Come ristabilire l’unità della Chiesa se la liturgia non si basa sui Vangeli?
di Martin Pochon*
da: www.ilblogdienzobianchi.org

Con volontà di conciliazione, papa Leone XIV ha autorizzato, per la prima volta dal 2021, una celebrazione nella basilica di San Pietro a Roma secondo il rito antico, in latino, schiena al popolo. Alcuni se ne sono rallegrati, altri si pongono domande. Dietro le differenze dei riti, ci sono solo differeze di sensibilità? Non ci sono forse poste in gioco teologiche? Come ristabilire una unità ecclesiale se essa non è fondata sulle parole e sui gesti di Cristo stesso? Che cosa ci dicono i Vangeli? 

A chi si è offerto Gesù nella Cena? Rispondere a queste domande è essenziale, perché la Cena è il suo testamento spirituale, che dice il senso della sua vita, della sua morte e della sua resurrezione. Dice il senso della Croce: un’offerta del Figlio al Padre? O un’offerta di Dio agli uomini? Il concilio di Trento dichiara che “Gesù, durante la Cena, la notte stessa in cui fu consegnato, dichiarandosi lui stesso sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech, ha offerto a Dio, il Padre, il suo corpo e il suo sangue, sotto le specie del pane e del vino”. Questa affermazione erronea – Gesù non si è mai qualificato come “sacerdote dell’ordine di Melchisedech” – ha condotto a legittimare una tradizione già molto antica che faceva della Croce un sacrificio offerto a Dio Padre, cosa che non è conforme al senso della Cena.
 

In questa prospettiva, secondo il rituale della messa di san Pio V, il prete esercita un sacerdozio particolare che gli permette di presentare di nuovo a Dio l’unico sacrificio che suo Figlio gli ha offerto morendo sull’altare della Croce, soddisfacendo così alla giustizia divina. Il movimento è ascendente. Quattro secoli dopo, la riforma liturgica che è seguita al Concilio Vaticano II ha cercato di avvicinarsi al senso della Cena così come ci è presentata dai Vangeli e dall’apostolo Paolo nella prima Lettera ai Corinti. La Commissione incaricata di rivedere il rituale percepiva che l’affermazione tridentina era infondata, perché Gesù ha offerto il suo corpo e il suo sangue, non a Dio, ma ai suoi discepoli, nel nome del Padre. Che cosa dicono infatti i racconti della Cena? Durante il pasto, Gesù prende del pane e pronuncia la benedizione, cioè ringrazia Dio, fonte di ogni bene. Riceve quindi questo pane venuto da Dio, lo spezza e lo dà sia a Giuda che lo tradisce, sia a Pietro che lo rinnegherà.
 

Gli annunci del tradimento e del rinnegamento inquadrano strettamente la Cena. È in piena coscienza che Gesù, che si identifica nel pane e nel vino, si dona a tutti loro, anche ai violenti che lo conducono alla morte. Lui è il pane vivo, mandato dal Padre, che si dona ai peccatori, perfino a Giuda. Il movimento è “discendente”, è il movimento dell’Incarnazione: “Dio ha tanto amato il mondo che ci ha donato suo Figlio, il suo unico…”. E con la Resurrezione del Figlio, libera l’Uomo che la paura della morte rendeva schiavo.
 

È questa concezione che cerca di esprimere la messa di Paolo VI. Il diverso orientamento del prete rispetto all’assemblea esprime questo. Nella messa tridentina il prete, separato dal popolo, legittimato dall’ordinazione, nello spazio sacro del coro, su un altare – una pietra sopraelevata – offre a Dio il sacrificio del Figlio e lo supplica di gradire questa offerta. Nella messa di Paolo VI, il prete rivolto verso l’assemblea trasmette all’assemblea ciò che riceve da Gesù, che è colui che trasmette la vita, lo Spirito, ricevuto dal Padre. L’uso della lingua corrente, e non del latino, esprime la stessa cosa: Dio in Gesù si è fatto prossimo agli uomini e si è rivolto a loro nella loro lingua affinché lo comprendessero. Ci chiede di accogliere il dono che ci fa della sua vita. È vero che ci sono state delle derive, alcuni hanno avuto la tendenza a ridurre la messa a una “simpatica condivisione”. Rimane il fatto che, nella Cena e nella Passione, Gesù ci dona la sua vita fin nella morte, ed è importante che si sottolinei il mistero e la profondità di questo sacro dono.
 

Ha voluto venire in noi perché, nutriti dello stesso pane, noi formassimo un solo corpo; ha voluto che insieme diventassimo le pietre vive del tempio del suo Spirito, un corpo sacerdotale. Il che ci invita a proseguire la riforma avviata dal Vaticano II, invece di farci tornare indietro, come fa la nuova traduzione del Messale romano, che rivalorizza il vocabolario sacrificale.
 

* in “La Croix” del 27 ottobre 2025

Martin Pochon, biblista, gesuita, autore di L’eucharistie, don ou sacrifice? (ed. Vie Chrétienne, 2025)