2 novembre
Memoria dei morti in Cristo

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (Messa I)
Giovanni 6,37-40: Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno
COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (Messa II)
Mt 25,31-46: Venite benedetti del Padre mio.
COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI (Messa III)
Matteo 5,1-12: Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
INTRODUZIONE
I credenti vivono il proprio pellegrinaggio terreno nella fede grazie al reciproco sostegno che si prestano in seno al popolo di Dio. In Cristo infatti tutti i fedeli, sia quelli ancora in vita sia quelli defunti, sono legati gli uni agli altri mediante una comunione di amore e di preghiera. È questo il fondamento più profondo dell’odierna memoria di tutti i morti in Cristo, posta non a caso il giorno successivo alla memoria della comunione di tutti i santi del cielo e della terra. I cristiani d’oriente e d’occidente hanno sempre ricordato nel corso della celebrazione eucaristica i fedeli già tornati al Padre. Gli orientali ricordano in modo particolare i defunti in alcuni giorni dell’anno.
In occidente, a partire dal 998, l’abate di Cluny Odilone istituì un ufficio liturgico per ricordare i fratelli della comunità che avevano già terminato il loro pellegrinaggio terreno. Grazie all’enorme influenza dei monaci cluniacensi, tale uso si estese fino a diventare prassi comune in tutta la chiesa latina. In alcune chiese della Riforma, però, la memoria dei morti in Cristo fu soppressa, a motivo del forte legame, sottolineato dai cattolici, di questa festa con la dottrina del purgatorio; ma con la riscoperta del significato originario essa è stata ricuperata in molte comunità protestanti.
Ricordando i defunti in Cristo ogni credente ravviva la speranza di una vita senza fine; Gesù infatti ha promesso a quanti rimangono nel suo amore che la morte non è l’ultima parola sulle loro esistenze, ma è il passaggio a una vita in pienezza, perché l’amore è più forte della morte e la carità non avrà mai fine.
Tracce di lettura
Discese agli inferi: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e inaccostabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è penetrato in esso e la terra della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e può amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata» canta la chiesa nella liturgia funebre.
(J. Ratzinger, Sulla settimana santa)
I morti: le nostre radici
Enzo Bianchi
Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.
Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.
Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.
La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.
E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).
Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.
La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.
Tratto da Dare senso al tempo, pp. 149-151
Il varco della morte
Ilvo Corniglia
Nel prolungamento della festa di tutti i Santi, oggi la Chiesa col suo amore materno abbraccia tutti i morti della storia, e in particolare i fedeli defunti, affidandoli alla misericordia del Padre.
Senza dubbio la morte è una tragedia senza proporzioni sia per chi parte sia per chi rimane. La parola del Signore, però, ci rivela anche un altro volto della morte, il volto di una…sorella (cfr. S. Francesco). Ci assicura infatti che la morte non è il naufragio senza scampo di un’esistenza, la disfatta totale di una persona, che precipita in un baratro senza fondo perdendosi nel nulla. Non è il male assoluto dell’uomo. Ma è il varco attraverso il quale una persona passa da una forma di esistenza, che ci è abbastanza nota, a un’altra forma inedita, nuova, immensamente superiore alla presente. E’ come passare da una stanza buia a un’altra stanza piena di luce (cfr. “Splenda ad essi la luce perpetua”, cioè Dio e il Cristo risorto). “La vita non è tolta, ma trasformata” (cfr. Prefazio): continua oltre la morte. Come un treno che imbocca un tunnel buio e dà l’impressione di inabissarsi lì dentro. Continua invece la sua corsa dall’altra parte in un’altra regione. Come una nave che vediamo allontanarsi dalla costa e rimpicciolirsi sempre di più fino a scomparire dall’orizzonte inghiottita dalle acque. Continua invece a viaggiare sotto altro cielo e in altro mare. Saremmo veramente miopi se pensassimo che la vastità dell’oceano si esaurisse nello specchio di mare che siamo abituati a contemplare. Questa vita che scorre al di là della morte, “vita eterna” (Mt 25, 46), per noi ancora in viaggio è una realtà sconosciuta. Ma chi ha oltrepassato la soglia della morte comincia a sperimentarla: indicibile sorpresa che l’amore di Dio prepara! E’ proprio dell’amore fare delle sorprese. Non possiamo negare tale gioia all’Amore infinito, che è Dio. I contorni, sia pure sfocati, di tale sorpresa, che i defunti assaporano e che noi possiamo già vagamente intuire, vengono evocati dalle immagini suggestive contenute nei vari passi biblici di oggi.
