1 novembre 
Comunione dei santi
Mt 5,1-12


  • Prima Lettura – Apocalisse 7,2-4.9-14
    Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua.
  • Seconda Lettura – 1Giovanni 3,1-3
    Vedremo Dio così come egli è.
  • Vangelo – Matteo 5,1-12a
    Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.


Già sul finire del II secolo troviamo una vera e propria venerazione dei santi. All’inizio, i santi martiri, ai quali ben presto furono assimilati gli apostoli, testimoni ufficiali della fede. Dopo le grandi persecuzioni dell’Impero romano, diventano gradualmente oggetto di venerazioni uomini e donne che hanno vissuto in modo bello, eroico la vita cristiana: il primo santo non martire fu san Martino di Tours. Verso la fine dell’anno mille, di fronte all’incontrollato sviluppo della venerazione dei santi, e del “commercio” attorno alle reliquie, si elaborò un processo per la canonizzazione, fino ad arrivare alla prova dei miracoli. La solennità di tutti i Santi ha inizio in Oriente, nel IV secolo, per poi diffondersi, pur con date diverse. A Roma, il 13 maggio; in Inghilterra e Irlanda, a partire dall’VIII secolo, il 1° novembre. Data, quest’ultima, che si affermerà anche a Roma a partire dal IX secolo. La solennità cade verso la fine dell’anno liturgico, quando la Chiesa tiene fisso lo sguardo al termine ultimo, e già pensa a quanti hanno varcato le porte del Cielo.


Le Beatitudini, promessa e programma
Enzo Bianchi

Celebriamo oggi una festa che riguarda soprattutto noi cristiani, discepoli di Gesù Cristo, ma non solo. Sia che siamo ancora viventi, sulla terra, sia che siamo passati attraverso l’esodo della morte e siamo dunque “in cielo”, nel regno di Dio, tutti noi siamo partecipi della beatitudine, della felicità. In un salmo risuona questa domanda: “C’è un uomo che desidera la vita e vuole giorni felici?” (Sal 34,13). L’essere umano cerca la felicità, la vita piena e senza fine, e Gesù vuole dare una risposta a questa sete profonda presente nel cuore di ogni persona.

Ecco dunque davanti a noi le beatitudini di Gesù attestate dal vangelo secondo Matteo, una pagina talmente conosciuta, citata, commentata e predicata che rischiamo di presumere di conoscerla già e di non avere più bisogno di ricominciare a leggerla, meditarla, comprenderla. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico predicando la venuta del Regno (cf. Mt 4,17) e chiamando alla sua sequela alcuni che sono diventati suoi discepoli (cf. Mt 4,18-22). Ormai è un rabbi, un profeta anche per molti credenti di Galilea e di Giudea, e attorno a lui c’è una piccola folla, nella quale abbondano malati, oppressi, poveri, persone che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25). Gesù sa guardare a quelli che lo cercano, lo incontrano e lo seguono, sa discernere innanzitutto la loro fatica e la loro sofferenza ed è profondamente toccato dai mali delle persone. Non è un predicatore distaccato, che annuncia e parla guardando solo a Dio che lo ha inviato e lo ispira in ogni momento; sa anche guardare all’uditorio concreto, a chi ha di fronte e, come sa ascoltare Dio, così sa ascoltare questa gente che si rivolge a lui con gemiti, invocazioni, lamenti, domande senza risposta…

Secondo Matteo, Gesù decide allora di consegnare a queste persone le promesse di Dio, che possono essere anche un programma per chi vuole seguirlo. Sale sul monte, il luogo delle rivelazioni di Dio e, quale nuovo Mosè, ultimo e definitivo (dopo il quale non ce ne saranno altri!), dà la buona notizia, il Vangelo. Attenzione: non dà “una nuova Legge” – definizione ambigua e sviante – ma dà una parola di Dio che risuona in modo nuovo e crea il regno dello Spirito santo, non più della Legge. Ecco allora il grido: “‘Ashrè”, parola che in ebraico significa soprattutto un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una determinata situazione, parola che indica uno stile da assumere, parola che cambia l’ottica con la quale si guardano la vita, la realtà, gli altri.

Noi traduciamo quest’espressione tante volte presente nei Salmi e nella sapienza di Israele con “beati” (dal greco makárioi, che i vangeli prendono dalla versione dei LXX), ma purtroppo non abbiamo un termine italiano che ne sveli adeguatamente il contenuto. “Beati” non è un aggettivo, è un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola. Promessa e programma! Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.

La promessa fatta solennemente da Gesù, parola potente di Dio, è il regno dei cieli, non un luogo, ma una relazione: essere con Dio, essere suoi figli, così come chi non è beato resta lontano e separato da Dio. Questo regno, dove Dio regna pienamente, è la comunione dei santi del cielo e della terra, la comunione dei fratelli di Gesù, dei figli di Dio, che noi cristiani dovremmo vivere con consapevolezza, ma che, a causa della nostra philautía, del nostro egoismo, non arriviamo neppure a credere saldamente. Questa esperienza del regnare di Dio su di noi possiamo farla qui e ora, alla sequela di Gesù: ciò accade quando su di noi non regnano né idoli, né poteri di nessun tipo, quando sentiamo che solo Dio e il Vangelo di Gesù ci determinano, ci muovono, ci tengono in piedi. È questo il caso in cui possiamo dire, umilmente ma con stupore, senza pensare di avere meriti, che Dio regna in noi, su di noi, dunque il regno di Dio è venuto: sempre però in modo non osservabile (cf. Lc 17,20), da noi riconosciuto solo parzialmente, sempre in modo fragile, che possiamo negare con il nostro venir meno all’amore.

Essere “poveri nello spirito”, nel cuore – precisa Matteo –, non semplicemente “poveri” (Lc 6,20), ma esserlo nell’umiltà di chi sa attendere Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33) può aprire alla beatitudine di chi riceve in dono il regno di Dio.

Essere piangenti è una condizione frequente: le lacrime scorrono sul viso come un’invocazione, un grido a volte muto, ma il Signore raccoglie le lacrime (cf. Sal 56,9), non le dimentica. Ed ecco, manda già ora il Consolatore (cf. Gv 15,26; 16,7) a consolare, affinché ci aiuti ad attraversare la sofferenza e poi alla fine ci doni la gioia eterna, quando Dio asciugherà lacrime da ogni volto (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4).

Essere miti tra gli uomini e le donne, miti su questa terra, senza abitarla con prepotenza né violenza, senza riconoscere solo se stessi, rinunciando a ogni volontà di aggressione, fosse anche per difesa, è non solo possedere la terra promessa da Dio, ma già oggi pregustare una risposta amorosa da parte dell’umanità. San Francesco e papa Giovanni con la loro mitezza hanno “posseduto la terra”, nel senso più vero, evangelico, senza attraversare i sentieri del potere e della ricchezza.

Chi ha fame e sete di giustizia, cioè non è mosso dalla legge del vivere nella forza senza riconoscere l’altro, ma è vittima dei fratelli e delle sorelle che non si accorgono di lui, non desista da questa fame e combatta affinché Dio gli dia ora un cibo che lo sostiene e poi nel Regno quella giustizia della quale tanto ha avuto fame e sete.

Chi fa misericordia agli altri “obbligherà” Dio a fargli misericordia, perché Dio – dicevano i padri del deserto – obbedisce ai misericordiosi che sono come lui (cf. Lc 6,36), hanno lo stesso cuore, sono cioè santi come lui è santo (cf. Lv 19,2; 1Pt 1,16).

