SAPIENZA:
nell’intimo dei cuori e nella storia
Dio si rivela e chiama l’uomo ad aprirsi al suo Mistero
Pino Stancari sj
L’uomo è chiamato alla vita
capitoli 1-2 (estratti)
Il Libro della Sapienza, la cosiddetta sapienza di Salomone (questo è il titolo tradizionale del libro) è, probabilmente, il più recente dell’Antico Testamento; si colloca negli ultimi decenni del I° secolo a.C.; dunque un testo che sta proprio sulla soglia del Nuovo Testamento. E’ l’espressione matura che eredita tutta la ricchezza di un percorso giunto al suo compimento e ce la trasmette. Lungo i secoli il termine “sapienza” (è un’altra di quelle “parole” che potrebbe essere studiata) non significa sempre la stessa cosa. Siamo inseriti nell’alveo di un’unica tradizione ma quando si dice “sapienza” nel linguaggio biblico che cosa si intende?
Questa “sapienza” ha una fisionomia piuttosto artigianale: il sapiente, in questo caso, non è uno specialista, non è un tecnico, anzi è un pover’uomo qualunque, è un uomo di questo mondo, è ogni persona umana che è alle prese con quella realtà complessa e misteriosa che è la sua vocazione alla vita. La capacità di dialogare con il mistero che è nel mondo, per dirla adesso in modo sintetico.
In questo senso la ricerca sapienziale è allo stesso tempo una ricerca religiosa: l’uomo sapiente è automaticamente, intrinsecamente da identificare con un uomo aperto alla relazione con il mistero. La sapienza è la capacità di dialogare con il mistero.
Nel corso del tempo “sapienza” assume un significato diverso, pur conservando una certa continuità. La prospettiva cambia e, a un certo momento, “sapienza” è rivelazione o, meglio, il rivelarsi di Dio. Diventa un’entità teologica, anzi massimamente tale rispetto a quella “sapienza” che è la qualità della vita umana. E siamo sulla soglia del Nuovo Testamento, siamo al nostro libro: di fatto siamo al Nuovo Testamento dove per “sapienza” si intende il rivelarsi di Dio che ha le sue strade, le sue modalità; che si esprime con il suo linguaggio, che interviene secondo le sue intenzioni. Ecco il senso fortemente teologico: Sapienza di Dio è il rivelarsi di Dio, il suo modo di esprimersi, di far comprendere i suoi disegni, di essere presente e operante sulla scena del mondo e così via.
Il libro della Sapienza è espressione molto raffinata di una competenza che è propria dell’arte retorica ellenistica. E’ scritto in greco; è uno dei libri deuterocanonici dell’Antico Testamento, scritto direttamente in quella lingua da chi sa il fatto suo: normalmente si dice Alessandria d’Egitto, uno dei grandi centri accademici. Abbiamo a che fare con un giudeo della diaspora – la comunità giudaica di Alessandria d’Egitto è qualificatissima – che ha acquisito tutto le competenze che sono trasmesse nelle accademie del mondo ellenistico. E Alessandria è un grande centro. Più esattamente ancora il libro della Sapienza è la redazione letteraria di un discorso, di un sermone, di un encomio: è una delle forme tipiche dell’arte retorica, il panegirico che ha certe sue modalità, strutture, passaggi. In questo caso contiene l’encomio della Sapienza dove l’interlocutore è il mistero stesso di Dio che si rivela.
Il discorso si sviluppa in tre momenti. Adesso dovremo dare uno sguardo rapidamente ai primi due capitoli ma la prima parte del libro comprende i primi cinque capitoli.
Rieducare la coscienza
Cap. 1, vv. 1-11: costituiscono l’avvio del discorso, l’invito rivolto dall’oratore che qui sta impostando il suo panegirico a coloro che egli interpella come destinatari di esso. E notate che fin dall’inizio dice: “Voi che governate la terra” (primo rigo del v. 1) nel senso che “siete i sovrani”, nel senso che destinatari di questo discorso sono in misura eminente coloro che esercitano responsabilità di governo, senza ritenere che allora noi possiamo rinunciare a proseguire nella lettura, perché se è così non si rivolge a noi. In realtà la vita acquista prerogative regali, la vita umana di ogni uomo, anche dell’uomo più semplice e nascosto di questo mondo, quando è educata alla scuola della sapienza. Non soltanto dunque i governanti della terra come destinatari unici. La regalità è del sapiente. L’invito in questi primi undici versetti si sviluppa in due strofe: fino al v. 5, poi dal v. 6 al v. 11. Vorrei subito caratterizzare queste due strofe che in qualche modo qualificano esattamente l’invito che sta al fondo di tutto il discorso: il motivo per cui siamo interpellati, per cui siamo in ascolto:
“Amate la giustizia, voi che governate sulla terra, rettamente pensate del Signore, cercatelo con cuore semplice. Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano”.
