XXX Domenica
Tempo ordinario – Anno C
Luca 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
(Letture: Siracide 35,15-17.20-22; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14).
L’«ego» del fariseo e il «cuore» del pubblicano
Ermes Ronchi
Due uomini vanno al tempio a pregare. Uno, ritto in piedi, prega ma come rivolto a se stesso: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, impuri…».
Inizia con le parole giuste, l’avvio è biblico: metà dei Salmi sono di lode e ringraziamento. Ma mentre a parole si rivolge a Dio, il fariseo in realtà è centrato su se stesso, stregato da una parola di due sole lettere, che non si stanca di ripetere, io: io ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Pregare è dare del tu a Dio. Vivere e pregare percorrono la stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di un tu, un amore, un sogno o un Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero.
«Io non sono come gli altri»: e il mondo gli appare come un covo di ladri, dediti alla rapina, al sesso, all’imbroglio. Una slogatura dell’anima: non si può pregare e disprezzare; non si può cantare il gregoriano in chiesa e fuori essere spietati. Non si può lodare Dio e demonizzare i suoi figli. Questa è la paralisi dell’anima.
In questa parabola di battaglia, Gesù ha l’audacia di denunciare che la preghiera può separarci da Dio, può renderci “atei”, mettendoci in relazione con un Dio che non esiste, che è solo una proiezione di noi stessi. Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia su tutto, sull’uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo (Turoldo).
Il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, ci insegna a non sbagliarci su Dio e su noi: fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».
C’è una piccola parola che cambia tutto nella preghiera del pubblicano e la fa vera: «tu». Parola cardine del mondo: «Signore, tu abbi pietà». E mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che egli fa per Dio (io prego, pago, digiuno…), il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa per lui (tu hai pietà di me peccatore) e si crea il contatto: un io e un tu entrano in relazione, qualcosa va e viene tra il fondo del cuore e il fondo del cielo. Come un gemito che dice: «Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, così non sono contento. Vorrei tanto essere diverso, non ce la faccio, ma tu perdona e aiuta».
«Tornò a casa sua giustificato». Il pubblicano è perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza, la sola forza che ripartorisce in noi la vita.
Per gentile concessione di
Avvenire 2016
O Dio, abbi pietà di me peccatore
Enzo Bianchi
La parabola che oggi la liturgia ci fa ascoltare è collocata da Luca al capitolo 18, ancora in relazione alla preghiera. Quando pregare? Sempre e con intensità, risponde la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente (cf. Lc 18,1-8), ascoltata domenica scorsa. Come pregare? Come il pubblicano e non come il fariseo, risponde la parabola odierna. Ma in questo testo è in gioco qualcosa di più. O meglio, Gesù tratta sì di due atteggiamenti diversi nella preghiera, ma in realtà attraverso di essi allarga l’orizzonte: ci insegna che la preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa, riguarda il nostro modo di vivere, la nostra relazione con Dio, con noi stessi e con gli altri.
Tutto ciò è già contenuto nell’incipit: “Disse questa parabola ad alcuni che confidavano in se stessi perché erano giusti”. Il peccato di questi uomini religiosi non è la presunzione di essere giusti ma il mettere fede-fiducia in se stessi e non in Dio. La loro osservanza delle leggi e la loro scrupolosa pratica religiosa li convincono di potersi fidare di sé, senza più attendere nulla da Dio. Tale atteggiamento ha come ovvia conseguenza il ritenere gli altri nulla, il disprezzarli. Gesù sa, proprio perché anch’egli è un credente e conosce bene i rischi della religione, che non basta essere figli di Abramo per essere dei veri credenti. Lo aveva già detto il Battista: “Non cominciate a dire tra voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo” (Lc 3,8). Gesù sa che ci sono barriere create dagli umani che non sono tali per Dio. Gesù sa che ci sono dei credenti che in realtà sono increduli, abitati dall’idolatria, che ostentano la loro fede, ma poi non realizzano la volontà di Dio…
Ecco allora il racconto della parabola: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano”. Il tempio è il luogo in cui si adora il Dio vivente, il luogo dell’incontro con lui, attraverso il culto stabilito dalla Torah. Entrambi sono nello spazio riservato ai figli di Israele, davanti al Santo, riservato ai sacerdoti. Entrambi invocano il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio rivelatosi come Signore a Mosè, il Dio che ha fissato la sua dimora nel tempio di Gerusalemme. Ma le somiglianze finiscono qui. Uno dei due è un militante del movimento dei farisei, l’altro un esattore delle tasse, uno che esercita un mestiere disprezzato, appartenente a una categoria di corrotti. Di più, l’esattore è detto “pubblicano” in quanto “pubblicamente peccatore”, “corrotto manifesto”, perciò maledetto da Dio e dagli uomini.