Essere puri di cuore significa vedere tutte le persone e gli eventi con gli occhi di Dio, vederli con “gli occhi del cuore” (Ef 1,18). Allora la gioia è quella di essere trasparenti, di non dover impiegare il tempo a organizzare la “maschera” con la quale desideriamo apparire agli altri ed essere da loro conosciuti. È la gioia di capire che l’altro è altro, è un dono di Dio, è un fratello o una sorella, e che io accetto di non mettere le mani su di lui o su di lei, di non possederli, sfruttarli, strumentalizzarli.

Un uomo, una donna che sa “fare pace” in ogni situazione di conflitto, da quelle tra i fratelli e le sorelle a quelle tra i popoli, siccome compie ciò che Dio vorrebbe fosse fatto, mostra di essere già qui sulla terra figlio, figlia di Dio, cioè partecipe della sua natura (cf. 2Pt 1,4), e lo sarà definitivamente nel regno dei cieli.

Infine, per tutti i discepoli la beatitudine riguarda il loro stare nel mondo tra le ostilità e le persecuzioni. Se un discepolo di Gesù riceve solo approvazione, applauso, abbia timore e si interroghi se è veramente tale! Almeno l’ostilità, la calunnia, l’opposizione deve conoscerla. Ha detto Gesù: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi!” (Lc 6,26). Cercare questo consenso è una delle peggiori tentazioni nella chiesa: compiacere tutti per essere da tutti approvati; sedurre gli altri per ricevere il plauso e avere successo; mancare di parrhesía cristiana (che sembra essere scambiata, all’interno della propria comunità o della chiesa, con la libertà di mormorare!) per essere da tutti apprezzati. Che miseria! Certo, in tal modo si sarà apprezzati e si avrà successo, ma non si conoscerà dentro di sé la gioia più vera, la beatitudine di essere in piena comunione con Gesù Cristo. Per rallegrarsi in profondità occorre invece non guardare ai propri interessi né mettere in atto alcuna strategia, ma “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2) e solo da lui accettare la ricompensa, che consiste nel poter condividere il suo amore.

La comunione dei santi che festeggiamo oggi è gioia, festa per quanti con umiltà, senza arroganza, senza vanti, si riconoscono in queste situazioni sulle quali Gesù ha posto come sigillo la beatitudine.

“La festa degli uomini buoni”
Angelo Casati

Voi sapete come ci succeda a volte che parole, ascoltate tempo prima, per giorni ci rimangano nell’anima e continuino il loro racconto nel cuore. Come l’acqua di un torrente. Quasi ogni anno in questa festa dei santi il mio ricordo va a parole, di commento alla festa, di don Primo Mazzolari. Quest’anno il ricordo va alle parole che in questi giorni mi ricordava un amico, cui capitava di frequentarlo. “Sai?” mi diceva “Don Primo questa festa la chiamava: la festa degli uomini buoni”. Noi potremmo, penso, aggiungere “e delle donne buone”.

E mi raccontava che in una di queste feste, vedendo alcuni dei suoi contadini in chiesa, stremati dalle fatiche dei campi, appoggiarsi alle colonne e addormentarsi, ammoniva: “Non svegliateli, il buon Dio li ama così, nel sonno, sente tenerezza per la loro fatica, stanchi come sono! Sono uomini buoni, questa è la festa degli uomini buoni”. Queste parole di Don Primo mi hanno accompagnato in questi giorno e ora sono qui a ricordarvele, come fossero una introduzione alla festa. E così facciamo opera di svestizione, perché, voi lo sapete, i santi li abbiamo vestiti di una santità che evoca e imprime lontananza: quella dei miracoli, quella dei santi dei calendari, quella dei santi incensati dalla sontuosità delle liturgie, sontuose che più sontuose non si può. Questo succede.

E perché? Perché abbiamo equivocato e abbiamo tradito il nome. Dico tradito perché il termine “i santi” immediatamente ora, quasi sempre, viene legato allo straordinario e si traduce in un privilegio, quello di essere santi. Di qui la conclusione è: che di santi ce ne sono pochi! Salvo poi essere chiamati a giustificare un numero, oggi a ripetizione nel libro dell’Apocalisse, un multiplo di dodici, centoquarantaquattromila, riferito a quanti vengono da ogni tribù dei figli di Israele. Ma poi il numero eccede, e passa ogni confine, quando nel libro si parla di “una moltitudine immensa che nessuno poteva contare di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. Vedete che abbiamo tradito il nome “i santi”, i santi cui diamo il volto di pochi, di pochi eletti.

Se invece, come suggeriva don primo Mazzolari, la chiamassimo festa degli uomini buoni e delle donne buone, allora il panorama subito si allargherebbe. Quanti uomini buoni! Che abbiamo conosciuto, che conosciamo. Quante donne buone! Che abbiamo conosciuto e che conosciamo. Una moltitudine immensa. “Io” diceva sempre don Primo “io mi sento trasportato verso le devozioni che mettono i santi a portata di mano. Gesù si lasciava toccare il lembo della veste dalla emorroissa, accarezzare dai fanciulli, lavare i piedi dalla Maddalena, baciare da Giuda, schiaffeggiare dai servi di Caifa, sputacchiare, crocifiggere. Li voglio così i miei santi.

Volti cari che si chinano paternamente su questo povero figliuolo, che si alza in punta di piedi e lancia le braccia. Il panegirico dà la misura delle distanze, agghiaccia il cuore, ci disobbliga da ogni impegno di sforzo. Un bell’altare con nimbi d’angeli, statue dorate e disumane, nate a guisa di monumenti funerari tacitano la dimenticanza.

Oggi invece i santi ci vengono incontro e fanno il Paradiso qui, nella mia povera chiesa, davanti ai miei occhi annebbiati di tristezza.” Gli uomini buoni e le donne buone in una chiesa, la nostra, che oggi ha il profumo della casa, della loro casa. “In questo giorno la mia Chiesa è davvero la Casa”.

Santi, non vite angelicate, non angeli, ma uomini, gli uomini buoni, le donne buone. O se volete evocarli con una immagine che oggi abbiamo ascoltato dell’apostolo Paolo, tratta dalla lettera ai romani, santi cioè coloro che per un destino buono, che abita tutti noi, sono chiamati da Dio a “essere conformi all’immagine del Figlio suo”.

Conformi all’immagine di Gesù, una bellissima immagine della santità, immagine concreta, non astratta: portare in noi qualcosa dei tratti di Gesù, della sua vita raccontata dai vangeli. Ascoltiamolo sul monte dove lui dice chi sono i beati, chi per lui sono i santi, chi gli uomini e le donne felici, veramente felici.

E guardate la concretezza. Dove sono i beati, vogliamo dire dove li trovi i santi? Se ci chiedessero hai incontrato un santo? Se resistesse in noi l’idea dei miracoli, avremmo qualche dubbio a dire che sì, che sì li abbiamo incontrati. Ma Gesù ci chiama sul monte e i santi ce li mette davanti agli occhi. Sul monte delle beatitudini. Come tutto, o molto, cambierebbe, se ci chiedessero: hai incontrato donne o uomini che la loro fiducia la mettevano in Dio, i poveri in spirito? Hai incontrato donne o uomini che nemmeno il pianto li ha spenti in umanità? Hai incontrato donne e uomini immagini della mitezza? Hai incontrato donne e uomini icone della misericordia, donne e uomini esempi luminosi dell’onestà, donne e uomini costruttori tenaci di ponti di pace, donne e uomini divorati dalla passione per la giustizia, pronti a subire, ma mai arresi?