Notate che per alcuni versetti il termine “sapienza” non compare. Comparirà per la prima volta nel v. 4, in greco “sophia”.
“Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui. I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio; ma (conviene mettere un bel “ma”) l’onnipotenza, messa alla prova, caccia gli stolti.
La sapienza non entra in un’anima che opera il male né abita in un corpo schiavo del peccato.
Il santo spirito che ammaestra rifugge dalla finzione, se ne sta lontano dai discorsi insensati, è cacciato al sopraggiungere dell’ingiustizia”.
In questa prima strofa, senza scendere molto nel dettaglio, l’invito si configura come un vero e proprio progetto di educazione dell’intimo. Qui c’è di mezzo la partecipazione dell’intimo; non solo, ma il discernimento, il coinvolgimento e quindi la pedagogia interiore di cui l’intimo di ogni persona umana ha bisogno per essere aperta al rivelarsi di Dio. Non si tratta esattamente di una prerogativa, per così dire, previa: se gli uomini non sono aperti interiormente non accolgono il rivelarsi di Dio. Qui il nostro maestro afferma che è proprio il rivelarsi di Dio che si presenta a noi come potenza pedagogica che interpella l’intimo della coscienza, del cuore, del vissuto umano. E’ proprio questo il contenuto primario dell’invito che ci viene rivolto: “presentatevi, fatevi avanti, impegnatevi perché la sapienza (nel senso che sappiamo) si rivela a voi come volontà di radicale rieducazione dell’intimo”.
Lo Spirito del Signore riempie l’universo
Seconda strofa, v. 6-11, di nuovo l’invito ma adesso con un’ulteriore sottolineatura: questo invito ad ascoltare il discorso, ma dunque ad entrare in relazione con il rivelarsi di Dio implica il coinvolgimento in un disegno che è propriamente, massimamente ecumenico, universale; un disegno che riguarda la totalità delle creature di Dio e che è l’intero svolgimento della storia umana.
Siamo invitati ad accogliere la sapienza di Dio che si rivela per rieducarci nell’intimo e corrispondentemente – questa connessione è intrinseca e dobbiamo sempre tenerne conto – siamo invitati ad accogliere la sapienza di Dio che si rivela in modo tale da constatare che è proprio essa che, rivelandosi, ci introduce nella dimensione ecumenica della realtà.
“La sapienza è uno spirito amico degli uomini; (sapienza è uno spirito philantropos) ma non lascerà impunito chi insulta con le labbra, perché Dio è testimone dei suoi sentimenti e osservatore verace del suo cuore”.
Vedete che qui la persona umana è considerata nel suo dinamismo, è la persona umana in quanto elabora messaggi, formula parole, interpreta la realtà, pronuncia sentenze e quando la persona umana parla allo stesso modo opera e interviene, instaura contatti, inventa collegamenti. Difatti, v. 7: “Lo spirito del Signore riempie l’universo”. Importantissimo: knema kiriu…, l’ecumene. Vedete, quello spirito del Signore che è pedagogicamente impegnato nell’educazione dell’intimo è lo spirito del Signore che riempie l’universo. Questa corrispondenza tra l’intimo e l’ecumenico e il mondano è molto istruttiva per noi. Quel cuore umano che deve essere rieducato – ed è la sapienza di Dio che rivelandosi si presenta a noi proprio potentemente ed energicamente efficace a questo scopo – comporta uno spalancamento del cuore che diventa esso stesso così capiente da accogliere in sé la totalità ecumenica del reale, perché è lo stesso Spirito che educa l’intimo a pervadere l’universo. E, viceversa, è proprio la sapienza di Dio che rivelandosi a noi farà di ogni piccola creatura umana come siamo noi un sapiente, un re, un uomo che dimora nel mondo.