COMMENTI
ai Vangeli
Giovanni 6,37-40
(Messa I)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Le porte della morte aprono alla vita
Ermes Ronchi
La liturgia non ha pianti, perché ciò di cui fa memoria non è la morte, ma la risurrezione. La liturgia non ha lacrime, se non asciugate dalla mano di Dio; essa infatti non pronuncia parole sulla fine ma sulla vita.
«Se tu fossi stato qui mio fratello Lazzaro non sarebbe morto». Marta ha fede in Gesù, eppure si sbaglia. Così noi ripetiamo le sue parole e il suo errore: in questa malattia del mio familiare, dov’è Dio? Se Dio esiste, perché questa morte innocente? Se Tu sei qui, i miei cari non moriranno” Invece Dio è qui, sempre, ma non come esenzione dalla morte. Gesù non ha mai promesso che i suoi amici non sarebbero morti. Per lui il bene più grande non è una vita lunga, un infinito sopravvivere; l’essenziale non sta nel non morire, ma nel vivere già una vita risorta. L’eternità è già entrata in noi molto prima che accada, entra con la vita di fede (chiunque crede in Lui ha la vita eterna), entra con i gesti del quotidiano amore. Il Signore ci insegna ad avere più paura di una vita sbagliata che della morte. A temere di più una vita vuota e inutile che non l’ultima frontiera che passeremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere.
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Né angeli né demoni, né vita né morte, nulla ci potrà mai separare dall’amore (Rm 8,35-37). Questo mi basta. Se Dio è amore, mi vendicherà della mia morte. La sua vendetta è la risurrezione, un amore mai più separato.
Dio salva, questo è il suo nome. Salvare significa conservare. Per sua precisa volontà nulla andrà perduto, non un affetto, non un bicchiere d’acqua fresca, neanche il più piccolo filo d’erba.
Una preghiera per i defunti, forse la più bella, invoca: ammettili a godere la luce del tuo volto. I verbi della fede cedono ad un verbo umile e forte, inerme ed umanissimo: godere. La ragione cede alla gioia, la fede al godimento. L’eternità fiorisce nei verbi della gioia. Perché Dio non è risposta al nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno di felicità, lo è per i miei sensi, lo spirito, gli affetti e il cuore, per la totalità della mia persona.
La nostra esperienza sostiene che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che l’esistenza dell’uomo va da morte a vita. Dal santuario di Dio che è la terra e dove nessun uomo può restare a vivere, le porte della morte conducono verso l’esterno. Ma su che cosa si aprono i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita!
Siamo immortali dal giorno del nostro concepimento
Paolo Curtaz
Solo nella luminosa presenza dei santi possiamo riflettere serenamente sul destino dei nostri cari defunti e sul nostro proprio destino di fronte alla morte. Solo grazie alla speranza che ci deriva dal vangelo osiamo credere.
Siamo immortali dal giorno del nostro concepimento. In noi abita la presenza stessa di Dio, brandello della sua essenza, eccedenza che riempie il nostro cuore e che scatena il noi il desiderio di assoluto che così faticosamente riconosciamo e assecondiamo. Tutta la nostra vita diventa la scoperta del senso della stessa vita, l’accoglienza del vangelo e dello straordinario volto di Dio raccontato da Gesù. La nostra esistenza è una caccia al tesoro e quando scopriamo lo splendore del Padre scopriamo la nostra anima e ne assecondiamo i sussulti. Quando sorella morte bussa alla nostra porta la nostra anima raggiunge Dio per essere accolta, se pronta, o per un periodo di preparazione. Dio accetta anche che rifiutiamo risolutamente la sua salvezza e, nella nostra libertà, dolorosamente accetta anche la nostra scelta distruttrice. La preghiera di intercessione che facciamo per i nostri defunti fa loro sentire vicino il nostro affetto e li incoraggia sulla via della purificazione. Alla pienezza dei tempi le nostre anime torneranno a ricongiungersi ai nostri corpi trasfigurati. Con questa speranza, oggi, visitiamo i cimiteri (cioè i dormitori) dove i corpi dei defunti attendono la resurrezione finale e preghiamo per le loro anime.