Li hai incontrati? Li avete incontrati? Io penso che, se ce lo chiedessero, noi dovremmo rispondere che sì, che noi sì li abbiamo incontrati e conosciuti. E che erano donne e uomini – dovremmo subito aggiungerlo – “di ogni nazione, tribù, lingua e popolo”. Lo sappiano o no, donne e uomini conformi all’immagine di Gesù. Che splende nelle beatitudini del monte. Lo dovremmo confessare. Di averli incrociati.

Ma poi – e ho finito – poi ci rimarrebbe dentro una domanda o forse anche un augurio che qualche tratto dell’immagine di Gesù fosse impresso anche nella nostra vita. Non so quale delle beatitudini. Ma come lo vorrei. Non mi rimane che pregare, non ci rimane che pregare perché sia. Così sia.

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I santi sono gli uomini e le donne delle Beatitudini
Ermes Ronchi

I santi sono gli uomini delle Beatitudini. Queste parole sono il cuore del Vangelo, il racconto di come passava nel mondo l’uomo Gesù, e per questo sono il volto alto e puro di ogni uomo, le nuove ipotesi di umanità. Sono il desiderio prepotente di un tutt’altro modo di essere uomini, il sogno di un mondo fatto di pace, di sincerità, di giustizia, di cuori limpidi.

Al cuore del Vangelo c’è per nove volte la parola beati, c’è un Dio che si prende cura della gioia dell’uomo, tracciandogli i sentieri. Come al solito, inattesi, controcorrente. E restiamo senza fiato, di fronte alla tenerezza e allo splendore di queste parole.

Le Beatitudini riassumono la bella notizia, l’annuncio gioioso che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

Quando vengono proclamate sanno ancora affascinarci, poi usciamo di chiesa e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, incredibile, stravolgente e contromano che l’uomo possa pensare.

La prima dice: beati voi poveri. E ci saremmo aspettati: perché ci sarà un capovolgimento, perché diventerete ricchi.

No. Il progetto di Dio è più profondo e vasto. Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altra vita! Beati, perché c’è più Dio in voi, più libertà, più futuro.

Beati perché custodite la speranza di tutti. In questo mondo dove si fronteggiano lo spreco e la miseria, un esercito silenzioso di uomini e donne preparano un futuro buono: costruiscono pace, nel lavoro, in famiglia, nelle istituzioni; sono ostinati nel proporsi la giustizia, onesti anche nelle piccole cose, non conoscono doppiezza. Gli uomini delle Beatitudini, ignoti al mondo, quelli che non andranno sui giornali, sono invece i segreti legislatori della storia.

La seconda è la Beatitudine più paradossale: beati quelli che sono nel pianto. In piedi, in cammino, rialzatevi voi che mangiate un pane di lacrime, dice il salmo. Dio è dalla parte di chi piange ma non dalla parte del dolore! Un angelo misterioso annuncia a chiunque piange: il Signore è con te. Dio non ama il dolore, è con te nel riflesso più profondo delle tue lacrime, per moltiplicare il coraggio, per fasciare il cuore ferito, nella tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza.

La parola chiave delle Beatitudini è felicità. Sant’Agostino, che redige un’opera intera sulla vita beata, scrive: abbiamo parlato della felicità, e non conosco valore che maggiormente si possa ritenere dono di Dio. Dio non solo è amore, non solo misericordia, Dio è anche felicità. Felicità è uno dei nomi di Dio.

Avvenire

Feste di famiglia, feste di fraternità! La festa di Tutti i Santi e il ricordo di tutti i fedeli defunti ci fanno sentire che siamo tutti membri di una famiglia grande, allargata fino ai confini del mondo. Sono due giornate (1 e 2 novembre) che ci riportano ad una nostra celebrazione familiare. Nostra, perché i santi e i defunti sono parte dell’unica famiglia di Dio e degli uomini, la nostra famiglia. È la famiglia di tutti i santi: non solo dei pochi riconosciuti ufficialmente come tali dalla Chiesa, ma di tutte le persone di buona volontà, di tutti coloro che hanno cercato Dio con cuore sincero e nel rispetto del prossimo. È la famiglia di tutti i defunti, non solo dei nostri parenti e amici. A tutti loro ci uniscono vicende comuni, fatte di gioie, speranze, dolore, fragilità, fatiche… Fino alla strettoia inevitabile della morte, in un cammino che accomuna tutti: santi e peccatori, ricchi e poveracci, credenti e non… Siamo parte di una famiglia innumerevole di donne e uomini di ogni lingua, colore, razza, religione, cultura, condizione sociale…

È la festa della famiglia allargata, dalle dimensioni universali, senza confini. Dove nessuno è sconosciuto o straniero per Dio e per coloro che vivono in Lui. Dove Dio conosce ogni volto e chiama ciascuno per nome. Una famiglia dove c’è una fraternità circolare di rapporti a beneficio di tutti: i santi del cielo intercedono presso Dio a nostro favore, mentre siamo pellegrini sulla terra; noi, pellegrini, diamo lode e rendiamo grazie a Dio per la sua misericordia e per le cose belle che Egli opera nei santi; noi e i santi offriamo suppliche per i defunti che ancora attendono di contemplare pienamente il volto di Dio; anche i defunti, in forme che noi non conosciamo, vivono una speciale comunione con Dio, che ridonda a beneficio nostro. È quindi una intercessione circolare: di Cristo e dei santi per noi; la nostra intercessione a favore dei defunti; e i defunti – che sono già dei salvati! – a favore dei parenti e di tutta la famiglia umana.

La circostanza è propizia per riflettere e vivere i valori di famiglia, fraternità, universalità, in una speciale comunione con gli antenati: sia gli antenati nel clan e nella cultura popolare, sia gli antenati nella fede cristiana, che sono i santi. Cioè coloro che hanno realizzato al meglio, spesso fino all’eroismo, gli ideali e i valori del Vangelo e delle culture dei popoli. Sono essi i giganti spirituali, i modelli riusciti dell’umanità rinnovata in Cristo, che è per tutti l’Uomo nuovo, il modello perfetto, l’ispiratore di ogni forma di santità. Un tema di particolare risonanza per tutti coloro che annunciano il Vangelo, anche fra i popoli non cristiani! Il Papa Francesco ci dice che la santità è “il volto più bello della Chiesa”; ci parla della “santità nella vita quotidiana”, che tante volte è “la santità della porta accanto”. (*)

Beati…” è la prima parola di Gesù nel suo discorso programmatico, sul “monte delle beatitudini” Cosa significa ‘beato’, questo termine un po’ scolorito? La mente corre subito a sinonimi quali: felice, contento, fortunato. Ma il termine non può essere compresso solo nel mondo delle emozioni, come uno stato d’animo aleatorio. Indica invece uno stato di vita, consolida l’aspirazione alla gioia, all’amore, alla vita. Beati, ed è come dire: in piedi, in cammino, avanti, voi poveri. Dio cammina con voi; su, a schiena dritta, non arrendetevi, voi non violenti, siete il futuro della terra; coraggio, alzati tu che piangi; non lasciarti cadere le braccia.  (A. Chouraqui – E. Ronchi)

Queste considerazioni non tolgono nulla al rigore e alla amarezza della morte, quel “duro calle”, di dantesca memoria, che fa paura, ma che è il passaggio obbligato verso la Vita piena. Un passaggio da affrontare senza evasioni, con realismo umano e cristiano! Ce ne ha dato un esempio, tra molti altri, il Card. Carlo Maria Martini, gesuita, maestro nella dottrina, arcivescovo di Milano (+ 2012): ammalato di Parkinson, “nel contesto di una morte imminente”, sentendosi “già arrivato nell’ultima sala d’aspetto, o la penultima”, confessava di essersi “più volte lamentato col Signore” per la necessità di dover morire. Martini non nascondeva il suo travaglio interiore fino ad accettare quel duro calle, oscuro e doloroso: “Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto, in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio”. Davanti al mistero della morte, che richiede “un affidamento totale”, Martini concludeva: “Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani”.