“Lo spirito del Signore, infatti, dice il v. 7, riempie l’ecumene. e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce. Per questo non gli sfuggirà chi proferisce cose ingiuste”.
Tutta la tradizione sapienziale che rispunta qui è dedicata all’educazione della parola. Già nella versione più arcaica, la sapienza si deposita in formulazioni proverbiali: il detto, il motto che poi diventa un piccolo poema e poi un raccontino o una parabola e così via man mano che le forme espressive si arricchiscono e si perfezionano; la parola in quanto tramite tra l’intimo e il mondo e quella parola che deve essere docile per aprire il cuore così che accolga il mondo; ma quella parola deve essere così sapiente da far della vita umana una modalità realizzata di inabitazione nel mondo.
“abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce. Per questo non gli sfuggirà chi proferisce cose ingiuste, la giustizia vendicatrice non lo risparmierà. Si indagherà infatti sui propositi dell’empio, il suono delle sue parole giungerà fino al Signore a condanna delle sue iniquità; poiché un orecchio geloso ascolta ogni cosa, perfino il sussurro delle mormorazioni non gli resta segreto”.
Vedete come è filtrato il linguaggio e il suo uso; la parola e la sua l’articolazione; la parola non è un’evanescenza sonora, ma è il tramite di congiunzione che serve a noi per vivere inseriti nel mondo e non c’è vita se non c’è questo inserimento. Qui è la sapienza: il rivelarsi di Dio che si presenta a noi come protagonista di questa nostra avventura, per la nostra vita.
“Guardatevi pertanto da un vano mormorare, preservate la lingua dalla maldicenza, perché neppure una parola segreta sarà senza effetto, una bocca menzognera uccide l’anima”.
Questione di vita o di morte
Il v. 12 fa da intermezzo adesso rispetto all’invito diventa anche un elemento ricapitolativo ma già anticipa lo svolgimento che seguirà. “Non provocate la morte con gli errori della vostra vita”. Qui è una questione di vita o di morte. Quell’invito, articolato come abbiamo potuto vedere nel primi 11 versetti, in realtà vuol essere accolto da noi come programma, come progetto di vita; altrimenti è la morte. La morte è nella doppiezza del cuore umano che si ingolfa senza aprirsi a quella presenza che si rivela; la morte sta là dove si costruiscono situazioni particolari, circoscritte, confinate, ghettizzate, soffocanti che diventano veri e propri luoghi di schiavitù, di prigionia, di morte; non si vive. La morte. Non c’è il mondo. “Non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani” aggiunge il secondo rigo.
Dio ha creato per la vita
V. 13-15. Arriviamo alla fine del cap. 2. Uno svolgimento che il nostro maestro inserisce proprio qui, dopo l’invito introduttivo perché ci vuole avvisare circa la gravità dei rischi che corriamo; questa è una questione seria perché l’alternativa sta tra la vita e la morte:
“perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale”.
Un messaggio radicalmente positivo. Dio ha creato per la vita e tutto nell’universo è funzionale alla vita; in questo sta la bellezza della creazione e questo ci consente sempre – anzi, ci impone – di custodire la bontà che è prerogativa di ogni creatura in quanto appartiene a Dio.
L’empietà umana: una scelta di morte
Dal v. 16, in contrapposizione a quello che il nostro maestro ha appena affermato, l’empietà degli uomini che qui viene caratterizzata come una scelta di morte. Una prospettiva del genere non è remota, è una prospettiva con la quale dobbiamo sempre fare i conti perché è una scelta di morte che già è stata documentata per il passato ed è ancora attualissima.
“Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole”.
La morte è invocata dagli uomini ed è l’atteggiamento per così dire religioso quello che gli uomini dedicano a questa ricerca della morte. La morte non è voluta da Dio, è invocata dagli uomini
“ritenendola amica (la morte in un contesto di amicizia) si consumano per essa e con essa concludono alleanza (l’amicizia diventa addirittura un’alleanza) perché son degni di appartenerle (è addirittura un’appartenenza; notate il crescendo: amicizia, alleanza, appartenenza) “Dicono fra loro sragionando:”.
