
Riccardo Maccioni
Per gentile concessione di
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La tentazione indubbiamente c’è. Nell’affrontare Dilexi te, la prima Esortazione apostolica di Leone XIV, si corre il rischio di limitarsi a evidenziare le differenze, quantomeno di forma, tra la riflessione di Prevost e quella di Bergoglio. Un rischio ben chiaro all’attuale Pontefice sin da quando ha scelto di riprendere il tema dell’amore verso i poveri, particolarmente caro a Francesco, continuando oltretutto il testo già avviato dal suo predecessore, titolo compreso. «Avendo ricevuto come in eredità questo progetto – scrive papa Prevost – sono felice di farlo mio, aggiungendo alcune riflessioni, e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato». Anch’io, infatti, prosegue Leone XIV citando l’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate di papa Francesco «ritengo necessario insistere su questo cammino di santificazione perché nel “richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde”».
Tuttavia, malgrado la continuità di fondo, le aggiunte “prevostiane” al testo di Bergoglio appaiono chiare sia per i costanti rimandi ai documenti del suo predecessore, sia nell’approccio più squisitamente spirituale di alcuni paragrafi. In particolare, risulta evidente la firma di Leone XIV in larga parte del capitolo dedicato all’insegnamento dei padri della Chiesa, da san Giustino a san Giovanni Crisostomo fino a sant’Agostino di cui il testo sottolinea come «in una Chiesa che riconosce nei poveri il volto di Cristo e nei beni lo strumento della carità, il pensiero» del vescovo di Ippona «rimane una luce sicura». Punto centrale del documento è infatti proprio la sottolineatura che nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Gesù. Quasi a mettere in guardia dal rischio di una riflessione prettamente orizzontale, e di una predicazione che riduca la Chiesa a una semplice ONG, per quanto virtuosa, Dilexi te ribadisce più volte e con grande chiarezza come l’attenzione ai poveri rappresenti un elemento costitutivo dell’essere cristiano. Per i credenti, infatti, i bisognosi non sono una categoria sociologica ma «la stessa carne di Cristo». Ne deriva che per entrare davvero nel mistero dell’incarnazione di Dio «bisogna specificare che il Signore si fa carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata». E quasi a voler rispondere ai germi della teologia della prosperità, qua e là nuovamente accarezzati dal cattolicesimo occidentale più conservatore, la riflessione si concentra sulla povertà di Gesù che «sin dal suo ingresso nel mondo ha fatto esperienza delle difficoltà relative al rifiuto». Si tratta della stessa esclusione che caratterizza la definizione dei bisognosi. Cioè «Gesù è la rivelazione di questo privilegium pauperum. Egli si presenta al mondo non solo come Messia povero ma anche come Messia dei poveri e per i poveri».
Dilexi te, che nel titolo riprende un passaggio del capitolo 3 del Libro dell’Apocalisse, si articola in 121 punti distribuiti in 5 paragrafi: “Alcune parole indispensabili”; “Dio sceglie i poveri”; “Una Chiesa per i poveri” (con una ricca riflessione sulla vita monastica); “Una storia che continua”; “Una sfida permanente”. A tenerli assieme la considerazione che non può esserci amore per Dio senza amore per il prossimo, perché si tratta di condizioni sì distinte ma al contempo unite in maniera indissolubile. Di qui anche il richiamo alle vecchie e nuove forme di povertà che caratterizzano il nostro tempo, compreso il tema dei migranti nei confronti dei quali viene ripreso l’insegnamento di Bergoglio basato su quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Materia per la Dottrina sociale della Chiesa, chiamata in causa, com’è ovvio, per fronteggiare le crescenti disparità, in alcuni casi vergognosamente evidenti, che nelle comunità moderne dividono i privilegiati da chi è nel bisogno. Non a caso, sulla scia delle assemblee dell’Episcopato latino-americano, da Medellin ad Aparecida, nel testo risuona con forza la denuncia della “dittatura di un’economia che uccide”, riducendo le persone a numeri, nella configurazione di un’alienazione sociale per cui diventa «normale ignorare i poveri e vivere come se non esistessero». Uno stato di cose inaccettabile per i credenti se è vero che la cura dei bisognosi, non solo di beni materiali, fa parte della grande tradizione della Chiesa «come un faro di luce che, dal Vangelo in poi, ha illuminato i cuori e i passi dei cristiani di ogni tempo». Detto in altro modo, «il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una questione familiare. Sono dei nostri». Di più: «i poveri sono nel centro stesso della Chiesa».
Riccardo Maccioni
Riccardo Maccioni è torinese ma vive a Milano. È stato per oltre vent’anni caporedattore di Avvenire guidando la redazione di informazione religiosa “Catholica” per poi trasferirsi al desk centrale. Il suo ultimo libro è “50 domande sulla fede che non hai mai osato fare” (Effatà edizioni). Piccola curiosità: un suo editoriale sul rispetto è stato usato come traccia per la prima prova dell’ultimo esame di Stato (maturità).