Commento al Vangelo
XXXIII Domenica del Tempo ordinario (C)
Luca 21,5-19

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».
Non un capello andrà perduto
Il Vangelo ci guida lungo il crinale della storia: da un lato il versante oscuro della violenza, il cuore di tenebra che distrugge; dall’altro il versante della tenerezza che salva: neppure un capello del vostro capo andrà perduto.
Il Vangelo non anticipa le cose ultime, svela il senso ultimo delle cose. Dopo ogni crisi annuncia un punto di rottura, un tornante che svolta verso orizzonti nuovi, che apre una breccia di speranza. Verranno guerre e attentati, rivoluzioni e disinganni brucianti, ansie e paure, ma voi alzate il capo, voi risollevatevi.
Ma voi… è bellissimo questo «ma»: una disgiunzione, una resistenza a ciò che sembra vincente oggi nel mondo. Ma voi alzate il capo: agite, non rassegnatevi, non omologatevi, non arrendetevi. Il Vangelo convoca all’impegno, al tenace, umile, quotidiano lavoro dal basso che si prende cura della terra e delle sue ferite, degli uomini e delle loro lacrime, scegliendo sempre l’umano contro il disumano (Turoldo).
È la beatitudine degli oppositori: loro sanno che il capo del filo rosso della storia è saldo nelle mani di Dio. È la beatitudine nascosta dell’opposizione: nel mondo sembrano vincere i più violenti, i più ricchi, i più crudeli, ma con Dio c’è sempre un dopo. Beati gli oppositori: i discepoli non sono né ottimisti né pessimisti, sono quelli che sanno custodire e coltivare speranza. «Mentre il creato ascende… / tutto è doglia di parto / quanto morir perché la vita nasca» (Clemente Rebora).
E quand’anche la violenza apparisse signora e padrona della storia, voi rialzatevi, risollevatevi, perché nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; espressione straordinaria ribadita da Matteo 10,30 – i capelli del vostro capo sono tutti contati, non abbiate paura. Uomo e natura possono sprigionare tutto il loro potenziale distruttivo, eppure non possono nulla contro l’amore. Davanti alla tenerezza di Dio sono impotenti. Nel caos della storia, il suo sguardo è fisso su di me. Lui è il custode innamorato d’ogni mio più piccolo frammento. La visione apocalittica del Vangelo è la rivelazione che il mondo quale lo conosciamo, col suo ordine fondato sulla forza e sulla violenza, già comincia a essere rovesciato dalle sue stesse logiche. La violenza si autodistruggerà. Ciò che deve restare inciso negli occhi del cuore è l’ultima riga del vangelo: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, liberi, coraggiosi: così il Vangelo vede i discepoli di Gesù. Sollevate il capo, e guardate lontano, perché la realtà non è solo questo che si vede: c’è un Liberatore, il suo Regno viene, verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme.
Per gentile concessione di
AVVENIRE
Prima della fine
Clarisse Sant’Agata
La parola di Gesù di questa domenica illumina la nostra vita presente di una luce tenue ma sicura. Le tenebre della storia, con tutti gli eventi dolorosi che sempre la caratterizzano, non prevalgono, né possono soffocare la luce della parola di Gesù che apre per noi una via verso la vita.
Gesù pronuncia questo ultimo discorso nel tempio dove “durante il giorno insegnava” e “tutto il popolo andava da lui per ascoltarlo” (Lc 21,37-38).
Parola autorevole e dura, proclamata ormai in prossimità della sua passione e morte, che annuncia la fine di un tempo e l’inizio di uno nuovo. Finirà il tempo misurato dall’edificazione di sicurezze umane: il tempio, grandiosa costruzione che assicurava un rapporto con Dio (Lc 21,6); i legami naturali e sociali (Lc 21,16.9). E inizierà il tempo misurato dall’unico rapporto con Dio, così come la Pasqua di Gesù ce lo farà conoscere.
Lo scenario di rovina, di devastazione e di persecuzione non vuole descrivere una realtà lasciata alla deriva della propria violenza, ma il tempo favorevole della testimonianza. Luca sta dicendo che la rivelazione di chi siamo veramente, della nostra verità di figli di Dio e di discepoli di Gesù, si manifesta proprio nel tempo della “crisi” della storia. Questo tempo, che è il nostro, è lo scenario permanente in cui può emergere la testimonianza cristiana come forza inerme dentro la violenza della storia. Gesù ci prepara a vivere il tempo della nostra vita (con tutti i “crolli” che potrà sperimentare) nella fiduciosa consapevolezza di non essere abbandonati da Dio (“nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”).
Ma come riconoscere Dio presente in questa storia? Come possiamo vedere che la storia non va verso la rovina ma approda in Dio?