Cap. 2 fino al v. 20 il discorso degli empi. Il nostro maestro nel suo discorso presta ascolto a quello che gli empi vanno dicendo, quello che è il modo di intendere le cose, di compromettere la vocazione alla vita imponendole una scelta di morte.
Quattro strofe. Prima strofa, dal v. 1 al v. 5. Ecco che cosa vuol dire una scelta di morte:
“Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve
(il nostro “bios”, il nostro spazio vitale è stretto, una nota di autocommiserazione qui si impone in modo molto pesante)
La nostra vita è breve e triste non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. E’ un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore”».
Gli empi sanno parlare: è un linguaggio che ha un suo fascino, letterariamente forbito, poeticamente molto efficace.
“Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore. La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno dal nostro finire”» (invece di morte mettete finire) poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro”.
Non si è mai saputo di qualcuno che sia tornato indietro. Vedete questo atteggiamento di chiusura in quello che è l’ambito delle esperienze immediate; nota di autocommiserazione. Già vi dicevo che è molto patetica. Il fatto è che tutto, in questa condizione di empietà, così come è stata definita, ma che è per l’appunto la condizione che conduce a una scelta di morte, dipende da un’assuefazione a ridurre il mondo a quella realtà minuscola e particolare che è la soggettività di ciascuno di noi.
L’egoismo ben programmato: carpe diem…
Seconda strofa, dal v. 6 al v. 9.
“Su, godiamoci i beni presenti facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte”.
Notate questa capacità di ammirare una bellezza così fatiscente, questa commozione che raccoglie tutte le capacità emotive dell’animo umano nel crepuscolo inevitabile, questa volontà forsennata di lasciar traccia di sé e la traccia di questa scelta di morte che per il momento è mascherata di un valore ideale da identificare con la assoluta affermazione dell’egoismo particolare.
… disprezza il debole
Terza strofa, dal v. 10 al v. 16. Notate che le strofe si succedono in un crescendo all’interno del discorso che gli empi stanno elaborando e la terza strofa dà forma al linguaggio con il quale gli empi spiegano come sia necessario opprimere gli altri. Laddove l’egoismo è diventato un valore assoluto si impone come una necessità l’oppressione degli altri.
“Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile.
… elimina il giusto
“Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo
(una prepotenza che acquista un significato programmatico in nome della libertà di far quel che si vuole e in nome della libertà di fare degli altri quel che si vuole)
ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l’educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore”.
Il giusto merita davvero di essere cancellato, è un’insofferenza infastidita quella che gli empi sperimentano nei suoi confronti proprio perché si ritengono rimproverati, condannati da lui e questa oppressione che viene man mano sistematicamente prodotta dal cosiddetto giusto porta con sé un risentimento nei confronti di Dio a cui il giusto fa appello.
“E’ diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci è insopportabile solo al vederlo perché la sua vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siam da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per padre”.
Quarta strofa non soltanto l’oppressione, ma esattamente la eliminazione del giusto che poi, in questo contesto, è qualcuno che non è omogeneo con il programma di vita dei cosiddetti empi, qualcuno che si sottrae a quella logica, che si pone in alternativa e deve essere eliminato, ucciso.
“Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione”.
“L’ha voluto lui, se l’è meritato lui, l’ha preteso lui, noi in realtà corrispondiamo alle sue intenzioni, condanniamolo a una morte infame perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”. E’ proprio in questo modo che gli empi intendono dimostrare che quel giusto si sbaglia; in realtà Dio non interviene per prendere le sue difese; qui dove si parla (v. 20) del soccorso è “l’episcopì”, la visita di Dio. Vedete: Dio deve intervenire a vantaggio del giusto per quello che lui va dicendo; o forse il giusto non dice niente, ma per il fatto stesso di esserci è quell’elemento di disturbo che gli empi vogliono e debbono clamorosamente, appassionatamente contestare ed eliminare. Dio non interviene perché il giusto si sbaglia o perché è proprio il silenzio di Dio che aderisce intrinsecamente e perfettamente al silenzio del giusto. Notate bene che in questo contesto il giusto non dice nulla.
Un progetto sbagliato
“La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio;”
mystiria. Non conoscono i misteri di Dio, non vi aderiscono, non si lasciano prendere, coinvolgere, non sperano salario per la santità. La santità è appunto la pienezza della vita: hanno rinunciato alla pienezza della vita, né credono alla ricompensa delle anime pure (ritorniamo al punto di partenza in questi vv. 23-24).