Il fariseo, ritenendosi conforme alle attese di Dio, sta in piedi, nella posizione consueta dell’orante ebreo, e fa nel suo cuore una preghiera che vorrebbe essere un ringraziamento a Dio. Ma in realtà è concentrato su di sé e mentre vanta i suoi meriti si autocompiace, fa il paragone tra sé e gli altri, giudicandoli. Nessun dubbio in lui, ma uno stare in piedi sicuro di stare davanti a Dio, a fronte alta, ignaro del fatto che può stare in piedi solo per grazia, perché reso figlio di Dio. Il suo monologo dichiara lontananza dagli altri uomini ma anche lontananza da Dio, non conoscenza di lui, dal quale aspetta solo un “amen” alle sue parole. Annota con finezza Agostino: “Era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso”. È evidente che in una simile preghiera l’intero rapporto con Dio è pervertito: la chiamata alla fede è un privilegio, l’osservanza della Legge una garanzia, l’essere in una condizione morale retta un pretesto per sentirsi superiore agli altri.
Si faccia però attenzione: ciò che Gesù stigmatizza nel fariseo non è il suo compiere opere buone, ma il fatto che egli, nella sua fiducia in sé, non attende nulla da Dio. Il problema è che si sente sano e non ha bisogno di un medico, si sente giusto e non ha bisogno della santità di Dio (cf. Lc 5,31-32): ha dimenticato che la Scrittura afferma che il giusto pecca sette volte al giorno (cf. Pr 24,16), cioè infinite volte! Sì, quanti, essendo osservanti e dunque giusti, confidano in sé, ringraziano Dio per ciò che sono e non pensano di dover chiedere a Dio misericordia, di dover mutare qualcosa nella propria vita, ma sono trascinati dall’autocompiacimento a disprezzare gli altri! Per questo il fariseo nel suo ringraziamento enumera i peccati altrui, dai quali si sente esente: “Sono ladri, ingiusti, adulteri”, per non parlare del pubblicano che è insieme a lui nel tempio…
Ma ecco, di fronte a questa preghiera, quella del peccatore pubblico. All’inizio del vangelo Gesù aveva chiamato a essere suo discepolo proprio un pubblicano, Levi, e si era recato a un banchetto nella sua casa, scandalizzando scribi e farisei (cf. Lc 5,27-32); alla fine, subito prima del suo ingresso a Gerusalemme, sarà un altro pubblicano, Zaccheo, ad accogliere Gesù nella sua casa, suscitando ancora la riprovazione degli uomini religiosi (cf. Lc 19,1-10). In tal modo l’annuncio del Battista secondo cui “Dio può suscitare figli ad Abramo dalle pietre” (Lc 3,8) si fa evento in Gesù; non chi dice di avere Abramo per padre è suo figlio (cf. ibid.), ma uno come Zaccheo, pubblicano, è dichiarato da Gesù “figlio di Abramo”, raggiunto nella propria casa dalla salvezza (cf. Lc 19,9).
