Le piazze si rimettono in cammino e danno vita a un’idea della politica che ha cura dei sentimenti: dolore, solidarietà, responsabilità, empatia, amore, condivisione. E una grande voglia di pace

Di: Savino Pezzotta
Data: 8 Ottobre 2025
https://labarcaeilmare.it
Quello che sta accadendo in questi giorni — le manifestazioni popolari, gli scioperi di solidarietà, la flottiglia umanitaria diretta verso Gaza e la riapertura di una trattativa concreta per un cessate il fuoco — segna un punto di svolta.
Eppur (qualcosa) si muove
Dopo mesi di stallo e di impotenza politica, qualcosa finalmente si muove dal basso.
La società civile, i sindacati, le realtà cattolico-sociali, le associazioni per i diritti umani tornano a farsi sentire, mostrando che il bisogno di pace e di giustizia non è mai scomparso, ma attendeva solo un tempo favorevole per tornare a respirare.
Le piazze, dopo tanto silenzio, non sono più semplici luoghi di sfogo o di testimonianza simbolica: tornano a essere spazi politici e morali, dove la parola si intreccia con la responsabilità e dove la coscienza collettiva riscopre il proprio ruolo. È un segnale prezioso, perché indica che la pace — per tornare possibile — ha bisogno di mani che si uniscono, di corpi che si espongono, di voci che non si lasciano più ridurre al silenzio.
Ma qual è il rischio di simili momenti? E’ che finiscano ad essere catalogate come eccezioni che confermano le regole invece di cambiarle. Si tratta di guardare più lontano, di accorgersi di ciò che si sta giocando in questi momenti e che non riguarda solo la protesta, l’indignazione, le mobilitazioni, quelle parole, quelle problematiche, ma che riguarda il futuro, cioè la scommessa di non soffocare ciò che di positivo è emerso.
Sono convinto che ogni domanda collettiva che viene posta non deve mai essere persa. C’è il rischio invece che questa domanda venga soffocata dalle violenze insensate e condannabili che si sono verificate o che la facciano dimenticare o annegare con il ripristino della normalità degli equilibrismi politici o della azione difensiva del potere costituito, ma anche allo stesso tempo di un entusiastico e troppo emotivo schierarsi. Da ora in avanti quello che conta è la responsabilità di avanzare qualcosa di costruttivo.
Un dolore che chiede ascolto
Ma questa insorgenza imprevista da sola non basta se non è seguita da una nuova lucidità, capace di andare oltre le pure e necessarie emozioni. Ma dobbiamo anche chiederci con onestà: che cosa abbiamo oggi tra le mani? Come prenderci cura del dolore che attraversa entrambi i popoli, israeliano e palestinese? E dei timori che ha diffuso nel mondo? Quali effetti avrà questo trauma collettivo su generazioni intere, cresciute nella paura, nella rabbia e nell’odio reciproco, ma anche nell’avere assistito in diretta alla distruzione e ai massacri?
Prima del 7 ottobre esisteva, anche se in modo fragile, quasi inconscio, una narrazione di convivenza possibile. Oggi quella narrazione è stata spezzata: la paura e il rancore hanno occupato lo spazio lasciato vuoto dalla politica. Ma se la guerra ha distrutto la fiducia, tocca ora ai cittadini e ai movimenti popolari ricostruire un racconto nuovo, fondato sulla dignità umana e sull’uguaglianza dei diritti.
Le nuove responsabilità del movimento sociale
Chi si mobilita oggi — lavoratori, studenti, associazioni, comunità di fede — deve assumersi una responsabilità nuova: trasformare la solidarietà in azione, la compassione in progetto, la protesta in costruzione. Le forze sociali e il reticolo parrocchiale, in particolare, hanno una funzione decisiva: tenere viva la dimensione collettiva, contro la frammentazione e l’indifferenza.
Il sindacalismo non può più accontentarsi di rivendicare salari o contratti, ma di difendere l’umanità del lavoro e delle persone che è sempre anche impegno per la giustizia e per la pace.
Anche per i credenti e per le realtà ispirate al Vangelo, questo è un tempo di discernimento. Come continuare il dialogo con il mondo musulmano, mentre in Italia e in Europa cresce una retorica antislamica alimentata da figure come Salvini e Vannacci, che usano la paura come strumento di consenso?
Il compito dei cristiani e di tutti gli uomini e donne di buona volontà e di buonsenso, oggi, non è quello solo di schierarsi ma di testimoniare una volontà concreta di pace, che nasce dall’ascolto, dall’incontro e dalla difesa dei più vulnerabili.
La non violenza come cultura del quotidiano, del vivere insieme
Di fronte agli episodi di violenza non basta più limitarsi alla condanna. È tempo che i principi della non violenza attiva escano dai libri e dalle celebrazioni per entrare nella vita quotidiana: nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle famiglie, nelle parrocchie. La non violenza non è ingenuità né rassegnazione: è una forma di organizzazione sociale che costruisce legami invece di distruggerli. È un modo diverso di esercitare il potere, fondato sulla cura reciproca e sul rispetto dell’altro.
Come ogni conquista sindacale, sociale, politica e culturale anche la pace richiede un lavoro lento, paziente, collettivo. È frutto di perseveranza, di dialogo, di fatica condivisa. È un cantiere aperto, non un punto d’arrivo.

Savino Pezzotta
Sono nato nel 1943 a Scanzorosciate. Prima operaio, poi mi iscrivo alla CISL. Sono eletto segretario generale dal 2000 al 2006. Partecipo a iniziative per la cooperazione internazionale e il volontariato sociale. Nel 2008 sono stato eletto al Parlamento per una legislatura. Sono tuttora impegnato in attività culturali e sociali.