Morire per vedere
Clarisse Sant’Agata
Celebriamo oggi i nostri fratelli e le nostre sorelle defunte innestati nel mistero di Cristo morto e risorto. La commemorazione di tutti fedeli defunti prevale sulla liturgia della domenica del tempo ordinario per il contenuto della sua Parola (l’annuncio e la fede nella vita eterna) e anche per il suo
radicamento popolare. Il culto verso i defunti è antico quanto l’uomo. Il ricordo liturgico è attestato in modo chiaro da Tertulliano (nel III secolo) con la celebrazione dell’eucarestia nel giorno anniversario della morte, considerato come il giorno della nascita alla vita eterna. Un comune e annuale ricordo dei defunti entra progressivamente nel calendario liturgico a partire dal VII secolo. La commemorazione al 2 novembre, come eco della solennità di tutti i Santi, è attribuita a Odilone, abate di Cluny, nel 998. Da allora questa ricorrenza si è diffusa rapidamente ovunque. A Roma è attestata per la prima volta all’inizio del XIV secolo. Da lì è passata nel calendario universale con la pubblicazione del Messale Romano del 1570.
La liturgia della Parola ci apre alla speranza e alla gioia: la nostra vita è chiamata ad essere eterna: “questa è la volontà del Padre mio che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (Vangelo). L’eternità è l’esperienza dell’amore che superato e vinto il limite della morte: Credere in questo amore (nel Figlio) apre l’ingresso alla vita eterna.
Questa è la speranza cristiana: l’amore di Dio ci ha raggiunti là dove eravamo morti, nella nostra esperienza di peccato (“quando eravamo nemici” dice S. Paolo nella 2 lettura): ora neppure la morte può più separarci dalla vita definitiva. Per questo si può morire senza che la vita abbia termine.
Nella liturgia di oggi ricorre in modo fortissimo il riferimento al “vedere”: “vedere Dio, vederlo con gli occhi, contemplarlo non da straniero” (Gb 19 nella 1 lettura): Se nella Scrittura chi vede Dio muore (cfr. Es 33,20),
tanto che non si può vedere Dio e rimanere in vita, la liturgia di oggi proclama che il morire apre alla visione: chi muore vede Dio. Cioè gli occhi di chi “vede il Figlio” (Vangelo) e crede in Lui si apriranno definitivamente su di Lui. Morire è vedere Colui che ha vinto per sempre la morte.
Come accogliere questa Parola perché prenda carne in noi? Gesù ci invita a rinnovarci per vivere in una speranza indistruttibile e a credere che Lui è il Vivente (“il mio redentore è vivo” 1 lettura). Questa fede “allena” i nostri occhi a riconoscerlo, a vederlo vivente nella nostra storia e ad indicarlo così ai nostri fratelli. Questo finché i nostri occhi si chiuderanno/apriranno ed incontreranno per sempre lo sguardo di Colui che ci ha amati. Questa è la vita eterna.
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Matteo 25,31-46
(Messa II)
Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare?…”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare…”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.
Il cristiano e la morte
Rispetto alla morte (e alla vita) noi abbiamo però una scelta: il credere in Cristo e alla Pasqua. Come argomenta Dietrich Bonhoeffer, “Pasqua non è questione di immortalità, ma di risurrezione, risurrezione dalla morte che è veramente una morte coi suoi orrori e spaventi, una morte del corpo e dell’anima, dell’uomo nella sua interezza, in virtù dell’azione potente di Dio: ecco il messaggio pasquale, pasqua non è questione di semi divini dentro l’uomo che come in natura celebrano una risurrezione che sempre si rinnova ma è una questione di colpa degli uomini e della morte, e anche dell’amore di Dio e della morte della morte, dell’eterna azione potente di Dio”.