“Dio ha creato l’uomo per l’immortalità lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono”.
Oltre le apparenze
Capitolo 3
Nei cap. 3 e 4 troviamo una sequenza di quadri che pongono in contrasto due gruppi umani, che noi per intenderci possiamo definire “i giusti” e “gli empi”. Sono quattro quadri ognuno dei quali è composto di due elementi ed è costruito in modo tale da mettere in evidenza il contrasto fra giusti ed empi; fra coloro che scelgono la vita e quelli che scelgono la morte; fra coloro che rispondono alla vocazione alla vita, la “sapienza”, e coloro che invece restano ripiegati su una posizione di rifiuto in rapporto al rivelarsi di Dio per impelagarsi, come già sappiamo, dentro le misure di un orizzonte che è prigioniero della morte.
I giusti e gli empi in contrapposizione.
Sono, dunque, quattro dittici; quattro quadri doppi. Il primo dittico, cap. 3, dal v. 1 al v. 12. Il primo pannello fino al v. 9 e il secondo nei vv. da 10 a 12.
L’alternativa o la contrapposizione fra giusti ed empi viene elaborata nei quadri costruiti abilmente, con tecnica retorica molto efficace, rielaborati dal nostro maestro in rapporto alla contrapposizione fra realtà e apparenza: qual è la realtà dei giusti e l’apparenza; qual è la realtà degli empi e l’apparenza. Non semplicemente: “chi sono i giusti e chi sono gli empi”, ma: “qual è la realtà e qual è l’apparenza dei giusti e degli empi”.
La morte dei giusti è manifestazione della vita
Vv.1-9. Qui la presenza dei giusti viene osservata e descritta in quanto è sottoposta a gravame e in molti casi all’urgenza, in altri casi ancora allo scandalo, della morte. Ma la morte dei giusti è in realtà una rivelazione riguardante il valore della vita. C’è un’apparenza nella morte dei giusti, che va attentamente scrutata per constatare come in essa si mostri epifanicamente la potenza della vita.
“Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio. (il discorso prosegue rispetto al versetto 24) Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono”.
“Le anime dei giusti, invece… (notate che le anime sono le “psikè”, sono le vite; le anime sono quelle che, a modo nostro, possiamo definire “la vocazione alla vita”. Quando parliamo dell’anima non sappiamo mai bene cosa intendiamo. E d’altra parte questo termine è tradotto in greco così, ma in ebraico ha poi altri significati. Fatto sta che qui non sono in questione le anime che stanno appese a qualche nuvoletta, ma è la vocazione alla vita dei giusti)
… sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero”. Dunque i giusti muoiono. Certo. “Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace”.
Vedete come il nostro maestro, laddove riscontra la morte dei giusti, ci tiene a far presente che, sotto il dato apparente, noi siamo in grado di scoprire una realtà che è rivelazione per noi di quella vocazione alla vita che non è prigioniera della morte; per cui laddove i giusti muoiono – e quindi scalpore, angoscia, dispiacere, turbamento, scandalo – “essi sono nella pace” e la pace è la pienezza di tutti quei doni che portano a compimento la vocazione alla vita. Pace: anche questo è un termine dotato di una ricchezza di significato che supera la nostra immediata comprensione. In ogni modo qui quella vocazione alla vita che è attraversata dalla morte, in realtà realizza una potenza, esprime, attua, realizza (questo è il termine che mi sembra più opportuno) una potenza di vita che corrisponde all’iniziativa originaria di Dio. Dove noi cogliamo l’apparenza della morte è una vocazione alla vita che si realizza.
E insiste: “Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé”. Vedete come “sono nelle mani di Dio” diceva il v. 1: è Dio che si rivela, è Dio che avanza, è una manifestazione di Lui, della sua presenza; di Lui che si compiace, che porta a compimento quella vocazione che ha donato agli uomini.