La parola di oggi ci indica due vie.
La prima è il discernimento, la capacità di “non lasciarsi ingannare” dalle cose/persone così come si presentano, e di “andare dietro” solo a ciò che rimane. Il rischio di lasciarsi ingannare è alto perché i falsi profeti che verranno “nel nome di Gesù” si presenteranno usando il suo linguaggio, le sue parole: “Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino” . “Sono io” è proprio il nome di Dio che risuona ripetutamente sulle labbra di Gesù nel vangelo di Giovanni e nei sinottici (cfr. Mt 14,27; Mc 6,50). “Il tempo è compiuto” inaugura il ministero di Gesù secondo il vangelo di Marco (Mc 1,15). Ma la pretesa di questi “falsi profeti” è menzognera perché solo “chi riconosce Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio” (1Gv 4,2), cioè solo chi riconosce che Dio salva attraverso la debolezza della carne del Figlio di Dio e si pone dietro a Lui, parla “in suo nome”. Chi viene veramente nel suo nome non dirà mai “sono io”, ma “tu sei”, cioè non si porrà mai al posto di Colui che salva, ma accetterà di seguirne le orme vivendo fino in fondo la sua pasqua dell’amore. Sarà discepolo attento a ricercare nel tempo presente, con le sue contraddizioni, i segni di ciò che rimane per sempre, senza restare abbagliato e accecato da ciò che passa.
La seconda via che la parola ci indica è la perseveranza, una della parole più belle che caratterizzano il discepolo di Gesù. Si tratta della capacità di “rimanere sotto” (secondo la traduzione letterale del termine greco), di resistere sotto le pressioni del tempo e della storia, in una appartenenza “indistruttibile”. La “perseveranza” è prima di tutto ciò che ha vissuto Gesù, il “Testimone fedele” lungo i giorni della sua vita nella carne, ma in modo più evidente nel tempo della sua passione, come capacità di portare il peso dell’amore e di ciò che l’amore chiede, fino alla fine. In definitiva, la perseveranza è possibile solo sapendo che c’è un legame indistruttibile con Colui che ti sta chiedendo di vivere quella storia con tutte le sue prove e contraddizioni.
La perseveranza è la virtù (intesa come forza) di chi si scopre dentro un amore che non può venire meno e proprio per questo può resistere, perseverare, rimanendo sotto ogni peso che gli eventi della storia presentano. Perseveranza è quindi caratteristica del discepolo in una comunione indissolubile con il suo maestro, che permette di attraversare le prove con una “forza” che viene da Lui: “voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (Lc 22,28), dice Gesù. “Tutto posso in Colui che mi da la forza” (Fil 4,13), dice il discepolo.
E questo è possibile perché è l’amore che “tutto sopporta” (1Cor 13), cioè che rimane sotto il peso dei colpi che la vita ci procura per far emergere tutta la nostra verità e bellezza di figli nel Figlio e di discepoli fedeli di Lui.
http://www.clarissesantagata.it
Il tempo della fine
Enzo Bianchi
L’anno liturgico volge al suo termine e il nostro cammino riprenderà con il tempo di Avvento, inizio di un nuovo anno. Eccoci dunque in contemplazione delle realtà ultime, alle quali tende la nostra attesa: il Signore Gesù apparirà nella gloria come il Veniente. È Gesù stesso che sul finire dei suoi giorni terreni prima della sua passione e morte, mentre si trova a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua, di fronte al tempio, stimolato da una domanda dei suoi discepoli delinea “il giorno del Signore” (jom ’Adonaj) quale giorno della sua venuta.
Il tempio di Gerusalemme, la cui ricostruzione da parte di Erode era iniziata circa cinquant’anni prima, appariva come una costruzione sontuosa, che impressionava chi giungeva a Gerusalemme. Essa non era come le altre città capitali: era “la città del gran Re” (Sal 48,3; Mt 5,35), il Signore stesso, meta dei giudei residenti in Palestina o provenienti dalla diaspora (da Babilonia a Roma), la città sede (luogo, maqom) della Shekinah, della Presenza di Dio. Il tempio nel suo splendore ne era il segno per eccellenza, tanto che si diceva: “Chi non ha visto Gerusalemme, la splendente, non ha visto la bellezza. Chi non ha visto la dimora (il Santo), non ha visto la magnificenza”.