Ma perché Gesù sceglieva di preferenza la compagnia dei peccatori pubblici, fino a dire agli uomini religiosi: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31)? Non per stupire o scandalizzare ma per mostrare, in modo paradossale, che queste persone emarginate e condannate sono il segno manifesto della condizione di ogni essere umano. Tutti siamo peccatori – e pecchiamo, finché ci è possibile, in modo nascosto! –, ma Gesù aveva compreso una cosa semplice: i peccatori pubblici sono esposti al biasimo altrui, e perciò sono più facilmente indotti al desiderio di cambiare la loro condizione; essi possono cioè vivere l’umiltà quale frutto delle umiliazioni patite, e di conseguenza possono avere in sé quel “cuore contrito e spezzato” (Sal 51,19) in grado di spingerli a cambiare viti.
Il pubblicano è un uomo non garantito da ciò che fa, anzi i suoi peccati manifesti lo rendono oggetto di disprezzo da parte di tutti. Egli sale al tempio nella consapevolezza, sempre rinnovata a causa del giudizio altrui, di essere un peccatore, mendicante del perdono di Dio. Per questo Luca descrive accuratamente il suo comportamento, opposto a quello del fariseo. “Si ferma a distanza”, non osa avvicinarsi al Santo dei santi, dove dimora la presenza di Dio; “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, ma li tiene bassi, vergognandosi della propria condizione; “si batte il petto”, gesto tipico di chi vuole manifestare il suo pentimento, come le folle di fronte allo “spettacolo” (Lc 23,48) della morte in croce di Gesù.
Le sue parole sono brevissime: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. È l’invocazione che ritorna più volte nei salmi (cf. Sal 25,11; 51,13, ecc.). È il chiedere a Dio che continui sempre ad avere tanta pietà di noi peccatori: quanto ne abbiamo bisogno! È “la preghiera dell’umile che penetra le nubi” (Sir 35,21), che non spreca parole, ma che vive della relazione con Dio, della relazione con se stesso, della relazione con gli altri: chiede perdono a Dio, confessa il proprio peccato e la solidarietà con gli altri uomini e donne. Il pubblicano si presenta a Dio senza maschere, i suoi peccati manifesti lo rendono oggetto di scherno: non ha nulla da vantare, ma sa che può solo implorare pietà da parte del Dio tre volte Santo. Egli prova lo stesso sentimento di Pietro, perdonato fin dal momento della sua vocazione quando, di fronte alla santità di Gesù, grida: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8; cf. Is 6,5). L’umiltà di quest’uomo non consiste nel fare uno sforzo per umiliarsi: la sua posizione morale è esattamente quella che confessa e dalla quale è umiliato! Non ha nulla da pretendere, per questo conta su Dio, non su se stesso. E ciò vale anche per noi: il nostro nulla è lo spazio libero in cui Dio può operare, è il vuoto aperto alla sua azione; su chi è troppo “pieno di sé”, invece, Dio è impossibilitato ad agire… E si noti: Gesù non elogia la vita del pubblicano, così come non condanna le azioni giuste del fariseo, ma la sua condanna va al modo in cui il fariseo guarda alle sue azioni e, attraverso di esse, a Dio stesso.
Terminata la parabola, ecco il giudizio di Gesù: “Io vi dico che il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua reso giusto (da Dio), perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Quest’ultima sentenza proverbiale, già presente al termine della parabola sulla scelta dei posti a tavola da parte degli invitati a un banchetto (cf. Lc 14,11), echeggia le parole del Magnificat: “Il Signore innalza gli umili” (Lc 1,52). Ma come intendere questo innalzamento e questo abbassamento? E soprattutto, come intendere l’umiltà, virtù ambigua e sospetta? L’umiltà non è falsa modestia, non equivale a un “io minimo”: non chi si fa orgogliosamente umile è innalzato da Dio, perché questo equivarrebbe a replicare l’atteggiamento del fariseo, sarebbe orgoglio mascherato da falsa umiltà. No, è innalzato da Dio chi riconosce il proprio peccato, chi, aderendo alla propria realtà, riconosce il proprio peccato, accoglie dagli altri le umiliazioni quale medicina salutare e, patendo tutto questo, persevera nel riconoscimento della grazia e della compassione di Dio, ossia nella fiducia in Dio, nel contare sulla sua misericordia che può trasfigurare la nostra debolezza.