Di fronte alla morte, appare ancora più prezioso il dono della fede cristiana, l’unica che è capace di gettare una luce nuova e definitiva sul senso della vita, di Dio, del dolore, della storia… Una luce che fa la differenza. Una luce che altre fedi religiose non riescono a dare. Ancora una volta, emerge la novità del messaggio cristiano. E, quindi, l’urgenza della Missione.

Parola del Papa
(*) «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”. Lasciamoci stimolare dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri del popolo di Dio… La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita “segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo”».
Papa Francesco
Esortazione apostolica Gaudete et exsultate (2018), nn. 7.8.9

La festa di tutti i santi nella tradizione popolare è un tutt’uno con il ricordo dei defunti. Infatti in questi giorni si riempiono i nostri cimiteri.
C’è un nesso profondo tra santi e defunti.
Da una parte c’è la festa della memoria. Il ricordo delle persone che ci hanno lasciato.
Dall’altra c’è la festa della “comunione”.
Quando recitiamo il “credo” diciamo: “credo nella comunione dei santi”.
Credo in una “comunione-relazione” che non si rompe mai.
Perché la vita fisica finisce, ma l’amore non finisce mai.
Le persone che hanno fatto parte della nostra vita , fisicamente con ci sono più, ma rimangono per sempre “dentro” di noi.

Ognuno di noi ha i suoi santi. Ha i suoi defunti.
Ci sono santi in cielo, i santi di ieri, e santi sulla terra, i santi di oggi.
Tutti noi abbiamo conosciuto ed incontrato nella nostra vita delle persone straordinarie che sono state per noi dei veri “angeli “ che ci hanno aiutato a crescere.
Santi sono tutti quelli che ci hanno regalato un po’ della loro umanità.

Ma Santi sono anche tutte quelle persone semplici ed oneste che incontriamo ogni giorno nella nostra vita.
Non è facile riconoscerli, perché la vera santità è nascosta. Non si fa vedere. Santi infatti sono la moltitudine di gente semplice che nel silenzio, senza salire sul palcoscenico della televisione, o dei giornali, seminano ogni giorno opere straordinarie di bene.

Santa è quella mamma che dopo una giornata di lavoro, torna a casa stanca e si mette a preparare la cena per i suoi figli.
Santo è quell’insegnante che fa del suo lavoro una missione.
Santo è quel medico che sa coniugare la sua professionalità con tanta umanità.
Santi sono quei nonni, che regalano il loro tempo e la loro saggezza ai nipoti.

Purtroppo pensiamo sempre ai santi e alla santità come a qualche cosa di riservato a gente privilegiata.
I santi non sono degli “eroi” e neanche delle persone “strane” che noi veneriamo sugli altari per ottenere qualche miracolo.
Anche loro come noi sono pieni di difetti.

Gesù chiama Beati (cioè santi) i piccoli, i semplici, i miti, chi si prende cura degli altri.
In quelle nove beatitudini ci siamo dentro tutti. Ci sei anche tu. C’è anche il mio volto. Siamo tutti responsabili di rendere questa terra un po’ più umana. Per far felice una persona spesso basta molto poco: un sorriso, una carezza, una parola, uno sguardo.
Diventare ogni giorno piccoli “angeli”. E’ questo il vero miracolo che possiamo fare anche noi.

GIORNI DELLA MEMORIA DEI NOSTRI “ANGELI”

” Non chiamiamoli più “i morti”,
perché essi sono più vivi dei “vivi”,
e ci sono più vicini e presenti,
e ci vedono dal di dentro …”

David Maria Turoldo (1916 – 1992)
monaco, poeta, profeta

In passato i santi hanno goduto di una enorme popolarità: le chiese erano piene delle loro statue e a loro si ricorreva forse più che a Dio. C’era il santo dei camionisti, quello degli studenti, quello che faceva ritrovare gli oggetti smarriti, quello per le malattie degli occhi, quello per il mal di gola… Erano considerati una specie di intermediari che avevano la funzione di “ammorbidire” l’impatto con un Dio considerato troppo grande e lontano, un po’ inavvicinabile e piuttosto estraneo ai nostri problemi.

Oggi la tendenza di ricorrere al santo per chiedergli che presenti a Dio una raccomandazione si va affievolendo. Ci si rivolge sempre di più al Signore, direttamente, con la fiducia dei figli. I santi – anche Maria – vengono giustamente considerati sorelle e fratelli che, con la loro vita, indicano un cammino per seguire Cristo e invitano a pregare in ogni momento, insieme con loro, l’unico Padre.

Il termine santo indica la presenza nelle persone di una forza divina e benefica che permette di distinguersi, di distanziarsi da ciò che è imperfetto, debole, effimero.

Fra gli uomini apparsi in questo mondo, solo Cristo ha posseduto in pienezza questa forza di bene e solo lui può essere proclamato santo, come cantiamo nel Gloria: “Tu solo sei santo”.

Anche noi però possiamo elevarci verso di lui e divenire partecipi della sua santità.

Egli è venuto nel mondo per accompagnarci verso la santità di Dio, verso quella meta irraggiungibile che ci ha indicato: “Siate perfetti come il Padre vostro che sta nei cieli” (Mt 5,48).

I primi suoi discepoli sono stati identificati con vari nomi. Sono stati chiamati “galilei”, “nazareni” e, ad Antiochia, “cristiani”. Si trattava di designazioni spregiative: “galilei” era sinonimo di “rivoltosi”; “nazareni” si riferiva al villaggio disprezzato da cui proveniva il loro Maestro; “cristiani” significa “unti”, cioè seguaci di un sedicente “unto del Signore” finito sul patibolo.

Non erano questi i titoli che impiegavano fra di loro. Essi si qualificavano come “i fratelli”, “i credenti”, “i discepoli del Signore”, “i perfetti”, “gli uomini della via” e… “i santi”.

Paolo indirizzava le sue lettere “a tutti i santi che vivono nella città di Filippi…” (Fil 1,1); “ai santi che sono in Efeso…” (Ef 1,1); “ai santi e fedeli fratelli in Cristo che abitano in Colossi…” (Col 1,2); “a tutti i santi dell’intera Acaia” (2 Cor 1,1); “a tutti voi prediletti di Dio che siete in Roma e che siete chiamati santi…” (Rm 1,7). Non scriveva ai santi del cielo, ma a persone concrete che abitavano a Filippi, Efeso, Corinto, Colossi, Roma. Erano loro i santi.

Santo è ogni discepolo: sia che si trovi già in cielo con Cristo o che viva ancora pellegrino su questa terra.

Nei templi ortodossi i santi che sono in cielo sono dipinti lungo le pareti, ad altezza d’uomo, in piedi, come i risorti di cui parla il veggente dell’Apocalisse (Ap 7,9). È il modo con cui si vuole rammentare a tutti i partecipanti alla celebrazione che i santi del cielo, benché possano essere contemplati solo con lo sguardo della fede, continuano a vivere accanto ai santi della terra. Sono parte della comunità convocata per rendere grazie al Signore.

Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Santa è la tua famiglia, Signore, nei cieli e sulla terra.