Anche i discepoli di Gesù nella valle del Cedron, di fronte a Gerusalemme, o sul monte degli Ulivi erano spinti all’ammirazione. Ma Gesù risponde: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”, parole che per i giudei suonavano come una bestemmia, al punto che saranno uno dei capi di accusa contro Gesù nel processo davanti al sinedrio (cf. Mc 14,58; Mt 26,61). Gesù non vuole negare la bellezza del tempio, né decretarne la distruzione, ma vuole avvertire i discepoli: il tempio, sebbene sia casa di Dio, sebbene sia una costruzione imponente, non deve essere oggetto di fede né inteso come una garanzia, una sicurezza. Purtroppo, infatti, il tempio di Gerusalemme era diventato destinatario della fede da parte di molti contemporanei di Gesù: non al Dio vivente ma al tempio andava il loro servizio, e la loro fede-fiducia non era più indirizzata al Signore, ma alla sua casa, là dove risiedeva la sua Presenza…
Gesù, del resto, non fa altro che ammonire il popolo dei credenti, come aveva fatto secoli prima il profeta Geremia: “Non basta ripetere: ‘Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore!’, e pensare che esso possa salvare, ma occorre vivere secondo la volontà di Dio, praticare la giustizia”(cf. Ger 7,1-15). Più in generale, le parole di Gesù erano fedeli all’annuncio dei profeti, che più volte avevano ammonito i credenti, mettendoli in guardia dal rischio di trasformare uno strumento per la comunione con Dio in un inciampo, un luogo idolatrico, una falsa garanzia di salvezza. E Gesù con il suo sguardo profetico vede che il tempio andrà in rovina, sarà distrutto, non sarà capace di dare salvezza a Israele.
Di fronte a questo annuncio del loro Maestro, i discepoli hanno una reazione di curiosità: “Quando accadrà questo? Ci sarà un segno premonitore?”. A questi interrogativi Gesù non risponde puntualmente, non formula predizioni, ma piuttosto avverte i discepoli su come è necessario prepararsi per “quel giorno” che viene. Nessuna data, nessuna risposta precisa alle febbri apocalittiche sempre presenti nella storia, tra i credenti, nessuna immagine terroristica come segno, ma delle indicazioni affinché i credenti vadano in profondità, leggano i segni dei tempi e vivano con vigilanza il proprio oggi, mai dimenticando, ma al contrario conservando la memoria della promessa del Signore e attendendo che tutto si compia.
Il primo avvertimento di Gesù è una messa in guardia di fronte a quelli che si presentano come detentori del Nome di Dio: “Egó eimi, Io sono”. Tale pretesa coincide con l’arrogarsi una centralità, un primato e un’autorità che appartengono solo al Signore. Mai il credente discepolo di Gesù può affermare: “Io sono”, ma piuttosto deve sempre proclamare: “Io non sono” (cf. Gv 1,20-21) e fare segno, indicare il Cristo Signore (cf. Gv 1,23-36). Purtroppo gli umani cercano sempre un idolo in cui mettere fede, una sorta di tempio che li garantisca e – come insegna tristemente la storia – finiscono per trovarlo o in persone che vengono nel nome di Gesù ma in realtà sono contro di lui, o in istituzioni umane: istituzioni liturgiche, teologiche, giuridiche, politiche, che magari si proclamano volute da Cristo stesso, mentre in realtà sono scandalo e contraddizione alla fede autentica! Gesù avverte: “Non andate dietro (opíso) a loro”, perché l’unica sequela è quella indicata da Gesù stesso e testimoniata dal Vangelo. Senza dimenticare che quando Luca, verso l’80 d.C., mette per iscritto queste parole di Gesù, conosce quante volte falsi profeti e impostori si sono presentati al popolo (cf. At 5,36-37; 21,38).
I cristiani, inoltre, devono saper distinguere la parousía, la venuta finale, accompagnata da eventi che mettono fine a questo mondo, da avvenimenti sempre presenti nella storia: guerre, rivoluzioni, terremoti, carestie, cadute di città, tra cui la stessa Gerusalemme… Oltre a ciò, vanno messe in conto le violente persecuzioni che i discepoli di Gesù conosceranno fin dai primi giorni della vita della chiesa (cf. At 4,1-31). Come Gesù è stato perseguitato fino alla morte, così pure avverrà per i suoi discepoli e le sue discepole, perché le autorità religiose non possono accogliere la buona notizia del Vangelo, la fine dell’economia del tempio, la fine del primato della Legge e del vincolo della discendenza giudaica; e le autorità politiche non possono sopportare la giustizia vissuta e predicata da Gesù! Ma cosa sono le persecuzioni se non un’occasione di rendere testimonianza a Cristo? Il discepolo lo sa: guai se tutti dicono bene di lui (cf. Lc 6,26), ma beato quando lo si insulterà, lo si accuserà e lo si calunnierà dicendo ogni male di lui, solo perché egli rende eloquente nella sua vita il Nome di Cristo (cf. Lc 6,22; Mt 5,11). E questo non accadrà solo nell’ordinarietà dei giorni, ma ci saranno anche dei tempi e dei luoghi in cui i cristiani saranno arrestati e condotti a giudizio davanti alle autorità religiose, gettati in prigione e trascinati davanti ai governanti e ai potenti di questo mondo, quelli che esercitano il potere e opprimono i popoli, ma si fanno chiamare benefattori (cf. Lc 22,25).