Attraverso la figura del pubblicano Gesù ci esorta a umiliarci nel senso di lasciarci accogliere e perdonare da Dio, che con la sua forza può curarci e guarirci; a non perdere tempo a guardare fuori di noi, scrutando gli altri con occhio cattivo e spiando i loro peccati; ad accettare di riconoscere la nostra condizione di persone che “non fanno il bene che vogliono, ma il male che non vogliono” (cf. Rm 7,19). Il pubblicano non ha costruito né vantato una sua giustizia davanti a Dio e agli altri, ma ha lasciato a Dio la libertà di giudicare; a Dio si è affidato, invocando come unico dono di cui aveva veramente bisogno la sua misericordia. Con una preghiera così breve e semplice è entrato in comunione con Dio senza separarsi dagli altri, e ora, perdonato, fa ritorno alla vita quotidiana nella compagnia degli uomini.
La parola conclusiva di Gesù, solennemente e autorevolmente introdotta da “Io vi dico”, fa di un giusto un peccatore e di un peccatore un giusto. Il giudizio di Dio, narrato da Gesù, sovverte i giudizi umani: chi si credeva lontano e perduto è accolto e salvato, mentre chi si credeva approvato, accanto a Dio, è umiliato e risulta lontano. Questo può apparire scandaloso, può apparire un inciampo nella vita di fede per gli uomini religiosi, ma è buona notizia, è Vangelo per chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di Dio come dell’aria che respira.
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Un gioco di specchi
Gaetano Piccolo, sj
Come la strega di Biancaneve, tutti noi abbiamo un angolo segreto della nostra casa interiore dove custodiamo uno specchio magico al quale chiediamo ogni giorno di rassicurarci: vorremmo continuare a vivere nell’inganno di essere i più belli del Reame, e confidiamo in uno specchio che ci possa confermare nell’idea che abbiamo di noi stessi.
Gli altri, infatti, con i loro limiti e le loro imperfezioni ci infastidiscono, ci irritano. Con i loro giudizi, vengono a turbare l’immagine che tanto faticosamente stiamo costruendo di noi stessi. Improvvisamente ci rendiamo conto che lo specchio, che custodiamo tanto gelosamente in quell’angolo della nostra casa interiore, non è l’unico. Gli altri, spesso senza volerlo, ci fanno continuamente da specchio e passandoci davanti riflettono il nostro volto, mostrandoci quello che non ci piace di noi stessi o quello di cui manchiamo.
Se gli altri ci irritano, infatti, non è un caso: in genere quello che non amiamo negli altri evoca qualcosa in noi. Gli altri ci danno fastidio o perché vediamo in loro qualcosa che anche noi siamo, ma che non vogliamo ammettere di essere, o perché hanno qualcosa che non abbiamo, ma che noi vorremmo avere. Quando ti senti infastidito, chiediti sempre cosa stai dicendo a te stesso.
La paura dell’imperfezione
Il fariseo di questo testo del Vangelo non sopporta per esempio la sua imperfezione. Non vuole neanche sentirne parlare. Ha paura di sbagliare. E nel profondo sa di poterlo fare. Sa quanta energia sta impegnando per non vedere il suo limite. Per questo motivo sposta la sua imperfezione sugli altri.
Come noi, anche il fariseo si illude che, spostando l’imperfezione sugli altri, la allontanerà da se stesso. La consegna agli altri, pensando che così se ne potrà liberare. Ricordati: quello che stai consegnando agli altri, è proprio quello che ti appartiene!
Lo specchio della preghiera
Quella preghiera che nei versetti precedenti era il luogo del grido della vedova verso il giudice iniquo, qui diventa il luogo in cui venir fuori per quello che siamo: dimmi come preghi, e ti dirò chi sei! Prova ad ascoltare come preghi e capirai tante cose di te.
Il fariseo usa per esempio la preghiera proprio come lo specchio magico della strega di Biancaneve: usa la preghiera per essere confermato nell’immagine positiva di se stesso. Anche coloro che non pregano, usano comunque il loro dialogo interiore come luogo di conferma e di approvazione.