Prima lettura (Ap 7,2-4.9-14)

2 Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: 3“Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi”.
4 Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d’Israele.
9 Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. 10 E gridavano a gran voce:
“La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”.
11 Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo:
12 “Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen”.
13 Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”.
14 Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”.
E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello.

Quanti dolori, quante lacrime, quante amarezze nella vita dell’uomo! Perché tanti soprusi, violenze e ingiustizie nel mondo?

Quattro capitoli dell’Apocalisse sono dedicati a questo angosciante problema (Ap 5-8). È la sezione dei sette sigilli.

In mano al Signore assiso in trono – racconta il veggente – si trova il libro in cui è registrata la storia dell’umanità, con tutti i drammi che da sempre la affliggono. Vi è contenuta anche la risposta agli inquietanti enigmi del male e del dolore; ma purtroppo il libro è “sigillato con sette sigilli” che nessuno è in grado di spezzare.

Rimarranno dunque sempre velati i misteriosi disegni di Dio?

Al veggente dell’Apocalisse che piange inconsolabile, un vegliardo si accosta e gli dice: “Smetti di piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide. Egli aprirà il libro e i suoi sette sigilli”.

Ecco infatti l’Agnello immolato spezzare, uno ad uno, i sigilli e svelare gli enigmi.

Il nostro brano narra ciò che accade dopo la rottura del sesto sigillo.

Quattro spiriti celesti, posti ai quattro angoli del mondo, stanno per liberare i venti che devasteranno la terra e il mare, quando un angelo, con in mano il sigillo del Dio vivente, sale dall’oriente e ordina di fermarsi. Non tutti devono perire. Coloro sui quali egli avrà impresso il marchio dei servi del Signore saranno risparmiati. (Ap 7,1-4).

Gli eletti, i salvati sono centoquarantaquattromila.

Si tratta di un numero simbolico. Risulta da 12x12x1000 e non indica – come qualcuno erroneamente ritiene – i santi del paradiso, ma tutto il popolo di Dio che vive su questa terra, i cristiani che, per il sigillo del Battesimo, sono annoverati nella schiera degli eletti.

Essi non sono dei privilegiati; non sono loro risparmiate le prove e le tribolazioni che affliggono gli altri uomini. Sono però sottratti al potere dell’abisso, appartengono al Signore e si trovano in una condizione nuova, quella di chi è partecipe della santità di Dio.

Avendo compreso i disegni del Signore sul mondo, contemplano da una prospettiva diversa ciò che accade sulla terra; osservano dall’alto, dal cielo tutti gli eventi e li leggono con gli occhi di Dio.

Sono turbati, sì, come tutti, dalle dure prove attraverso le quali devono passare, ma non sono sconvolti. La malattia, il dolore, i tradimenti per loro non sono sconfitte e assurdità, ma momenti di maturazione e di crescita e la morte non è una beffa, ma una nascita che segna l’inizio della seconda parte della vita, la migliore.

È l’Agnello immolato che, con la sua vita stroncata dall’odio, ma donata per amore, ha rivelato loro che Dio fa rientrare nel suo progetto di salvezza anche gli eventi più assurdi.

Dopo questa prima visione in cui è presentata la comunità dei santi che, su questa terra, è segno della città celeste, ecco apparire una moltitudine immensa che nessuno può contare, gente di ogni razza, lingua, popolo e nazione. Stanno in piedi di fronte al trono dell’Agnello, indossano vesti bianche e hanno palme nelle mani (v. 9).

Il vestito bianco è il simbolo della gioia e della vita nuova che in loro si rivela in pienezza, senza più macchia di peccato; le palme sono il segno della vittoria che hanno conseguito con la loro fedeltà a Cristo. Chi sono?

Questa è la comunità dei santi del cielo, costituita da coloro che hanno concluso il pellegrinaggio sulla terra e sono entrati nella condizione dei beati.

Hanno sopportato tribolazioni e persecuzioni e, come l’Agnello, hanno donato la vita per amore. Dagli uomini sono stati ritenuti degli sconfitti, ma Dio li ha proclamati vincitori e ha consegnato loro la palma (v. 14).

I versetti che seguono e che non sono riportati nella nostra lettura descrivono la sorte che li attende: non avranno più fame, né sete, non li colpirà il sole né arsura di sorta, perché l’Agnello… sarà il loro pastore… e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi (vv. 16-17).

Cristo – l’Agnello immolato – li riconoscerà come agnelli del suo gregge perché si sono fidati di lui, lo hanno seguito nel dono della vita.

Questa pagina è stata scritta per infondere coraggio nei cristiani delle comunità dell’Asia Minore che, alla fine del I secolo, erano tentati di rinnegare il loro Maestro a causa delle persecuzioni.

La prospettiva di condividere con lui la beatitudine del cielo doveva incitarli a mantenere salda la loro fede e a continuare a seguire, con pazienza e perseveranza, l’Agnello immolato.

Seconda lettura (1 Gv 3,1-3)

1 Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui.
2 Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
3 Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

La vita di Dio che il cristiano riceve nel battesimo è una realtà spirituale, misteriosa.

Per descriverla, Gesù, parlando con Nicodemo, impiega un paragone. È come il vento – dice – non lo si vede, non si sa donde venga né dove vada; eppure sappiamo che esiste, lo si sente, ne notiamo gli effetti.

La vita divina nell’uomo non può essere verificata con i sensi, tuttavia i segni della sua presenza sono inequivocabili. Chi l’ha accolta diviene un uomo nuovo, guidato da uno spirito che non è più quello di questo mondo.

Il brano della lettera di Giovanni inizia con un’esclamazione di gioia: Quale grande amore ci ha donato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (v. 1).

Nella mentalità semitica, i figli non solo davano continuità alla vita biologica del padre, ma si riteneva che lo rendessero realmente presente. Per questo ci si attendeva che in loro fosse riconoscibile il genitore: per le sembianze esteriori e i tratti del viso, certo, ma soprattutto per l’integrità morale, per la fedeltà a Dio, per gli aspetti più significativi del suo carattere.

Il cristiano autentico è, nel mondo, la presenza del divino e, come ogni figlio, riproduce le sembianze del Padre che sta nei cieli.

La conseguenza – spiega Giovanni – è che chi non conosce Dio, non può neppure riconoscere i figli che da lui sono stati generati (v. l). Questi fanno scelte in sintonia con i pensieri e i sentimenti del Padre, gli assomigliano, sono diversi dagli altri, sono “santi”. Non deve sorprendere quindi che non siano capiti da coloro che ripiegano i loro sguardi unicamente sulle realtà della terra.

Questa verità è richiamata anche da Paolo ai cristiani di Corinto. I discepoli del Signore – dichiara – possiedono una sapienza, un modo di valutare questo mondo che è incompatibile con i criteri di giudizio degli uomini. Si tratta di “una sapienza divina, misteriosa che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere… L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle” (1 Cor 2,6-14).

Dopo aver richiamato ai cristiani la dignità della loro figliolanza divina – Già fin d’ora noi siamo figli di Dio – l’autore della lettera li invita a contemplare il destino radioso che li attende: Ciò che saremo non è ancora stato rivelato (v. 2).

La condizione attuale non è definitiva. Un velo, costituito dalla nostra realtà mortale legata alla terra, impedisce di renderci conto di ciò che realmente siamo. Un giorno questo velo sarà tolto e allora contempleremo Dio così come egli è e capiremo ciò che già oggi siamo.