Ma il discepolo sa che nulla potrà separarlo dall’amore di Cristo, né la persecuzione, né la prigione, né la morte (cf. Rm 8,35). Anzi, Gesù gli assicura che nell’ora del processo gli saranno date parola e sapienza per resistere ai persecutori, che non potranno contraddirlo. In ogni avversità, anche da parte di parenti, familiari e amici, il cristiano non deve temere nulla. Deve solo continuare a confidare nel Signore Gesù, accogliendo la sua promessa: “Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. Ecco la virtù cristiana per eccellenza, l’hypomoné, la perseveranza-pazienza: è la capacità di non disperare, di non lasciarsi abbattere nelle tribolazioni e nelle difficoltà, di rimanere e durare nel tempo, che diviene anche capacità di sup-portare gli altri, di sopportarli e di sostenerli. La vita cristiana, infatti, non è l’esperienza di un momento o di una stagione della vita, ma abbraccia l’intera esistenza, è “perseveranza fino alla fine” (cf. Mt 10,22; 24,13), continuando a vivere nell’amore “fino alla fine”, sull’esempio di Gesù (Gv 13,1). Ecco perché questa pagina evangelica non parla della fine del mondo, ma del nostro qui e ora: la nostra vita quotidiana è il tempo della difficile eppure beata (cf. Gc 5,11) e salvifica perseveranza.
Per gentile concessione dell’autore
Un Padre amoroso che ha cura perfino dei nostri capelli
Romeo Ballan
La fine del mondo, o il fine (lo scopo, il senso) del mondo? La parola di Gesù (Vangelo) non è proprio così catastrofica, come sembra a prima vista, ma piuttosto rivelatrice del mistero amoroso della vita e del cosmo. La conclusione ormai prossima dell’anno liturgico e dell’anno civile ispira la scelta di testi biblici complessi, dove piani diversi si sovrappongono: la distruzione della bella città di Gerusalemme (v. 6), guerre fra popoli, terremoti e altre calamità, segni grandi dal cielo tali far pensare all’imminente fine di tutto (v. 9-11). Luca usa un linguaggio dai toni accesi, anzi roventi, come dice il profeta Malachia (I lettura), il quale si scagliava contro i superbi e gli ingiusti,destinati a bruciare come paglia (v. 19); mentre il Signore proteggerà con raggi benefici i cultori del suo nome (v. 20).
Il genere letterario detto ‘apocalittico’, proprio di queste letture, più che incutere terrore, è portatore di una rivelazione, di un messaggio di salvezza. ‘Apocalisse’ significa ‘rivelazione – svelamento’. Infatti, l’ultimo libro della Bibbia, con un linguaggio poetico e misterioso, presenta la fine del mondo non come catastrofe ma come evento di speranza e di vita: cieli nuovi e terra nuova, come un banchetto di nozze (Apoc 21,1-2). Sempre, la Parola di Dio, anche se apocalittica, illumina, giudica, salva, consola…; si fa più vicina nelle prove della vita e della fede. Con le parole «non sarà lasciata pietra su pietra» (Lc 21,6) Gesù non vuole fare paura, né preannuncia la fine del mondo. Non è di questa che dobbiamo occuparci, ma di vivere con responsabilità il nostro tempo: interessarci del fine del mondo e del senso della storia, dare senso alla nostra vita; aver cura della nostra casa comune, creare una terra di fraternità tra tutti i popoli, una dimora di pace, di rispetto mutuo, riconciliazione e misericordia.
La comunità del Vangelo di Luca (intorno agli anni 70-80) stava soffrendo persecuzioni e morte da parte di forze esterne (impero, sinagoga, tribunali…, v. 12); ma soffriva anche per debolezze all’interno (abbandoni, tradimenti, odio…), sempre per causa del nome di Gesù (v. 17). Perciò Luca scrive queste parole di Gesù, il quale mette in guardia i suoi seguaci dagli annunci ingannevoli (v. 8); li invita a non lasciarsi terrorizzare da guerre e rivoluzioni (v. 9). Le persecuzioni saranno per loro un tempo di grazia, un kairòs, una “occasione di rendere testimonianza” del nome di Gesù (v. 13), nella certezza della Sua speciale assistenza: il Signore metterà sulle loro labbra le parole sapienti per il momento opportuno (v. 15). E per rassicurarli, Gesù usa un’immagine concreta, per nulla banale: anche i capelli del vostro capo sono tutti contati e importanti (v. 18).