Il cristiano è colui che crede non che la morte non esiste, ma che in Cristo è stata superata, è colui che è nel suo cuore (e non solo formalmente crede nel Risorto).
Questo non comporta “un effetto camomilla”, una calda rassicurante certezza, un drogare la propria esistenza con illusioni come alcuni talvolta sostengono. Anzi è esattamente il contrario: Il cristiano è colui che ha capito che ogni momento moriamo un po’, ogni giorno con la nostra vita, con le nostre scelte prepariamo la nostra eternità.
Il cristiano è uno (anche se a volte può non sembrare…) che si impegna a vivere una vita alla luce della propria morte. E’ uno per forza capace di fare delle scelte coraggiose e fuori dall’ordinario perché crede in un Signore che è capace di nascere in una grotta e di morire su una croce. Crede in un Dio che rinuncia alla sua trascendenza per farsi compagno di cammino di tutti quelli che in lui confidano e sperano. Crede in Dio che con misericordia lo giudicherà: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella gloria” – dice il Signore – “saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra”. (Mt 25, 31-33). Saremo separati in due categorie ci dice Gesù utilizzando la similitudine bucolica del pastore. I capri, coloro che hanno agito per conto loro e le pecore, coloro che hanno seguito la voce del “buon pastore”. Poi all’interno delle due categorie il giudizio sarà individuale, riguarderà il singolo. D’altronde come si nasce e si muore da soli (anche se si può essere circondati da altri per entrambi gli eventi), si è giudicati singolarmente: soli davanti al Signore ognuno di noi con la sua individualità, con la sua unicità, con le sue virtù e i suoi peccati. E su cosa si è giudicati? Non sulla religiosità, non sull’assiduità nella preghiera, a volte ci sembra che se siamo giusti, buoni, ligi, bravi, bigotti abbiamo diritto a guadagnarci la vita eterna. Gesù nel vangelo proclamato oggi come tante altre volte nella Parola ribalta le certezze nostre (e dei discepoli che lo ascoltavano):
“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi… In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25,34-36.40). Gesù ci indica che la costruzione del Regno non è una realtà astratta. Non sono comportamenti moralistici o moralizzanti. Il Regno si costruisce qui ed ora con scelte concrete.
Allora forse ognuno di noi dovrebbe pensare di calare nella propria realtà le parole di questo Vangelo magari riflettendo sulla base di alcune domande che scaturiscono da questa Parola o meditandone altre…
Una buona tessitura
Luciano Sanvito
“Quando mai…?”
Ovvero: l’incoscienza dell’uomo.
Infatti, la prima situazione che balza all’occhio è anzitutto la non-coscienza, l’in-coscienza dell’uomo nel fare e nel non fare il bene.
E’ dunque, implicitamente, un forte e urgente richiamo al “RENDERMI CONTO”, accorgendomi di poter vivere nella coscienza del fare il bene, evitando di morire nella coscienza di non farlo.
Due sono le colonne del brano evangelico:
– I “PICCOLI”
…I più bisognosi, i poveri e i mancanti?
Non in se stessi, perché altrimenti il vangelo lo ridurremmo a messaggio di solidarietà umana, che, pur valevole, non è il centro di questo messaggio.
I “piccoli” della vita, invece, come segni della presenza di una verità giudicante per me, come segni di fronte ai quali e attraverso i quali io sono posto per essere giudicato per la vita o per la morte.
Dalla solidarietà verso essi da parte mia, si passa dunque alla rivelazione da parte loro della mia identità, al giudizio che attraverso di essi si avvera oggi su di me.
Il piccolo del vangelo è il virus letale o il germe vitale per me, a seconda del mio atteggiamento nei suoi confronti.
Ma ricaviamo dal messaggio evangelico, in sottinteso, anche un altro obiettivo da centrare, per avere in noi la coscienza della vita e l’attuazione su di noi del giudizio a favore: come questi piccoli, anche noi dobbiamo farci piccoli.