Nel grembo materno, il figlio riceve alimento e vita dalla madre, eppure, pur dipendendo completamente da lei, non è in grado di vedere il suo volto. Solo dopo la nascita può guardare e abbracciare teneramente colei che l’ha generato.

In questo mondo l’uomo vive la gestazione nell’attesa del momento del parto. Si trova  nel grembo di Dio che è padre e madre. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” – ricorda Paolo agli ateniesi (At 17,28), ma non possiamo vedere il suo volto. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (v. 2).

Vangelo (Mt 5,1-12)

L’uomo ha sempre coltivato il desiderio di incontrare Dio, di interrogarlo, di conoscere i suoi pensieri, di scoprire i suoi disegni.

Come trovarlo? Dove fissare un appuntamento con lui?

Nei tempi antichi si riteneva che il luogo ideale fossero le vette dei monti. Tutti i popoli avevano la loro montagna sacra – luogo d’incontro fra cielo e terra, dimora degli dèi e meta dell’ascesa umana – i greci l’Olimpo, gli abitanti dell’alta Mesopotamia l’Ararat, a Ugarit lo Tzaphòn.

Anche Israele condivideva questa convinzione. Abramo, Mosè ed Elia hanno fatto le loro esperienze spirituali più forti sui monti, sul Moria, sull’Oreb, sul Carmelo.

Matteo colloca il primo discorso di Gesù sul monte.

La devozione cristiana ha identificato questo luogo con la collina che domina Cafarnao. Le suore che la custodiscono l’hanno trasformata in un’oasi di pace, di raccoglimento e di preghiera. Passeggiando sotto gli alberi maestosi, accolti dal fruscio delle foglie mosse dalla brezza che scende dalle vette innevate del Libano, contemplando dall’alto il lago che tante volte è stato solcato dalla barca di Gesù e dei discepoli, ci si sente quasi naturalmente indotti ad elevare lo sguardo al cielo e il pensiero a Dio.

Per quanto possa essere suggestiva questa esperienza, il monte cui fa riferimento Matteo non va inteso in senso geografico, ma nel suo significato teologico.

Più che un luogo reale, “il monte” nella Bibbia indica qualunque luogo o momento in cui ci si dispone ad incontrare il Signore e ad accogliere sua parola.

Possiamo visualizzare la scena. Gesù si stacca dalla pianura, simbolo della società dove – per dirla con il Qoelet – “ogni fatica e tutta l’abilità messe in atto non sono altro che invidia e competizione dell’uno con l’altro” (Qo 4,4). Sale sul monte dove i criteri di giudizio e i modelli di vita proposti sono radicalmente diversi: sono quelli di Dio.

La scala di valori stabilita in pianura è, a grandi linee, la seguente: al primo posto la salute, poi la famiglia, il successo professionale, il conto in banca, gli amici. Anche Dio e i santi – certo – sono collocati in graduatoria, ma piuttosto in basso, come utili supporti dei valori precedenti che sono quelli che stanno realmente a cuore.

Sarà un uomo riuscito colui che imposta la propria vita secondo questi ideali? Cosa ne pensa Dio?

Per non correre il rischio di puntare su obbiettivi deludenti e sprecare la propria esistenza è necessario confrontarsi con il suo giudizio.

Quale scala di valori è proposta sul monte?

Oggi la liturgia ci fa riflettere sulle proposte di beatitudine formulate da Gesù. Sono quelle che i santi del cielo hanno messo in pratica e che i santi della terra, stimolati dal loro esempio, sono incoraggiati a seguire.

Beati i poveri in spirito

Difficile dire in quanti modi è stata interpretata questa beatitudine.

Qualcuno l’ha riferita ai miserabili, ai mendicanti, agli sfruttati, quasi fossero loro le persone di cui Dio si compiace e che quindi andrebbero lasciate nella loro condizione, anzi, bisognerebbe far sì che tutti diventassero come loro.

Si tratta, evidentemente, di un’interpretazione assurda, deviante. L’umanità sognata da Dio non è quella in cui i suoi figli sono indigenti, ma quella in cui “nessuno è povero” (At 4,34).

Altri ritengono che i “poveri in spirito” siano coloro che, pur mantenendo il possesso dei loro beni, non vi legano il cuore e sono generosi nell’elargire offerte a chi è meno fortunato.

Ma l’elemosina – pur raccomandata in alcuni (rari) testi biblici – non introduce nel mondo la “nuova giustizia”, non risolve alla radice il problema dell’equa spartizione dei beni perché ritiene legittimo che sulla terra esistano ricchi e poveri.

Il principio “a ciascuno il suo” che fonda la nostra giustizia sembra saggio e sensato, invece nasce da una premessa falsa, deriva dal presupposto che qualcosa appartenga all’uomo, mentre tutto è di Dio: “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” (Sl 24,1). L’uomo è solo un amministratore di beni non suoi e di questa amministrazione sarà chiamato un giorno rendere conto.

È dal rapporto falso con i beni di questo mondo, dall’istinto maligno di impossessarsene, accumularli, impiegarli per sé che derivano tutti i mali: le guerre, le violenze, i dissidi, le gelosie (1 Tm 6,10) e il mondo disumano che geme nel dolore e implora di essere rinnovato e redento (Rm 8,19-25).

Tutti gli aggettivi possessivi che usiamo esprimono una concezione erronea della realtà: se tutto è di Dio, non ha senso parlare di mio, di tuo e neppure di nostro perché tutto è del Creatore.

L’immagine biblica del mondo è quella della sala del banchetto cui il Signore invita ogni suo figlio dal momento in cui lo chiama alla vita.

L’uomo è un commensale che gioisce con i fratelli dei doni che gratuitamente il Padre mette a disposizione di tutti; chi li gestisce come sua proprietà commette un furto. La stessa vita non appartiene all’uomo, è di Dio, è un dono che deve essere offerto per amore.

Nei confronti dei beni Gesù non ha mai assunto l’atteggiamento di disprezzo che ha caratterizzato i filosofi cinici. Per lui anche la “ricchezza disonesta” diviene buona quando è distribuita ai poveri (Lc 16,19). Tuttavia, benché non l’abbia mai condannata, l’ha considerata un pericolo, un ostacolo – insormontabile per molti – ad entrare nel regno dei cieli (Mt 19,23). Più una persona è favorita, più beni ha a disposizione, più è tentata di legarvi il cuore, trattenerli per sé e impiegarli egoisticamente.

A chi lo vuole seguire – a chi vuole essere santo – Gesù chiede il distacco totale: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).

 È nel contesto di questa esigenza irrinunciabile alla condivisione di tutto ciò che ci è messo a disposizione da Dio che va letta la beatitudine.

Gesù non esalta la povertà in quanto tale. Aggiungendo la specificazione in spirito, chiarisce che non tutti i poveri sono beati. Devono considerarsi tali solo coloro che, per libera scelta, si spogliano di tutto, gestiscono i beni secondo il disegno di Dio.

Poveri in spirito sono coloro che decidono di non possedere nulla per sé e mettono a disposizione degli altri tutto ciò che hanno ricevuto.

Si badi bene: povero secondo il vangelo non è colui che non possiede nulla, ma colui che non trattiene nulla per sé.

Chi ha avuto di più, chi è stato favorito è ricco se diviene altezzoso, umilia i meno dotati, impiega le proprie capacità per primeggiare. Se invece si spende per gli altri, si mette a servizio di chi ha bisogno di lui è povero in spirito.

Anche chi è miserabile può non essere “povero in spirito”. Non lo è se maledice se stesso e gli altri, se tenta di migliorare la propria condizione con la violenza e con l’inganno, se pensa di liberarsi da solo disinteressandosi degli altri, se coltiva il sogno di conquistare un giorno la posizione prestigiosa dei ricchi.