Abbiamo un Dio che ‘perde tempo’ ad aver cura dei capelli che abbiamo in testa! Se Dio ha cura anche dei frammenti, se mette la sua onnipotenza a servizio anche delle cose piccole, se è un Padre che si prende cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo (cf. Mt 6,26s), quanto più avrà cura dei suoi figli. Di qui l’invito ai cristiani a perseverare nella prova, per quanto dura, con la certezza dell’esito finale (v. 19), grazie al sostegno perenne e provvidente del Padre. La storia dei martiri di ogni epoca (ne ricordiamo alcuni nei prossimi giorni: i martiri del Paraguay il 16 novembre, Cecilia il 22, Agostino Pro il 23, i martiri del Vietnam il 24) dà prova della verità e fedeltà della parola di Gesù. Egli sostiene quanti Gli rendono testimonianza. Il cristiano è persona di speranza: continua a seminare con pazienza, sempre pronto a ricominciare. Con perseveranza e fiducia in Dio. La storia dell’evangelizzazione del mondo è costellata della presenza amorosa del Signore verso i suoi figli.
Le prove passano, la missione si estende: i frutti restano e sono segni di vita. Nel campo del Signore c’è posto e lavoro per tutti quelli che vogliono impegnarvisi. Paolo invita i fedeli di Tessalonica (II lettura) a mettere in atto le proprie capacità a beneficio degli altri, rifuggendo dal vivere “disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione” (v. 11). L’apostolo non esita a proporsi “come esempio da imitare”, in quanto ha “lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno” (v. 8–9). Un richiamo, certamente, ed un modello per ogni operaio del Vangelo!
Coraggio, alzate il capo!
Fernando Armellini
Quando si verificano sconvolgimenti politici, quando ci sono guerre, fame, pestilenze e la situazione di miseria diviene intollerabile, si diffondono facilmente dicerie sulla fine del mondo. Per dar credito alle loro farneticazioni, gli adepti delle sette fondamentaliste si rifanno anche ad alcuni testi biblici. Il più citato è il seguente: “Negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio” (2 Tm 3,1-4).
Queste situazioni di disagio si riscontrano in ogni epoca, perciò chi vuole fare previsioni sulla fine del mondo non ha difficoltà a stabilire delle date. È ciò che fanno i Testimoni di Geova.
Gli ultimi tempi per gli autori del NT non sono quelli che verranno fra milioni d’anni, ma quelli in cui stiamo vivendo, quelli che sono iniziati con la Pasqua.
Non è facile capire il senso di ciò che sta accadendo in questi ultimi tempi. I nostri occhi sono come velati, appannati. Troppe realtà rimangono avvolte nel mistero: disgrazie, assurdità inspiegabili, contraddizioni, segni di morte. Difficile scorgere un progetto di Dio in tutto questo.
Impiegando un linguaggio e delle immagini apocalittiche, Gesù vuole togliere il velo che c’impedisce di vedere il mondo con gli occhi di Dio. Quando egli sembra annunciare la fine del cosmo, non sta riferendosi “alla” fine del mondo, sta aiutandoci a capire “il” fine del mondo.
Apocalisse non significa catastrofe, ma rivelazione, svelamento.
Abbiamo bisogno che la parola di Cristo ci illumini e, fra gli sgorbi tracciati dagli uomini, ci permetta di scorgere i tratti del capolavoro che il Signore sta dipingendo.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Signore stammi vicino, ho posto in te la mia speranza”.
Prima Lettura (Ml 3,19-20)
Così dice il Signore: 19 “Ecco, sta per venire il giorno rovente come un forno.
Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà – dice il Signore degli eserciti – in modo da non lasciar loro né radice né germoglio.
20 Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici e voi uscirete saltellanti come vitelli di stalla.
Il profeta Malachia vive in un tempo molto difficile. Gli esuli deportati a Babilonia nel 587 a.C. sono tornati ormai da parecchi anni. Si sono fidati delle parole dei profeti che avevano assicurato un regno di pace e di giustizia, eccoli invece in una società dove i furti, i soprusi, le violenze contro i deboli non accennano a diminuire. Ci sono tutte le ragioni per perdere la fiducia in Dio e nei mediatori della sua parola, i profeti. Alcuni cominciano a manifestare apertamente la loro delusione e il loro sconforto: “È inutile – dicono – servire Dio. Che vantaggio riceviamo dall’aver osservato i suoi comandamenti o dall’aver camminato in lutto davanti al Signore degli eserciti? Dobbiamo invece proclamare beati i superbi che, pur facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti” (Ml 3,14-15).
