Novant’anni fa l’Italia fascista dava inizio alla guerra d’Etiopia, voluta da Mussolini per accrescere il prestigio internazionale del regime. La guerra fu breve ma sanguinosa: le perdite etiopiche furono altissime, aggravate dalle repressioni e dalle violenze compiute dall’occupante.

di Enrico Casale
4 Ottobre 2025
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Novant’anni fa scoppiava la guerra d’Etiopia. Benito Mussolini la volle con determinazione, immaginandola come il conflitto capace di dare prestigio e rilievo internazionale all’Italia fascista. Per questo il regime mobilitò migliaia di uomini, mezzi moderni, nuove armi e anche strumenti terrificanti come i gas. Il Duce puntava a una vittoria rapida e schiacciante, un successo capace di proiettare il Paese tra le grandi potenze coloniali. La conquista arrivò: le forze italiane ebbero la meglio su un nemico debole, male armato e organizzato. Mussolini poté così proclamare la nascita dell’Impero, proprio mentre altrove gli imperi coloniali si avviavano già verso un graduale declino. In Etiopia l’Italia rimase solo cinque anni: nel 1941, sconfitta dalle forze britanniche, fu costretta ad abbandonare l’Africa orientale.
Aggressione, propaganda e conquista dell’Impero
L’offensiva militare contro l’Etiopia fu lanciata il 3 ottobre 1935. Le ragioni erano molteplici: da un lato il desiderio mussoliniano di prestigio internazionale e l’ambizione di ricostruire un impero coloniale; dall’altro, la propaganda razzista e colonialista che descriveva l’Etiopia come un obiettivo «naturale».
L’incidente dei pozzi di Ual Ual (presidiati dagli italiani, ma in territorio etiope) costituì il casus belli utilizzato come pretesto. Il regime preparò infrastrutture, mobilitò masse enormi e mise in campo truppe regolari, milizie fasciste e reparti coloniali — ascari eritrei, dubat somali e unità libiche — affiancati da un’efficiente aviazione e da mezzi moderni.
L’Etiopia, guidata dall’imperatore Hailé Selassié, si trovava in netto svantaggio: scarsa artiglieria, quasi nessuna aviazione, infrastrutture inesistenti, un esercito numeroso ma poco addestrato alle tecnologie moderne. Solo la Guardia imperiale disponeva di formazione e armamenti adeguati, grazie anche al supporto di consiglieri svedesi.
L’avanzata partì dal nord, dall’Eritrea, sotto il comando del generale Emilio De Bono e poi di Pietro Badoglio, mentre un fronte secondario fu aperto dal sud-est, dalla Somalia italiana, guidato da Rodolfo Graziani. Nonostante una resistenza accanita, la superiorità numerica e tecnologica italiana risultò decisiva. Le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni non bastarono a fermare l’invasione. L’ingresso delle truppe ad Addis Abeba nel maggio 1936 sigillò la vittoria italiana.
Conseguenze e riflessioni
La guerra fu breve ma sanguinosa: le perdite etiopiche furono altissime, aggravate dalle repressioni e dalle violenze compiute dall’occupante. Sul piano internazionale, l’aggressione suscitò condanne, ma le potenze straniere non andarono oltre sanzioni inefficaci, revocate già nel luglio 1936.
In Italia la vittoria alimentò la retorica imperiale, ma il prezzo fu pesante, sia economicamente sia in termini di isolamento politico. La campagna contribuì ad avvicinare il fascismo al baratro della Seconda guerra mondiale.
L’Etiopia, pur formalmente sottomessa, non si arrese mai. Ras locali e popolazioni combatterono una guerriglia che si saldò, durante il conflitto mondiale, all’intervento britannico. Nel 1941 Hailé Selassié rientrò trionfalmente ad Addis Abeba. In quell’occasione dichiarò: «Oggi è il giorno in cui abbiamo sconfitto il nostro nemico. In questo giorno dichiariamo che una nuova epoca della storia della nuova Etiopia comincia. In questa nuova era, un nuovo lavoro inizia, che è dovere di tutti noi compiere». E subito invitò il suo popolo a non cercare vendetta, chiedendo di non rispondere con il male alle atrocità subite sotto l’occupazione italiana.