La povertà volontaria, la rinuncia all’uso egoistico di tutti i beni che si possiedono non è qualcosa di facoltativo, non è un consiglio riservato ad alcuni che vogliono essere eroici o più perfetti degli altri. È ciò che contraddistingue il santo, cioè il cristiano.

La promessa che accompagna la beatitudine non rimanda a un futuro lontano, non assicura l’entrata in paradiso dopo la morte, ma annuncia una gioia immediata: di essi è il regno dei cieli. Dal momento in cui si fa la scelta di essere e di rimanere poveri, si entra nel “regno dei cieli”, si appartiene alla famiglia dei santi.

Questa beatitudine non è un messaggio di rassegnazione, ma di speranza: nessuno più sarà bisognoso quando tutti diverranno “poveri in spirito”, quando metteranno i doni che hanno ricevuto da Dio a servizio dei fratelli, come fa Dio, il Santo che, pur possedendo tutto, è infinitamente povero: non trattiene nulla, dona tutto, anche suo Figlio.

Beati coloro che soffrono

Per secoli nella chiesa è stato predicato un’ascesi che esaltato il dolore come mezzo per unirsi più strettamente ai patimenti di Cristo. Ha suscitato schiere di santi e risvegliato preziose energie spirituali, ma ha anche diffuso l’erronea convinzione che la sofferenza sia gradita a Dio.

Non è così. Il dolore disumanizza e il Signore non può compiacersi di un’offerta che sfigura il volto dei suoi figli. Gesù – citando il profeta Osea – ha ricordato che Dio desidera l’amore, non il sacrificio (Mt 9,13).

Che intende dire allora quando proclama beati gli “afflitti”?

Il termine che impiega è ben noto a chi conosce la Bibbia.

Gli “afflitti” di cui si parla nel libro del profeta Isaia sono coloro che non hanno una casa in cui abitare, non hanno campi da coltivare perché l’eredità dei loro padri è stata usurpata da estranei, si devono mettere a servizio di proprietari terrieri senza scrupoli, subiscono ingiustizie, soprusi, malversazioni, umiliazioni (Is 61,7).

A queste persone che hanno il cuore affranto, che siedono nella cenere e che vestono l’abito da lutto (Is 61,3) il profeta rivolge un messaggio di speranza. Dio – assicura – sta per intervenire, capovolgerà la situazione ed eliminare le cause del lutto: “Allieterà gli afflitti di Sion, darà loro una corona invece della cenere, l’olio di letizia invece dell’abito di lutto, il canto di lode invece di un cuore mesto” (Is 61,3).

Nella sinagoga di Nazareth Gesù ha applicato a sé questo oracolo. Ha proclamato di essere venuto per dare compimento a questa promessa di Dio (Lc 4,21).

Gli “afflitti” che il Cielo considera beati sono coloro che sono attenti e sensibili all’immenso grido di dolore che sale dal mondo. “Piangono con coloro che piangono” (Rm 12,15), ma non si rassegnano di fronte al male e alle sofferenze e si attendono da Dio e dalla sua parola la salvezza.

Saranno consolati: nel regno di Dio – di cui Gesù, il Santo, ha posto le fondamenta e che santi collaborano a costruire – tutte le situazioni che sono causa di dolore e di lacrime saranno eliminate.

Beati i miti

L’aggettivo “mite” richiama l’idea della persona rassegnata che non reagisce alle provocazioni, che accetta passivamente e senza lamentarsi le ingiustizie.

È quest’uomo che rifugge da ogni conflitto (ma che forse rivela anche una personalità debole) che viene proclamato beato?

Il termine “mite” usato da Gesù è ripreso dall’Antico Testamento e, più precisamente, dal Salmo 37 dove sono chiamati “miti” coloro che sono stati privati dei loro diritti, della loro libertà, dei loro beni. Sono poveri perché i potenti hanno sottratto loro il campo, la casa e prefino i figli e le figlie. Sono costretti a subire ingiustizie senza nemmeno poter protestare.

Non si rassegnano, ma si rifiutano di ricorrere alla violenza per ristabilire la giustizia. Non si lasciano guidare dall’ira, non alimentano il rancore e il desiderio di vendetta. Confidano in Dio e attendono la venuta del suo regno.

La loro non è però un’attesa passiva come quella di chi aspetta l’autobus; è operosa, si traduce in impegno concreto.

Modello dell’autentica mitezza è Gesù (Mt 11,29; 21,5) che non è stato certo un debole, un timido, un pusillanime. Ha vissuto conflitti drammatici, ma li ha affrontati con le disposizioni di cuore che caratterizzano i “miti”. Ha ripudiato la violenza, ha amato chi lo avversava; paziente e tollerante si è fatto servo di tutti.

Santi sono coloro che coltivano i sogni di Dio sul mondo e, con Gesù – il Santo – si impegnano a realizzarli, dando prova, nei confronti di chi si oppone loro, della stessa “mitezza” del Maestro.

La promessa: erediteranno la terra. Riceveranno da Dio una terra nuova, costruiranno con lui un mondo nuovo, realmente umano.

Un sogno?

Sì, ma di Dio e i santi non si lasciano persuadere dal maligno che tenta di convincere che le promesse del Signore non si avvereranno mai. Non si rassegnano di fronte alla realtà spesso desolante in cui sono chiamati a operare e mantengono ferma quella speranza che Paolo qualifica con il termine greco hupomoné, la caratteristica delle pietre dure che resistono a qualunque pressione (1 Ts 1,3).

Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia

La fame e la sete sono i bisogni biologici più impellenti. È con la stessa passione – raccomanda Gesù – che i suoi discepoli devono bramare “la giustizia”.

Di che giustizia si tratta?

Quella degli uomini stabilisce che tutti siano trattati secondo ciò che meritano: i buoni vanno premiati, i colpevoli puniti, gli innocenti rilasciati. “Giustiziare” è addirittura sinonimo di mandare al patibolo.

È forse questa la giustizia di cui si deve aver fame e sete?

L’aggettivo “giusto” può essere applicato a Dio, ma con molta cautela, perché si corre il rischio di trasformare il Signore in un esecutore di sentenze e nel garante della moralità con promesse di premi e minacce di castighi.

La Bibbia parla spesso della giustizia di Dio, ma sempre e solo come sinonimo di benevolenza, mai nel senso della nostra giustizia distributiva.

Dio è giusto, non perché retribuisce secondo i meriti, ma perché, con il suo amore, rende giusti coloro che sono malvagi. È giusto perché “vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4).

Per noi giustizia è fatta significa che il colpevole è stato punito. Per Dio giustizia è fatta quando è riuscito a rendere giusto chi era empio, quando ha ricuperato un peccatore dall’abisso della colpa.

Nessuno come Gesù ha bramato tanto che nel mondo si instaurasse questa giustizia.

Ai discepoli che lo invitavano a mangiare ha risposto: “Mio cibo è portare a compimento l’opera di colui che mi ha mandato” (Gv 4,34). Solo la giustizia di Dio poteva saziare la sua fame.

Annunciava la parola che rendeva giusti ed erano tante le persone bisognose di udirla che non gli rimaneva più il tempo neanche per mangiare (Mc 6,31).

Santi sono coloro che condividono con Gesù la sua stessa fame e sete per la salvezza dei fratelli.