Malachia sente questo genere di discorsi e non s’indigna. Capisce che quando si ha il cuore amareggiato ci si sfoga in questo modo. Capisce che il popolo non ha bisogno di rimproveri, ma di parole di consolazione e di speranza, per questo cerca di infondere coraggio. È vero – dice – che le circostanze sono drammatiche, ma non si può vacillare, bisogna continuare fedeli al Signore e presto si vedrà la differenza fra il giusto e l’empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve (Ml 3,18).
È a questo punto che inizia la nostra lettura.
“Sta per venire – annuncia Malachia – il giorno rovente come un forno…” (v.19). Il Signore ha deciso di colpire i malvagi e di far trionfare i giusti, sta per provocare un grande incendio, sta per inviare un diluvio di fuoco, terribile. Coloro che commettono ingiustizia saranno bruciati come paglia, mentre per i giusti “sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici” (vv.19-20).
Altri profeti hanno parlato di questo sconvolgimento cosmico e all’immagine del fuoco ne hanno aggiunte altre. Hanno detto: nel momento del passaggio dal mondo antico al mondo nuovo, il sole e la luna cesseranno di dare la loro luce e le stelle cadranno (Gl 2,10-11); quello sarà un giorno d’ira, di angoscia, di afflizione, di rovina, di sterminio e gli uomini tremeranno dallo spavento (Sof 1,14-18).
Cosa significano queste espressioni drammatiche? Si tratta di immagini o, come sostengono i seguaci di certe sette, di informazioni su ciò che accadrà alla fine del mondo?
Di questi cataclismi, di queste catastrofi si parla non solo nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ma soprattutto nella cosiddetta letteratura apocalittica che ha raggiunto il suo apice proprio al tempo di Gesù e degli apostoli.
Si tratta di immagini colorite che sarebbe ingenuo e fuorviante interpretare alla lettera.
L’ira di Dio non è che un’espressione del suo incontenibile amore. Con questo antropomorfismo – molto frequente nella Bibbia – il profeta vuole mettere in risalto la passione del Signore per il suo popolo che sta soffrendo, vuole ricordare a tutti la serietà del suo amore, il suo coinvolgimento nel patto che lo lega all’uomo e, infine, la sua vittoria contro ogni male, contro ogni ostacolo che si frapponga alla sua opera di salvezza.
Il fuoco non è appiccato alle persone, ma scagliato contro tutto ciò che impedisce all’uomo di vivere: l’ingiustizia, l’invidia, la bramosia di arricchire, gli odi, le violenze, la corruzione morale.
Il fuoco è l’immagine dell’intervento di Dio nel mondo per porre fine ad ogni forma di male. Come nessun filo d’erba secca può sfuggire alle fiamme, così nessuna forma di male – dice il profeta – potrà sottrarsi all’intervento purificatore e salvatore di Dio.
Il messaggio di questa prima lettura, pertanto, non è di paura, ma di consolazione e di speranza.
Quando Malachia afferma che gli empi saranno distrutti, non sta affermando che il Signore un giorno punirà severamente i cattivi scagliandoli nelle fiamme dell’inferno.
Il suo fuoco annienta, come paglia, non gli uomini, ma il male che è in ogni uomo.
Il popolo che ha ascoltato questo messaggio incoraggiante e forse lo stesso Malachia pensavano a un intervento risolutore di Dio immediato o a breve termine.
Non accadde nulla.
Ci saremmo allora aspettati che gli israeliti, delusi, avessero accantonato tutti questi oracoli di bene considerandoli abbagli, allucinazioni, sogni di profeti illusi, invece li hanno conservati e hanno continuato ad attendere con fiducia incrollabile la venuta del “giorno rovente come un forno” e l’apparizione del “sole di giustizia”.
Alla luce della Pasqua, oggi siamo in grado di rileggere e di comprendere questi testi.
Il sole di giustizia è Gesù, il giorno rovente come un forno è quello della sua morte e risurrezione, il fuoco che distruggerà tutto il male è lo Spirito che egli ci ha inviato, è la sua Parola, il suo Vangelo che ha già cominciato a rinnovare la faccia della terra.
Il mondo nuovo, il regno di Dio, è in mezzo a noi, anche se dovremo attendere la fine per verificare il pieno trionfo del bene nel cuore di ogni uomo.
Seconda Lettura (2 Ts 3,7-12)
Fratelli, 7 sapete come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. 9 Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. 10 E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi.
11 Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. 12 A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace.
Nella comunità di Tessalonica si stavano diffondendo dicerie pericolose: alcuni cristiani fanatici affermavano che questo mondo era ormai giunto alla fine e che Gesù stava per tornare e dare inizio ad un mondo e ad un’umanità nuova. Queste insensatezze derivavano da presunte visioni e da rivelazioni che qualcuno sosteneva di avere ricevuto da Dio.
