La speranza nasce dall’attesa: è contemplare le stelle, immaginare ciò che ancora non esiste e credere che possa accadere. Educare i giovani a sperare significa restituire loro il senso del futuro

di Paola Mastrocola
2 novembre 2025
Per gentile concessione di
AVVENIRE
La speranza è desiderio. È credere, è avere fiducia che si avveri qualcosa che desideriamo. Desiderio viene da de sidera, stare sotto le stelle e sentirne la distanza, patirne la lontananza. Era una parola degli àuguri, che senza stelle non potevano vedere, e dunque predire, il futuro. La speranza è quindi prima di tutto un gesto contemplativo, e interiore. Nel buio della notte contemplare le stelle, e trovare in sé la fiducia che quel qualcosa che ci manca (che desideriamo) si avveri, cioè cada nella realtà, accada, avvenga. Anche avvenire è una parola bellissima, viene da ad-venio, indica ciò che ci viene avanti, ciò che incontriamo. È l’incontro. Avventura ha la stessa etimologia. Il cavaliere medievale che va all’avventura parte non tanto per andare incontro ma perché qualcosa gli venga incontro.
Ecco. Stare sotto le stelle. Desiderare-sperare che qualcosa, o qualcuno, avanzi verso di noi. E, aggiungerei, ci sorprenda. È questo che dovremmo dire ai nostri giovani, che si mettano in un atteggiamento di attesa fiduciosa, che sperino un incontro, e che quell’incontro provochi in loro la sorpresa, la meraviglia. Per questo sono contenta che papa Leone, nella sua Lettera apostolica, abbia scelto proprio “speranza” come parola centrale per l’educazione dei giovani. La speranza c’entra col futuro. E dei giovani d’oggi diciamo spesso che si sentono senza futuro, e che proprio l’impossibilità o incapacità di vedere se stessi in un futuro sia alla base del loro malessere. Una generazione che non vede il futuro non spera, è una generazione triste, senza luce.
Non è facile essere giovani oggi. Non è mai facile essere giovani. Paul Nizan iniziava il suo Aden Arabia così: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». La giovinezza è l’età dell’incompletezza, dove non è chiaro quel che siamo e dove andiamo, e dove quindi siamo più esposti ai condizionamenti esterni e all’insicurezza. Ma oggi è particolarmente difficile essere giovani. Oggi il futuro (ma anche il presente!) fa paura, e la paura è la peggior nemica della speranza. A me sembra però che insistiamo troppo sul disagio giovanile, amplifichiamo il problema rischiando di fare della gioventù di oggi un esercito di fragili, deboli, depressi e perennemente bisognosi di aiuto, di sostegno. Forse è il nostro modo di prendercene cura, ma il rischio è di sottovalutarli (e forse di indurli a sottovalutarsi!). Non dovremmo esagerare. Dobbiamo star loro accanto, guidarli, coccolarli persino, ma anche permetter loro di fare da soli. Di saper essere, a volte, soli. Perché trovino in se stessi la forza di sopportare anche le avversità.
Sperare non è un sentimento che si può imporre, né insegnare. È però una disponibilità dell’animo che si può coltivare. Col pensiero, con l’immaginazione. La speranza è una forma altissima di immaginazione. Quando speriamo siamo come un artista che sta modellando nella sua testa un’opera che non esiste ancora, che non è detto esisterà, ma che potrebbe esistere. È quel verbo, potrebbe, che è importante: è dare possibilità alla vita, credere in un disegno. Mi è sempre piaciuta l’immagine di un Disegnatore che se ne sta invisibile e sereno seduto a un Tecnigrafo gigante e ci disegna, con amore e pazienza. Dobbiamo credere in quel disegno, e cioè in un futuro. Non si può sperare senza avere un’idea di futuro. La speranza è un movimento in avanti. È una fede. Una fiducia. Non è l’ottimismo ottuso e un po’ hollywoodiano di chi dice “andrà tutto bene”. A volte le cose non vanno affatto bene. E il male esiste, e non sempre possiamo vincerlo. Ma possiamo puntare a ciò che male non è: come diceva Calvino, «cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
L’inferno ci sta intorno, è vero: innanzi tutto guerre, violenza, ingiustizie; ma anche la tirannia dei social, la cappa del conformismo, e l’incombere ancora nebuloso dell’Intelligenza artificiale. Non siamo tecnofobi, accettiamo la normale evoluzione tecnologica. Ma abbiamo, noi esseri umani, un’anima poetica fin dagli albori dell’umanità, che ora dobbiamo difendere. Cantavamo versi, suonavamo la cetra… Abbiamo bisogno dell’arte, per vivere, perché l’arte nutre la nostra vita interiore. Come dice il Papa, «nessun algoritmo potrà sostituire ciò che rende umana l’educazione: poesia, ironia, amore, arte, immaginazione…». Aiutiamo i giovani a coltivare la loro vita interiore. A non avere fretta, a non pretendere la realizzazione immediata dei loro desideri. Aiutiamoli a stare sotto le stelle. Il bello di desiderare è attendere, e attendere è prefigurarsi nel pensiero ciò che desideriamo si avveri. Può essere un lavoro, una casa, un amore. Non importa cosa. Ma ci vuole un tempo lungo, una pazienza (che è l’arte di “sopportare”…).
Lo studio è un modo paziente di stare sotto le stelle. Buttarsi nello studio, non aver paura di stare ore, giorni, anni sui libri. La scuola è un privilegio unico e irripetibile che ci viene concesso nella vita, perché ci regala un lungo tempo di attesa in cui possiamo essere esenti dalle incombenze pratiche, dai doveri burocratici, dai problemi economici: un tempo in cui siamo astratti e assoluti (ab-solutum: slegato da, quindi libero) e soli davanti a noi stessi. La scuola è una lunga, meravigliosa notte piena di stelle. Non vuol dire non occuparci del mondo e degli altri: vuol dire attrezzarsi, diventare forti attraverso la cultura, proprio per affrontare i problemi del mondo e aiutare gli altri, e magari immaginare un altro mondo. Mi viene in mente Ernst Bloch, Il principio speranza: sperare vuol dire non accettare passivamente la realtà com’è, ma saper costruire utopie.