggono sui rapporti del prendersi cura degli altri e dell’essere curati da loro.
È questa, in definitiva, la verità della società umana. Ma non è tutta la verità, purtroppo. Di fatto, la stessa società che abilita gli uomini inabili sa anche come marchiare ed etichettare alcuni uomini come “inabili” (disabled), quindi come inabilitare quegli uomini che, altrimenti, sarebbero in grado di condurre una vita umana, o come negare che essi ne sarebbero in grado.
“Inabilitare” (To disable) significa, secondo l’Oxford English Dictionary, rendere inabile, «dichiarare incapace, quindi denigrare, screditare». “Incapace di cosa?”, si potrebbe chiedere. Di rispondere a quegli standard, schemi e norme di comportamento che la società ha stabilito per i suoi membri. Fissare norme e standard presagisce il compito raccapricciante di segregare ed escludere: è improbabile, infatti, che si fisserebbero delle norme e degli standard se ci si aspettasse che tutti fossero in grado di attenersi ad essi e risultare conformi. Si potrebbe addirittura affermare che la distinzione fra gli “abili” e gli “inabili” è proprio il fine ultimo dello stabilimento delle norme.
Per di più, una volta che le norme sono state istituite e che lo è stato anche il test per i membri attuali e per quelli futuri che richiedono l’ammissione, alcune persone possono essere dichiarate preventivamente incapaci di superare la prova e, quindi, non idonee a presentarsi all’esame: possono essere “inabilitate” prima ancora che cerchino di dimostrare la loro capacità e senza che sia concessa loro l’opportunità di farsi valere. E poi, immancabilmente, la marchiatura conduce alla stigmatizzazione, a cui fanno seguito la denigrazione e lo screditamento. In fin dei conti, è proprio in questo modo che si stabilisce il potere delle norme su quanti sono tenuti a rispettarle e che si sostiene la virtù del rispetto delle norme stesse. Ogni norma seleziona i propri obiettivi.
Il fatto che le persone siano o meno dichiarate o rese inabili dipende dalla norma, non dalle loro qualità intrinseche (per opinione comune, nel “paese dei ciechi” che il narratore inglese H.G. Wells descrisse in un racconto breve dallo stesso titolo, un orbo da un occhio sarebbe stato un mostro disdegnato e temuto).
La nostra è una società di consumatori e una società individualistica. Ci si aspetta che i membri “normali” di tale società siano, anzitutto, “collezionisti di sensazioni”, raccoglitori di esperienze piacevoli sempre nuove e sempre più cospicue e, di conseguenza, che si aprano alle attrazioni e seduzioni del mercato dei consumi. Tale apertura è, in fin dei conti, il significato più profondo di quel “fitness fisico” che la nostra società esorta i suoi membri a sviluppare e preservare. L’ideale del “fitness” invoca un corpo che sia in grado di assimilare i piaceri disponibili sul mercato e che, allo stesso tempo, funga da violino finemente accordato sul quale possano risuonare i dolci accordi dei piaceri e del “proprietario” di un “corpo in forma” (fit), il quale è, nello stesso tempo, il violinista virtuoso e l’esperto conoscitore delle arti musicali.
In una vita controllata (o per meglio dire, guidata) dal mercato dei consumatori, è lecito aspettarsi che il culto del corpo e l’ossessione per il fitness fisico siano una “norma”. Un’altra norma da prevedere è quella del culto della giovinezza e dei giovani: l’adulazione dei giovani risponde, infatti, alla strategia della vita consumistica. Gli oggetti del consumo sono concepiti per essere destinati a un impiego usa e getta, oppure, in ogni caso, di breve durata. Dato che il loro potere di attrazione dipende soprattutto dal non-essere-mai-stati-provati-prima, il loro fascino svanisce rapidamente, perché possono essere “mai provati prima” solo finché non li si prova la prima volta… Oggi, questa idea risulta valida sempre più spesso anche per i cosiddetti “beni durevoli” (si pensi alle automobili, ai computer, ai telefoni cellulari, ai vestiti, ai mobili, ai luoghi di svago e alle letture preferite, o ai partner sessuali…).