Esagerazioni
Nella sua preghiera o nel suo dialogo interiore il fariseo esagera quei comportamenti che lo confermano nella sua idea di perfezione, illudendosi così di allontanare e di non vedere il proprio limite: il fariseo dice di digiunare due volte alla settimana, mentre il libro del Levitico (al cap.16) chiedeva di digiunare solo una volta l’anno, nel giorno dell’espiazione; il fariseo dice di pagare la decima su tutto ciò che possiede, mentre la legge mosaica chiedeva di pagare la decima solo su ciò che si produce.
Potrebbe sembrare semplicemente un’esagerazione del bene, ma cosa spinge il fariseo a questa esagerazione? Ogni volta che siamo di fronte a dei comportamenti eccessivi è bene chiedersi cosa vi sia dietro. Molto probabilmente il fariseo non si fida degli altri, pensa che tutti siano pubblicani, che tutti siano imperfetti: egli digiuna infatti ancche per chi, secondo lui, non lo fa; paga la decima anche su quello che compra perché non si fida di chi gli vende le cose, cioè di chi dovrebbe aver pagato la decima, ma che secondo lui, nella sua ossessione, potrebbe non averlo fatto. Riempiendo i vuoti imperfetti degli altri, il fariseo cerca di confermarsi nella propria idea di perfezione.
Un’immagine distorta di Dio
Nella sua preghiera il fariseo sta davanti a Dio come davanti a un giudice, ma un giudice che rappresenta una visione distorta di Dio, perché non è neanche il giudice di cui parla il libro del Siracide: lì almeno si tratta di un giudice che non fa preferenze di persone (Sir 35,15). Il fariseo invece è colui che cerca disperatamente di racimolare qualche bonus o qualche punto paradiso per guadagnarsi il favore di un Dio che emette sentenze. Se Dio è giudice, lo è nel modo in cui Paolo lo riconosce alla fine della sua vita, quando arriva a consegnare se stesso, così com’è arrivato a quel punto della sua vita, sapendo che Dio lo accoglierà come giudice giusto (2Tm 4,8).
Questione di pronomi
Chi è ossessionato dalla propria immagine, metterà al centro della propria preghiera o dei propri pensieri soltanto il proprio Io: questo è l’unico pronome che ricorre nella preghiera del fariseo. Nella sua immaginazione c’è spazio solo per se stesso. Il suo Io è talmente ingombrante che arriva perfino a mettersi al posto di Dio: usa per se stesso il nome di Dio, Io sono. Quando cerchi solo te stesso, ben presto esproprierai anche Dio dalla tua vita.
Al contrario, il pubblicano non ha paura di vedere il suo limite e la sua imperfezione. Si riconosce peccatore. Ma soprattutto si mette davanti allo sguardo di un altro. Nella sua preghiera si rivolge a un Tu: abbi pietà di me! Certo, il pubblicano non saprebbe dove nascondersi, perché la sua imperfezione è palese: lavora per i pagani e tocca il denaro. È evidentemente impuro, limitato, schiavo di se stesso. Ma paradossalmente, proprio perché è così evidente, non ha bisogno di consegnare ad altri la sua imperfezione. Il fariseo, invece, deve difendere un’immagine: non può ammettere né agli altri né a se stesso di essere nel profondo un peccatore.
Riconciliazione
Ecco cosa vuol dire dunque andarsene riconciliati oppure no: il pubblicano è riconciliato con il suo limite, con la sua imperfezione e con il suo peccato. Proprio perché lo riconosce, può veramente consegnarlo ed esserne liberato. Ha scoperto che «il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato» (Sal 33,19)
Il fariseo non se ne va riconciliato perché non si è guardato dentro, non ha riconosciuto ciò che veramente si porta dentro, proietta sugli altri ma non si libera dal suo peso, continua a portare con sé la fatica di dover vivere nascondendo ciò che è veramente. La vita del fariseo è una vita non riconciliata. Isolato nel suo Io, il fariseo non troverà mai nessuno con cui condividere la sua paura di non essere perfetto.