Dice il v. 6: “li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno”. Guardate che il giorno del giudizio, qui nel v. 7, è il tempo della visita, della sua presenza che affiora e si impone, di Lui come protagonista: “Nel giorno della visita risplenderanno”. E questa luminosità dei giusti è colta con grande commozione dal nostro maestro: l’apparenza è quella della morte, la realtà è quella della pace, diceva poco prima; e adesso è percepita nella luminosità che i giusti, morendo, sono in grado di emanare. “Nel giorno della visita”, in quanto visitati da Dio, “risplenderanno come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli”; per dire che i giusti che muoiono in realtà esercitano un influsso operativo di cui noi non riusciamo nemmeno a immaginare le conseguenze, tanto quell’influsso sarà efficace, poderoso, travolgente: tutto dipende dal fatto che è il Dio vivente che avanza, si mostra, e conferisce a quella che nei giusti è l’apparenza della morte la realtà di una vita che corrisponde alla sua intenzione originaria. E quindi “Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro.
Quanti confidano in lui comprenderanno la verità; coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore, perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti”.
Lui qui sta parlando di quella vocazione alla vita che si realizza nella storia umana, nelle cose del mondo; laddove l’apparenza è la morte, in realtà è l’opera di Dio che avanza ed è la potenza della vocazione alla vita che i giusti hanno accolto che si esprime in modo travolgente e vittorioso.
La vita degli empi è schiava della morte
Viceversa, vv. 10-12, il secondo pannello del dittico: “Ma gli empi per i loro pensieri riceveranno il castigo…”.
Anche qui, fate attenzione perché non è il castigo che arriverà “poi”, questo è un altro discorso. Qui è proprio la tristezza, lo svuotamento della vita; è l’infelicità della cosiddetta vita degli empi; cosiddetta perché in questo caso è la vita che è apparente; nel caso precedente era apparente la morte. Qui è la vita degli empi che è apparente, perché gli empi per i loro pensieri riceveranno il castigo. In base ai loro progetti, propositi, intenzioni, a tutto il loro mondo interiore, a come hanno impostato e gestito la vita, sono intrappolati dentro meccanismi di morte (di castigo, dice qui la nostra traduzione della Bibbia).
“… essi che han disprezzato il giusto e si son ribellati al Signore”. L’alternativa tra empi e giusti è sempre anche un’alternativa tra empi e la Sapienza, il rivelarsi di Dio, la presenza del Signore che viene, visita, opera e vuole realizzare le sue intenzioni. Hanno disprezzato il giusto perché il giusto muore; hanno in realtà manifestato così quanto sia infelice la loro vita.
E insiste: “Chi disprezza la sapienza e la disciplina è infelice. Vana la loro speranza e le loro fatiche senza frutto, inutili le opere loro”.
Anche in questo caso, a proposito dei giusti, il nostro maestro sembra commuoversi perché avverte – e ce ne rendiamo conto attraverso le espressioni con cui si rivolge a noi – proprio il disgusto drammatico per questa vita sprecata; eppure una vita nella quale gli empi hanno faticato tanto e tanto, e hanno intrapreso le loro attività, gestito le relazioni, elaborato giudizi, programmi e quindi verifiche. Tutto dentro a quello schema interpretativo delle cose che in realtà coincide con la loro autocondanna a morte.
“Vana la loro speranza”, di una fatica inutile, una fatica vuota, “le loro fatiche senza frutto, inutili le opere loro”, perché comunque le opere nel caso degli empi non mancano; non sono dei fannulloni, non sono dei perditempo, degli inetti.
E poi aggiunge anche: “Le loro mogli sono insensate, cattivi i loro figli, maledetta la loro progenie”. Non intendete un versetto come questo o altri di questo stesso tenore a modo di una maledizione: “vedrai che ti capiterà questo”; che poi, come sappiamo, qualche volta non capita. Non è che per forza i figli degli empi devono essere dei mascalzoni; non succede, non è così automatico e nella Bibbia il dato per cui gli empi sono fortunati, benestanti, prosperosi, approvati, uomini di successo, nella loro generazioni e nelle generazioni successive alla loro, è rilevato a più riprese. Dunque qui non si tratta di invocare una maledizione sugli empi a cui gli empi non potranno sfuggire. Il nostro maestro vuole aiutarci a guardare dentro l’apparenza, sotto l’apparenza; a scrutare più in profondità, ad andare oltre a quell’apparenza di vita prosperosa, benestante, accompagnata da riconoscimenti, approvazioni, successi; in realtà è una vita disgraziata. Infelici loro, che sventura!
Pino Stancari
2008
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