Un’anteprima dal volume di Pablo d’Ors Devozione, un nuovo libro personale e intenso, che unisce narrazione – la riscrittura dei Racconti di un pellegrino russo, un classico della spiritualità – e riflessione – il breve saggio sulla devozione (dalla cui prefazione è tratta questa anteprima), «sorella della meditazione»: dalla parola al cammino interiore, dalla «poetica» della scrittura alla «mistica» dell’esperienza spirituale. Un libro personale e intenso, per capire che il pellegrino russo è ciascuno di noi

di Pablo d’Ors
05.11.2025
Per gentile concessione della rivista
Vita e Pensiero
Da bambino, ero talmente devoto che spesso la domenica rimanevo per lunghi istanti affascinato di fronte alla tremula luce del tabernacolo in una delle cappelle laterali della chiesa in cui erano soliti portarmi i miei genitori. Univo le mani e intrecciavo le dita per raccomandarmi alla Vergine, non avrò avuto più di sette o otto anni; e recitavo un’Ave Maria dopo l’altra con un raccoglimento e un fervore che oggi, quando lo ricordo, mi risultano commoventi. Poco dopo, da adolescente, mi sentii imperiosamente attratto dalla meditazione e dall’orientalismo; e arrivai persino a sognare un viaggio in Tibet, che realizzai vent’anni più tardi. Durante quella fase sentivo il desiderio di vivere grandi avventure, sia in giro per il mondo sia dentro di me, per cui ben presto cominciai a leggere di filosofia e teologia, ancor prima di andare all’università. Provai in seguito un notevole interesse per la metafisica e per l’aldilà; e, siccome quella mia inquietudine non era meramente teorica o intellettuale, mi riproposi di coltivare quotidianamente, guidato da compagni ancor più ferventi di me, ciò che a quell’epoca si conosceva come vita di pietà: offerta delle azioni della giornata, Angelus, messa, rosario, visita al Santissimo, esame di coscienza… Costellare la giornata di quei piccoli cosiddetti atti di pietà fu per me decisivo.
Fu in quell’humus religioso e sentimentale che mi giunsero tra le mani i Racconti di un pellegrino russo, dai quali non mi sono più separato fino a oggi, quarant’anni dopo. Solo ora posso affermare che tale testo è stato, senza ombra di dubbio, uno dei due o tre fattori più decisivi nello sviluppo della mia personalità. Sebbene possa suonare come un’esagerazione, non conosco un altro viaggio mistico, di qualunque tradizione religiosa o filosofica, narrato con tanta grazia e insieme intelligenza e, soprattutto, capace di suscitare una tale emozione. Ma c’è di più: il personaggio del pellegrino russo è stato, a ben vedere, il mio primo maestro di preghiera; è stato lui a farmi capire che c’’era un metodo per arrivare a Dio e, com’è risaputo, le mappe rendono i viaggi più proficui.
Così mi sono fidato della sua proposta e ho cominciato a camminare. E Così mi sono fidato della sua proposta e ho cominciato a camminare. E continuo ancora adesso!
La recita della giaculatoria del pellegrino russo mi ha accompagnato per tutta la vita – devo qui ammetterlo –: a volte è stata protagonista assoluta, altre più in secondo piano.
Tutto sarebbe stato per me molto diverso se non avessi letto i Racconti di un pellegrino russo nella mia prima gioventù, come lo sarebbe stato anche, probabilmente, se non avessi letto Lo scherzo di Milan Kundera, nella mia seconda gioventù, oppure gli Esercizi di contemplazione di Franz Jalics, ormai nella maturità. Perché ci sono libri che cambiano la vita, e forse anche qualcuno dei miei – magari proprio questo, perché no? – trasformerà in meglio quella di qualcuno dei miei lettori. Se non scriviamo per suggellare la storia individuale di un determinato spirito, allora per cosa? Per sopravvivere su un foglio di carta? Per avere il proprio nome scolpito sulla pietra?
Voglio iniziare questo breve saggio sulla devozione (e con devozione mi riferisco non solo al sentimento di profondo rispetto, affetto e ammirazione che possono suscitare persone, cause o istituzioni, ma concretamente al fervore religioso) confessando che, quando mi siedo a meditare, ciò che faccio è sostanzialmente uguale a quanto facevo quarant’anni fa, quand’ero un giovanissimo studente di teologia e recitavo devotamente la preghiera del pellegrino.
La pratica dell’esicasmo, che nella sua essenza è il vincolo tra la giaculatoria (o mantra), il cuore e il silenzio contemplativo, mi ha fatto scoprire come la via della meditazione e quella della devozione siano sorelle.
Perché, come potrebbe meditare un cristiano senza accendere il proprio cuore? E meditare non è, in fin dei conti, custodire tutte queste cose nel cuore (Lc 2,19)?
Infatti, nella meditazione cristiana – anche nella modalità più nuda e spoglia di qualsivoglia forma – c’è sempre, o almeno quasi sempre, un tono caldo e affettivo proprio della relazione personale con Gesù Cristo. Non mi sto riferendo qui alla preghiera affettiva – nella quale primeggiano la componente volitiva e sentimentale –, ma alla vera preghiera contemplativa: un esercizio spirituale che comprende i desideri umani (come escluderli?), seppure al contempo li trascende.
In poche parole: la devozione religiosa può condurre al silenzio meditativo, e viceversa. Perché, di fronte all’amore, la risposta più sensata, la più autentica, non è semplicemente tacere e ammirare?