Potremmo dire che essi sono l’esempio da seguire: anche noi dobbiamo fare i piccoli, dobbiamo “piccolare”: lavorare su noi stessi per farci piccoli come loro, perché in essi è il segno del potere della verità e della vita.
I piccoli sono importanti perché, ci dice il messaggio del vangelo, attraverso di essi si giocano le sorti del mondo.
– “FARE O NON FARE”
Solo a questo punto possiamo innalzare la seconda colonna, che è similare alla prima, e interdipendente: fare o non fare verso i piccoli, cioè verso la situazione di croce, è la regola che qualifica l’opera umana.
Tutto il resto, tutto l’altro fare o non fare che si svolge nei pensieri, nelle parole e nelle azioni umane, è destinato al nulla; è, per richiamare la situazione di partenza, destinato a svanire nell’inconscio, nello zero assoluto, nell’eterno dimenticatoio.
Se applichiamo questa intuizione all’oggi, essa illumina ogni valore umano indirizzandolo al suo centro, cioè nella potenza di giudizio e di valutazione che sgorga dai piccoli, cioè dalle croci morali e materiali del mondo e dell’umanità.
Ogni programma umano sbussolato da questo punto cardinale, senza questo orientamento concreto, è appunto sempre più scom-bussolato, nel caos, fà acqua, non vale nulla, perché, come ci illustra la parabola, resta nel mondo dell’incoscienza, ed è destinato a rimanere per sempre tale.
I piccoli sono come le crune dell’ago: se, mirando a loro con pazienza, infiliamo attraverso di essi le nostre opere, risulterà una buona tessitura; altrimenti saremo ‘recisi dall’ordito’.
Matteo 5,1-12
(Messa III)
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Beatitudini: Dio regala vita a chi produce amore
Ermes Ronchi
Le Beatitudini, che Gandhi chiamava «le parole più alte che l’umanità abbia ascoltato», fanno da collante tra le due feste dei santi e dei defunti. La liturgia propone il Vangelo delle Beatitudini come luce che non raggiunge solo i migliori tra noi, i santi, ma si posa su tutti i fratelli che sono andati avanti. Una luce in cui siamo dentro tutti: poveri, sognatori, ingenui, i piangenti e i feriti, i ricomincianti. Quando le ascoltiamo in chiesa ci sembrano possibili e perfino belle, poi usciamo, e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, stravolgente e contromano che si possa pensare.
Ma se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore. E possono cambiare il mondo. Ti cambiano sulla misura di Dio. Dio non è imparziale, ha un debole per i deboli, incomincia dagli ultimi, dalle periferie della Storia, per cambiare il mondo, perché non avanzi per le vittorie dei più forti, ma per semine di giustizia e per raccolti di pace. Chi è custode di speranza per il cammino della terra? Gli uomini più ricchi, i personaggi di successo o non invece gli affamati di giustizia per sé e per gli altri? I lottatori che hanno passione, ma senza violenza? Chi regala sogni al cuore? Chi è più armato, più forte e scaltro? o non invece il tessitore segreto della pace, il non violento, chi ha gli occhi limpidi e il cuore bambino e senza inganno?
Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo e al cuore del vangelo c’è un Dio che si prende cura della gioia dell’uomo. Non un elenco di ordini o precetti ma la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità. Non solo, ma sono beati anche quelli che non hanno compiuto azioni speciali, i poveri, i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza.
Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altro mondo! Beati, perché c’è più Dio in voi. E quindi più speranza, ed è solo la speranza che crea storia. Beati quelli che piangono… e non vuol dire: felici quando state male! Ma: In piedi voi che piangete, coraggio, in cammino, Dio sta dalla vostra parte e cammina con voi, forza della vostra forza!
Beati i misericordiosi… Loro ci mostrano che i giorni sconfinano nell’eterno, loro che troveranno per sé ciò che hanno regalato alla vita d’altri: troveranno misericordia, bagaglio di terra per il viaggio di cielo, equipaggiamento per il lungo esodo verso il cuore di Dio. A ricordarci che «la nostra morte è la parte della vita che dà sull’altrove. Quell’altrove che sconfina in Dio» (Rilke).