Non c’è da stupirsi che in una società di consumatori sia lodata la giovinezza: i giovani, per definizione, pagano lo scotto in entrambi i ruoli, sia come consumatori, sia come oggetti del consumo. Gli anziani, d’altro canto, sono la personificazione di ciò che si trova in circolazione già da lungo tempo e che, ormai, non riserva più sorprese, quindi è sia “logoro” che blasé, ha provato tutto quello che c’era da provare e ha esaurito i rifornimenti delle nuove esperienze che potevano essergli offerte… Essere anziani è un “inabilitazione”, perché rappresenta la limitatezza dei desideri, la moderazione dei bisogni, l’insensibilità alle seduzioni del mercato; insomma, “essere anziani” risulta un anatema nella società dei consumatori.
A parte il denaro (o le carte di credito), un corpo in forma costituisce la principale risorsa necessaria per attenersi alle norme che regolano la società dei consumatori. Per quanto possano apparire diversi sotto altri aspetti, sia i cattivi pagatori sia coloro che sono “fuori forma dal punto di vista fisico” (bodily unfit) appartengono alla stessa categoria di “consumatori difettosi”, composta da quegli uomini o donne che non superano il test stabilito per i membri del tutto abilitati della società. Un corpo “fuori forma” (nel senso “consumistico” spiegato in precedenza), sia per ragioni di menomazione fisica, di esercizio fisico assente o fiacco, o di invecchiamento, simboleggia la trasgressione di una norma e tende per questo ad essere “denigrato e screditato”. Un corpo fuori forma trasgredisce e sfida quella regola che è promossa come universalmente vincolante e presentata come alla portata di tutti coloro che si impegnano abbastanza, ed è quindi percepito non solo come non funzionale, ma anche come oltraggioso dal punto di vista estetico.
Se a questo si aggiungono le conseguenze dell’individualismo sempre più rapido che induce a trattare “l’Altro” sulla falsariga degli oggetti di consumo (oggetti pensati per un impiego usa e getta o di breve durata e considerati utili esclusivamente per la loro capacità di dare piacere), appaiono davvero terribili le minacce che le trasformazioni in atto prospettano alla sostanza stessa della società umana, cioè a quella forma di unione e coabitazione che, come abbiamo visto, si fonda sulla (ed è tenuta insieme grazie alla) compassione e sul rispetto per gli altri.
Da una parte, visto che l’asta da saltare è stata collocata più in alto che mai, un numero di persone sempre maggiore rischia l'”inabilitazione” (disablement) e, di fatto, finiscono per essere “inabilitate” (disabled), perché sono prive della capacità di superare l’ostacolo. Dall’altra, in una società edonistica e accuratamente individualistica come la nostra, disuguaglianze che non sono mai state così evidenti intralciano quell’assunto morale che comporta sempre un certo grado di sacrificio personale e la disponibilità ad accantonare alcuni interessi particolari e privati. In una società come questa, prestare cure amorevoli agli altri per il bene altrui è deprecato, in quanto conduce a un’odiosa “dipendenza” e, per questo motivo, risulta un comportamento da evitare a ogni costo. Esiste, inoltre, la tendenza a condannare l’assunzione della responsabilità per il benessere dell’Altro, perché essa rappresenta una limitazione imprudente alla propria libertà di seguire il richiamo verso esperienze piacevoli.
I vincoli umani si fanno sempre più fragili e incerti (soprattutto revocabili e dichiaratamente transitori) e offrono un sostegno via via meno resistente all’impulso etico che, per questo, si trova a dover fare un affidamento sempre maggiore sulle proprie forze di convinzione e determinazione.
Le persone che dedicano la loro vita alla cura degli altri, e in modo particolare alla cura di coloro che sono stati scartati dalla società costituita proprio perché hanno invocato il riguardo e la compassione umana, rappresentano le truppe di prima linea dell’umanità. È dal loro coraggio e dalla loro determinazione che dipendono non solo il benessere delle persone sotto la loro tutela, ma anche la nostra umanità e quella della società che condividiamo.
(photo credit Narodowy Instytut Audiowizualny)
Zygmunt Bauman è stato un sociologo, filosofo e saggista polacco naturalizzato britannico