La promessa: saranno saziati. Sperimenteranno – già su questa terra – la gioia di Dio e degli angeli del cielo che fanno più festa per un peccatore che è reso giusto che per novantanove che non hanno bisogno di conversione (Lc 15,7).

Beati coloro che compiono opere di misericordia

Questa beatitudine sembra inserirsi nella contrapposizione fra magnanimità e desiderio di punire i colpevoli. Pare un invito a far prevalere sempre la compassione e il perdono.

Questo è certamente uno degli aspetti della “misericordia” e si accorda bene con la raccomandazione di Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6,36-37). Ma non esaurisce la ricchezza di questo termine biblico.

Nella Bibbia la “misericordia”, più che un sentimento di pietà, è un’azione in favore di chi ha bisogno di aiuto. L’esempio più chiaro è quello del samaritano che – dice il testo greco – ha compiuto la misericordia nei confronti dell’uomo aggredito dai banditi (Lc 10,37).

I rabbini del tempo di Gesù insegnavano che Dio è misericordioso perché compie opere di misericordia e specificavano: “Dio vestì gli ignudi – quando ricoprì con foglie Adamo ed Eva; Gn 3,21 – così voi dovete vestire gli ignudi. Egli visitò i malati – difatti andò a trovare Abramo quando soffriva per la circoncisione e visitò la sterile Sara; Gn 18,1 – così voi dovete visitare i malati. Egli confortò coloro che erano in lutto – quando consolò Isacco dopo la morte del padre; Gn 25,11 – così voi dovete confortare coloro che sono in lutto. Egli seppellì i morti – fu lui che seppellì Mosè; Dt 34,6 – così voi dovete seppellire i morti”.

Misericordiosi sono i santi che, di fronte ai bisogni dell’uomo, provano l’emozione del cuore di Dio e intervengono compiendo opere di misericordia, come ha fatto Dio.

La promessa: troveranno misericordia. Nel mondo nuovo, nel regno di Dio, anch’essi, quando avranno bisogno di aiuto, incontreranno sempre fratelli disposti a tendere loro la mano, anzi, a consegnare la loro vita per soccorrerli.

Beati i puri di cuore

La purità era una delle caratteristiche più marcate della religiosità giudaica. Qualunque contatto con i culti pagani, con ciò che in qualche modo richiamava la morte, con ciò che era immondo doveva essere evitato.

Da questa esigenza di purità nascevano i divieti, le minuziose disposizioni dei rabbini che obbligavano a tenersi lontani da ciò che era percepito come contrario alla santità di Dio. Siccome però le trasgressioni erano inevitabili, era necessario ricorrere ossessivamente a riti purificatori, abluzioni, sacrifici (Mc 7,3-4).

Non sono queste pratiche che interessano a Gesù. È la purità di cuore quella che egli esige. Non c’è nulla di esterno all’uomo che lo contamini. È solo ciò che esce dal cuore che può rendere immondi (Mt 15,17-20).

I puri di cuore sono coloro che hanno il cuore indiviso, coloro che non amano contemporaneamente Dio e gli idoli.

Non ha il cuore puro colui che serve due padroni, colui che ha una condotta che non si accorda con la fede che professa, colui che ama Dio, ma mantiene nel cuore il rancore verso il fratello, colui che non commette l’azione cattiva, ma è adultero nel proprio cuore (Mt 5,28).

La promessa: vedranno Dio. Solo a loro è dato di fare l’esperienza beata dell’abbandono fiducioso fra le braccia di Dio.

Beati coloro che si impegnano per la pace

Fra le opere di misericordia raccomandate dai rabbini del tempo di Gesù, la più meritoria era mettere pace, ricostruire l’armonia fra le persone. Ogni azione tesa a riportare la pace – si diceva – attira le benedizioni di Dio.

Beato è certamente colui che, senza ricorrere alla violenza, impegna tutte le sue energie a porre fine alle guerre e ai conflitti; beato è chi si frappone fra i contendenti e tenta di convincerli al dialogo, alla concordia, alla pace.

Ma nella Bibbia la parola “pace” (shalom) non significa solo assenza di guerre. Indica il benessere totale, implica l’armonia con Dio, con gli altri e con se stessi, la prosperità, la giustizia, la salute, la gioia.

“Operatori di pace” sono tutti coloro che si impegnano affinché questa vita colma di ogni bene sia possibile per ogni uomo.

A questi santi viene riservata la più bella delle promesse: Dio li considera suoi figli.

Beati i perseguitati per la giustizia

Ci sono sciagure che colpiscono in modo imprevisto: fatalità, malattie e disgrazie possono capitare a chiunque. Altre sofferenze sono invece la conseguenza di comportamenti dissennati o immorali e queste ce le andiamo a cercare.

C’è un terzo tipo di tribolazioni: quelle che non vorremmo, ma che dobbiamo mettere in conto – perché sono un prezzo inevitabile da pagare – se scegliamo di seguire Cristo.

Gesù non ha illuso i suoi discepoli; non ha promesso onori e successi, non ha assicurato l’approvazione e il consenso degli uomini, ha ripetuto con insistenza e con chiarezza che l’adesione a lui comporta persecuzioni: “Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25). E ancora: “Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome” (Lc 21,12); “Quando vi perseguiteranno in una città fuggite in un’altra” (Mt 10,23); “La sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti ed apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo” (Lc 11,49-50).

La persecuzione è la divisa che contraddistingue il discepolo. Paolo è molto esplicito: “Tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12).

Come mai? Ci aspetteremmo che il cristiano – messaggero di pace e di speranza – debba essere accolto a braccia aperte, con gioia e gratitudine.

Invece l’annuncio del vangelo crea conflitti. La ragione è che mondo antico è incompatibile con il regno di Dio e non si arrende in modo pacifico, reagisce aggredendo coloro che lo vogliono far scomparire.

Cristo ha pagato con la vita la fedeltà alla sua missione e i suoi discepoli non devono attendersi un trattamento diverso: “Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20).

Della persecuzione dei giusti si parla spesso anche nell’Antico Testamento. Nei Salmi il giusto chiede a Dio: “Liberami dalla stretta dei miei persecutori” (Sl 7,2); “Quando farai giustizia dei miei persecutori? A torto mi perseguitano: vieni in mio aiuto” (Sl 119,84.86). Geremia è osteggiato, calunniato, rinchiuso in una cisterna.

Nell’Antico Testamento però la persecuzione è considerata un male e l’uomo che la subisce non può essere felice finché Dio non interviene per porvi fine.

Nel Nuovo Testamento la prospettiva cambia. Colui che soffre per la sua fedeltà al Signore è proclamato beato nel momento e per il fatto stesso di essere perseguitato.

La persecuzione non è il segno del fallimento, ma del successo. È un motivo di gioia perché costituisce la prova che si sta portando avanti la scelta giusta, quella secondo la “sapienza di Dio”.

 È inevitabile che coloro che propongono una società fondata sui principi insegnati “sul monte” siano perseguitati. Essi introducono nel mondo gli anticorpi del servizio che attaccano i virus del potere. A questi virus, anche se mimetizzati o nascosti sotto sacri paludamenti, non danno scampo.

Chi sente la propria posizione e il proprio prestigio minacciati dalla venuta del regno di Dio reagisce, con violenza se è necessario.

santi non hanno mai avuto vita facile: il loro destino è stato segnato dal momento in cui hanno accettato di comportarsi da agnelli.

Sottoposti a persecuzione, non hanno ceduto alla tentazione di comportarsi da lupi e non si sono allontanati dal comportamento suggerito dal Maestro: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5,44) e da Paolo: “Benedite coloro che vi perseguitano” (Rm 12,14).

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