La gioiosa festa della comunione dei santi
Enzo Bianchi
Viviamo la gioiosa festa della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, non solo dei santi del cielo, ma anche dei santi che sono ancora in cammino verso il Regno. Tutti noi, un’unica comunione, tutti noi viviamo insieme. Come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, noi camminiamo circondati da questa nuvola di testimoni, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che ha dato inizio alla nostra fede e colui che la porta a pienezza (cf. Eb 12,1-2). Non siamo soli, ed è l’unico e comune sguardo rivolto da noi verso Gesù che instaura la nostra comunione.
Proprio in questa festa gioiosa la chiesa ci chiede di ascoltare le beatitudini, le proclamazioni fatte da Gesù e rivolte a tutti coloro che si mettono in ascolto. Le abbiamo ascoltate e le abbiamo anche impresse nel nostro cuore, perché sempre risuonano come buona notizia, come Vangelo nella nostra vita cristiana. Come dunque risuonano dentro di noi? È questo innanzitutto che dobbiamo chiederci. Non vi nascondo che, quando le leggo, sento bruciare le mie labbra, perché è vero che sono un annuncio di felicità, ma io le posso tranquillamente rivolgere a me, seppur discepolo di Gesù? Il Vangelo è innanzitutto rivolto a me, mi deve interrogare e non può essere ridotto a messaggio moraleggiante con cui approvare alcuni e condannare altri. Noi erigiamo molte difese per non lasciarci raggiungere dal Vangelo e facilmente lo indirizziamo agli altri, accrescendo la nostra cecità su noi stessi e rendendo il nostro occhio buio (cf. Mt 6,22-23)…
Ecco allora che queste proclamazioni di beatitudine possono in primo luogo svelarci, raccontarci chi è Gesù: è lui il povero, è lui l’affamato, è lui il mite, è lui il puro di cuore, è lui il perseguitato. Ecco perché è il beato per eccellenza. E tutti i racconti dei vangeli ci dicono questa sua beatitudine. Siamo dunque chiamati a guardare a lui, a tenere lo sguardo fisso su di lui, perché solo lui è l’origine della grazia che contrasta i nostri schemi e i nostri ideali moralistici. Chi di noi può dirsi povero, e povero anche di respiro, nel cuore, come proclama la prima beatitudine? Chi di noi può dirsi puro di cuore o mite, non solo nello stile apparentemente adottato, ma nel cuore?
Comprendiamo così che solo guardando a Gesù, mettendo la nostra fede in lui e non nelle nostre opere e operazioni, possiamo forse tendere, soltanto tendere alla beatitudine promessa. Proprio per questo tutta la tradizione cristiana dice che il santo è colui che ignora la sua santità. Il santo è colui che si sente – come Ignazio di Antiochia, vecchio e ormai martire – soltanto uno che ha iniziato a essere discepolo, uno che attende di essere veramente uomo: “allora”, nella morte, “sarò veramente discepolo di Gesù Cristo … allora sarò veramente un uomo” (cf. Lettera ai Romani 4,2; 6,2).
Così si afferma il primato della grazia, dell’amore di Dio gratuito che non va mai meritato ma solo accolto, in quella semplicità di cuore che vede la presenza di Dio negli altri e in essi la rispetta, la adora. Significativamente papa Francesco ricorda, nella Gaudete et exultate: “Dio è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, … e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dal peccato, Dio è presente nella sua vita” (n. 42).
Ciascuno di noi, dunque, ascolti le beatitudini con cuore semplice, pieno di stupore, e metta la sua fiducia nel Signore affinché porti a compimento l’opera iniziata da lui (cf. Fil 1,6) e da noi contraddetta. Tutto è grazia nel Signore Gesù!