Le storie che questi esaltati mettevano in circolazione turbavano notevolmente la comunità.
Alcuni si erano convinti che, essendo imminente il ritorno di Cristo, non valeva la pena di continuare a lavorare. Perdevano tempo in pettegolezzi e vivevano alle spalle degli altri, gettando nel discredito e nel ridicolo tutti i credenti (v.11).
La situazione diveniva sempre più preoccupante e scandalosa.
Paolo fu costretto a intervenire.
Nell’ultima parte della sua seconda lettera richiama decisamente i Tessalonicesi. Ricorda loro anzitutto l’esempio della sua vita: io non sono mai stato un fannullone – dice – non sono mai stato di peso a nessuno; ho annunciato il Vangelo gratuitamente e non ho accettato elemosine. “Ben sapete… che ho lavorato con fatica e sforzo, giorno e notte, per non essere di peso ad alcuno di voi” (v.8).
L’indipendenza economica è un motivo di grande orgoglio per Paolo che più volte nelle sue lettere ritorna sull’argomento (1 Ts 2,9; 1 Cor 4,12; 2 Cor 11,7-10; 12,13-18). Agli anziani di Efeso dice: “Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani” (At 20,33-34).
Dopo aver presentato l’esempio della propria vita, Paolo cita ai tessalonicesi un proverbio popolare: “Chi non vuol lavorare neppure mangi” (v.10) e, una volta ancora, ricorda ai cristiani la necessità di vivere del proprio lavoro (v.12).
Il “mondo nuovo” è un dono di Dio, ma per essere costruito ha bisogno dell’impegno dell’uomo.
Chi non lavora, chi non mette a disposizione dei fratelli tutte le sue capacità non collabora alla costruzione del regno di Dio.
Vangelo (Lc 21,5-19)
Luca scrive il suo Vangelo verso l’anno 85 d.C.: nei cinquant’anni che sono trascorsi dalla morte e risurrezione di Gesù sono accaduti fatti tremendi. Ci sono state guerre, rivoluzioni politiche, catastrofi, il tempio di Gerusalemme è stato distrutto, i cristiani sono vittime di ingiustizie e persecuzioni.
Come spiegare avvenimenti tanto drammatici?
Qualcuno ricorre alle parole del Maestro: “Vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti… metteranno le mani su di voi” (vv.11-12). Ecco la spiegazione! – si comincia a dire – Gesù aveva previsto tutto.
Le disgrazie (specialmente la distruzione del tempio di Gerusalemme) sono segni della fine del mondo che si avvicina e del Signore che sta per tornare sulle nubi del cielo.
Il Vangelo di oggi vuole rispondere a queste false attese e corregge l’interpretazione errata che alcuni davano alle parole del Maestro.
Già allora il suo linguaggio apocalittico si prestava ad essere frainteso.
Esaminiamo il brano nei dettagli.
Alcune persone si accostano a Gesù che si trova nel tempio e lo invitano ad ammirarne la bellezza: le enormi pietre di calcare bianco squadrate in modo perfetto dagli operai di Erode, le decorazioni, gli ex-voto, la vite d’oro che pende dalle pareti del vestibolo e che si estende sempre più attraverso i tralci offerti dai fedeli, la facciata ricoperta di placche d’oro dello spessore di una moneta… Con ragione i rabbini sostenevano: “Chi non ha visto il tempio di Gerusalemme non ha contemplato la più bella fra le meraviglie del mondo”.
La risposta di Gesù è sorprendente: “Di tutto quello che ammirate non resterà pietra su pietra”. Stupiti allora gli chiedono: “Quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?” (vv. 5-7).
Gesù non può specificare la data: non la conosce, come non conosce il giorno e l’ora della fine del mondo (Mt 24,36). Egli non è un mago, un indovino, per questo non risponde.
Come mai Luca introduce questo episodio? Lo fa per una sua preoccupazione pastorale: vuole mettere in guardia le sue comunità da chi confonde i sogni con la realtà. Alcuni esaltati attribuivano a Gesù predizioni che erano soltanto frutto di speculazioni stravaganti.
L’evangelista invita i cristiani a smettere di inseguire fole ed a riflettere sull’unica cosa che deve interessare: cosa fare, concretamente, per collaborare all’avvento del mondo nuovo, del regno di Dio.
I “falsi profeti” hanno sempre rappresentato un pericolo serio per le comunità cristiane e Luca ricorda che anche Gesù si è premurato di mettere in guardia i suoi discepoli da coloro che assicurano che la fine del mondo è vicina. Ha raccomandato vivamente: “Non seguiteli!” (vv. 8-9). La fine non verrà presto; la gestazione del mondo nuovo sarà difficile e lunga.