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Santi e defunti: solidarietà e intercessione missionaria
Romeo Ballan, mccj
Feste di famiglia, feste di fraternità! La festa di Tutti i Santi e il ricordo di tutti i fedeli defunti ci fanno sentire che siamo tutti membri di una famiglia grande, allargata fino ai confini del mondo. Sono due giornate (1 e 2 novembre) che ci riportano ad una nostra celebrazione familiare. Nostra, perché i santi e i defunti sono parte dell’unica famiglia di Dio e degli uomini. È la famiglia di tutti i santi: non solo dei ‘canonizzati’, cioè dei pochi riconosciuti ufficialmente come tali dalla Chiesa, ma di tutte le persone di buona volontà, di tutti coloro che hanno cercato Dio con cuore sincero e nel rispettoso amore del prossimo. Tali sono i molti “santi della porta accanto”, come li chiama Papa Francesco. È la famiglia di tutti i defunti, non solo dei nostri parenti e amici. A tutti loro ci uniscono vicende comuni, fatte di gioie, speranze, dolore, fragilità, fatiche. Fino alla strettoia inevitabile della morte, in un cammino che accomuna tutti: santi e peccatori, ricchi e poveracci, credenti e non.
Le donne e gli uomini che riempiono il calendario annuale dei santi e dei beati della Chiesa sono molti, ma quelli che sono scritti nel “Libro della Vita”, il registro di Dio, sono infinitamente di più. Di tutti loro fa memoria e ad essi si rivolge oggi la preghiera supplicante della Chiesa. Sono uomini e donne di ogni tribù, lingua, popolo, nazione, età, epoca, professione, condizione sociale, famosi e sconosciuti, fedeli e peccatori convertiti… Sono tutti presenti nella liturgia cristiana della solennità di Tutti i Santi. L’universalità è, quindi, la prima caratteristica di questa festa. A ragione alcuni la chiamano “festa nazionale della Chiesa”, la quale vive e crede nella “comunione dei santi”.
È la festa della famiglia allargata, dalle dimensioni universali, senza confini. Dove nessuno è sconosciuto o straniero per Dio e per coloro che vivono in Lui. Dove Dio conosce ogni volto e chiama ciascuno per nome. Una famiglia dove c’è una fraternità circolare di rapporti a beneficio di tutti: i santi del cielo intercedono presso Dio a nostro favore, mentre siamo pellegrini sulla terra; noi, pellegrini, diamo lode e rendiamo grazie a Dio per la sua misericordia e per le cose belle che Egli opera nei santi; noi e i santi offriamo suppliche per i defunti che ancora attendono di contemplare pienamente il volto di Dio; anche i defunti, in forme che noi non conosciamo, vivono una speciale comunione con Dio, che ridonda a beneficio nostro. È, quindi, una intercessione circolare: di Cristo e dei santi per noi; della nostra intercessione a favore dei defunti in Purgatorio; e dei defunti – che sono già dei salvati! – a favore dei parenti e di tutta la famiglia umana. (*)
Siamo come in una immensa “cattedrale della santità”, dove vi è accesso, posto e gloria per tutti, come cerca di spiegare san Giovanni nel libro dell’Apocalisse (I lettura). Egli parla di “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare” (v. 9), che celebra una liturgia di lode a Dio, al quale soltanto appartiene la salvezza che Egli offre a tutti (v. 10.12). Sarebbe una pretesa assurda limitare la salvezza a 144.000 segnati (v. 4) o escluderne altri, come vorrebbero alcune sette che male interpretano il testo biblico con motivazioni disparate. L’unico tesoro dei santi è di essere realmente e di vivere da figli di Dio (II lettura), amati dal Padre (v. 1), tutti chiamati a essere simili a Lui (v. 2). Perché la felicità vera si realizza nella qualità di una vita spesa per Dio e a servizio dei fratelli. Persone con mentalità mondana li chiamano poveretti, o poveracci… Ma chi ha ragione? chi ha indovinato la vita? Gesù nel Vangelo li chiama beati! Beati i poveri, i sofferenti, i miti, i puri, i misericordiosi, i perseguitati, gli operatori di pace…
Le beatitudini sono, in primo luogo, la autobiografia di Gesù, parlano di Lui, ne descrivono le scelte e i comportamenti. Sono lo specchio di Cristo, e quindi diventano il programma per ogni discepolo. Le beatitudini sono scelte di radicalità che trasformano il cuore delle persone e le rendono strumenti della ‘rivoluzione’ di Dio per la trasformazione del mondo. Una lettura obiettiva e serena della storia mette in luce le energie positive e le forze di trasformazione sociale e culturale messe in opera da uomini e donne che vissero per realizzare il progetto di Dio, come: Agostino e Benedetto, Francesco e Domenico, Atanasio, Cirillo e Metodio, Caterina da Siena e Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, Rosa da Lima e i Martiri d’Uganda, Daniele Comboni e Don Bosco, Teresa di Lisieux e Charles de Foucauld, Lorenzo Ruiz e Martin de Porres, Maria Goretti e Clementina Anuarite, Teresa di Calcutta e Giuseppina Bakhita, Oscar Romero e Annalena Tonelli, Gandhi e i martiri di Tibhirine… Essi, come tantissimi altri, sono veri amici di Dio e autentici benefattori dell’umanità.