Cosa accadrà nel tempo che intercorre tra la venuta del Signore e la fine del mondo?
Gesù risponde a questa domanda ricorrendo al linguaggio apocalittico.
Parla di sollevazioni di popoli contro popoli, di terremoti, carestie e pestilenze, di fatti terrificanti, di segni grandi nel cielo (vv. 10-11). Questi verranno ripresi ed esplicitati poco dopo: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte” (Lc 21,25-26). Che intende dire?
Una delle idee ricorrenti al tempo di Gesù era che il mondo fosse ormai troppo corrotto e che presto sarebbe stato sostituito da una realtà nuova fatta germogliare da Dio. Si diceva che nel momento del passaggio dall’antico al nuovo, gli uomini sarebbero stati colti da grande spavento, i popoli e le nazioni sarebbero stati sconvolti, ci sarebbero state violenze, malattie, disgrazie, guerre. Il sole sarebbe apparso durante la notte e la luna durante il giorno; gli alberi avrebbero cominciato a versare sangue, le pietre a spezzarsi e a lanciare urla.
Questo linguaggio, queste immagini erano molto note.
Gesù se ne serve per dire ai discepoli che è imminente il passaggio fra le due epoche della storia. Il suo è un annuncio di gioia e di speranza: chi è nel dolore e attende il regno di Dio deve sapere che sta per spuntare l’aurora di un nuovo, splendido giorno. Ecco la ragione per cui esorta i discepoli a non spaventarsi: non vi terrorizzate (v.9) e, un poco oltre, raccomanda: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28).
Dopo aver invitato a considerare il tempo di attesa del suo ritorno come una gestazione che prepara il parto, Gesù preannuncia le difficoltà che i suoi discepoli dovranno affrontare (vv.12-19).
Quale sarà il segno che il regno di Dio sta nascendo e per instaurarsi nel mondo?
Non i trionfi, gli applausi, l’approvazione degli uomini, ma le persecuzioni.
Gesù prevede per i suoi discepoli: la prigione, le calunnie, il tradimento da parte degli stessi familiari e dei migliori amici.
In queste situazioni difficili essi potranno essere tentati di scoraggiarsi, penseranno di avere sbagliato le scelte della loro vita.
Perché sopportare tante sofferenze e fare tanti sacrifici? Tutto inutile: gli empi continueranno sempre a prosperare, a commettere violenze, ad avere la meglio sui giusti. Gesù risponde che questo non accadrà. Dio guida gli avvenimenti della vita degli uomini e orienta anche i progetti dei malvagi al bene dei suoi figli ed alla instaurazione del Regno.
“Mettetevi bene in mente di non preparare la vostra difesa” – raccomanda ancora. Che significa? I discepoli dovranno forse attendersi liberazioni miracolose?
No. Gesù li mette in guardia dal pericolo di fidarsi dei ragionamenti e dei calcoli che sono soliti fare gli uomini.
Se i suoi discepoli crederanno di potersi difendere utilizzando la logica di questo mondo, invece di quella di Dio, si porranno sullo stesso piano dei loro oppositori e perderanno.
Dovranno accettare serenamente il fatto che essi non possono ricorrere ai metodi di chi li perseguita: la calunnia, l’ipocrisia, la corruzione, la violenza. Dovranno convincersi che la loro forza sta in ciò che gli uomini considerano fragilità e debolezza. Sono pecore in mezzo ai lupi, non possono travestirsi da lupi.
Se davvero saranno coerenti con le esigenze della loro vocazione, sarà Gesù, buon pastore, a difenderli. Darà loro una forza alla quale nessuno potrà resistere: la forza della verità, dell’amore, del perdono.
Infine Gesù richiama un’espressione molto usata al suo tempo: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. Non promette di preservare i suoi discepoli da qualunque sventura e pericolo. I cristiani perseguitati non devono attendersi liberazioni miracolose: perderanno i loro beni, il lavoro, la reputazione e forse anche la stessa vita a causa del Vangelo. Tuttavia, nonostante le apparenze contrarie, il regno di Dio continuerà ad avanzare.
Coloro che hanno sacrificato se stessi per Cristo, forse non coglieranno i frutti del bene che hanno seminato, ma devono coltivare la gioiosa certezza che i frutti saranno abbondanti. In questo mondo non verrà riconosciuto il valore del loro sacrificio. Saranno dimenticati, forse maledetti, ma Dio – ed è il suo giudizio quello che conta! – darà loro la ricompensa nella risurrezione dei giusti.
Per gentile concessione di
http://www.settimananews.it