Sono essi i giganti spirituali, i modelli riusciti dell’umanità rinnovata in Cristo, che è per tutti l’Uomo nuovo e perfetto, il modello per ogni forma di santità. La loro testimonianza di vita e di dottrina perdura nel tempo come modello, esemplarità, energia di attrazione per noi. I santi e le persone di buona volontà, anche se lontani nel tempo e ignoti, non sono mummie secche da museo, più o meno inutili, ma esseri tuttora viventi e dinamici, che esercitano un influsso positivo sulle nostre persone e sui fatti della storia.
L’esistenza di persone come loro è la prova che vivere da santi, cioè da discepoli di Gesù, è possibile. Per tutti. La santità nella vita ordinaria e feriale non è un recinto chiuso, riservato ad alcuni privilegiati, ma un condominio aperto a inquilini sempre nuovi. Non occorre un passaporto speciale, al limite neppure il sacramento del Battesimo. Vivere da figli di Dio è un dono che Egli offre a chiunque lo cerca con cuore sincero. Un dono da vivere non solo nelle grandi occasioni, ma nella vita quotidiana. Con fedeltà e gratuità.
Il vero successo di un’esistenza umana riuscita è una vita spesa per Dio e a servizio dei fratelli. La felicità vera è legata alla santità nella vita ordinaria. I santi sono come la parte più sana della pianta, la più vitale e rigogliosa, il ramo più sicuro e vigoroso. Contemplare la loro sorte finale porta a riflettere sul ‘dopo’ dell’esistenza terrena, che dipende ed è necessariamente legato all’adesso della vita presente. La miglior preparazione al dopo è certamente l’uso onesto e creativo dei talenti ricevuti; tra questi anche il dono della fede. Fede vissuta con gioia e condivisa con umiltà.
Queste considerazioni non tolgono nulla al rigore e amarezza della morte, quel “duro calle”, di dantesca memoria, che fa paura, ma che è il passaggio obbligato verso la Vita in pienezza. Un passaggio da affrontare senza evasioni, con realismo umano e cristiano! Ce ne ha dato un esempio recente, tra molti altri, il Card. Carlo Maria Martini, gesuita, arcivescovo di Milano (+ 2012). Ammalato di Parkinson, “nel contesto di una morte imminente”, sentendosi “già arrivato nell’ultima sala d’aspetto, o la penultima”, confessava di essersi “più volte lamentato col Signore” per la necessità di dover morire. Martini non nascondeva il suo travaglio interiore fino ad accettare quel duro calle, oscuro e doloroso: “Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto, in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio”. Davanti al mistero della morte, che richiede “un affidamento totale”, Martini concludeva: “Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani”.
Di fronte alla morte, appare ancora più ricco il dono della fede cristiana, l’unica che è capace di gettare una luce nuova e definitiva sul senso della vita, il senso di Dio, del dolore, della storia. Una luce che fa la differenza. Una luce che altre fedi religiose non riescono a dare. Ancora una volta, emerge la novità del messaggio cristiano. E quindi l’urgenza della Missione per annunciarlo a tutti.

Vi ringrazio di cuore per queste letture che avete raccolto mi aitano a vivere questa commemoriazione insieme alla festa di tutti i santi… sono come un balcone da cui contemplare l’aldià che ci apsetta e pensare ai nostri cari defunti ma non solo anche alle tante persone che ci hanno preceduto nel pellegrinaggio terreno verso la Città Santa!
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