Leggersi dentro
– Cosa ti infastidisce di più negli altri?
– Quali sono gli aspetti di te che fai più fatica ad accogliere?
Il neonato, modello del cristiano
Fernando Armellini
Un giorno alcune mamme presentano a Gesù i loro bambini affinché egli li prenda fra le braccia e li accarezzi (Mc 10,13). I discepoli che giudicano sconveniente quest’eccesso di familiarità li scacciano in malo modo e Gesù reagisce: “A chi è come loro – dichiara – appartiene il regno di Dio”.
L’episodio è riferito dai tre sinottici, ma con una leggera, significativa variante. Mentre Marco e Matteo parlano di bambini, Luca dice che a Gesù sono stati presentati dei neonati (Lc 18,15).
Se i bambini possono avere fatto qualcosa di amorevole, possono avere, in qualche modo, “meritato” l’amore dei genitori, i neonati sono coloro che non hanno fatto assolutamente nulla, sono l’immagine di chi è in grado solo di ricevere, gratuitamente.
I neonati vengono additati da Gesù a modello dell’atteggiamento da assumere nei confronti di Dio. Essi si collocano agli antipodi del fariseo che può vantarsi con orgoglio del bene che ha fatto.
Non può entrare nel regno di Dio – dice Gesù – chi non diviene come un neonato, chi non si rende conto di dovere sempre e tutto a chi gli ha dato e continua a donargli la vita.
Nel momento in cui si pensa di poter attribuire a sé qualche opera buona, già non si è si più neonati e ci si auto-esclude dal regno di Dio. “Che cosa mai possiedi – chiede Paolo – che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Ai piccoli hai riservato, Signore, il dono del regno dei Cieli”.
Prima Lettura (Sir 35,12-14.16-18)
12 Il Signore è giudice
e non v’è presso di lui preferenza di persone.
13 Non è parziale con nessuno contro il povero,
anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso.
14 Non trascura la supplica dell’orfano
né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
16 Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza,
la sua preghiera giungerà fino alle nubi.
17 La preghiera dell’umile penetra le nubi,
finché non sia arrivata, non si contenta;
18 non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto,
rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità.
La legge è uguale per tutti, ma non tutti possono pagarsi dei buoni avvocati e i giudici non sempre sono imparziali.
Dio che, come sappiamo, è chiamato a pronunciare il giudizio definitivo, inappellabile sull’uomo, assomiglia ai giudici di questo mondo?
Nell’AT viene dato quest’ordine a colui che in Israele deve amministrare la giustizia: “Non accetterai regali, perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti” (Dt 16,19). Disposizione saggia! Da un giudice che riceve regali non c’è certo da aspettarsi l’imparzialità.
In una società in cui è facile addomesticare le sentenze dei processi con un po’ di denaro, qualcuno può supporre che anche Dio, così come i giudici umani, possa essere corrotto, che possa, con qualche regalo, diventare socio in affari. Come?
Prendiamo il caso di un latifondista che non paga i suoi braccianti: sa di commettere un torto e sa che un giorno dovrà rendere conto al Signore. Allora che fa? Si reca al tempio, dà una buona mancia al sacerdote di turno ed offre a Dio un grasso agnello o un giovane toro. È convinto che, dopo aver ricevuto un dono così generoso, il Signore gli diventerà amico, chiuderà un occhio sulle ingiustizie che commette, non lo colpirà con i suoi castighi, non invierà né malattie, né siccità, né la grandine per distruggere i suoi raccolti.
Il Siracide attacca duramente questa falsa religione: “Non cercare di corrompere il Signore con doni, non accetterà, non confidare su una vittima ingiusta” (Sir 35,11). Poi – ed è il brano contenuto nella nostra lettura – spiega le ragioni della sua condanna: “Il Signore è un giudice che non fa preferenza di persone” (v.12).
Se egli non commette parzialità – pensiamo – egli premia i buoni e castiga i malvagi, senza discriminare fra poveri e ricchi.
Invece – ecco la sorpresa! – per lui non fare preferenza di persone significa schierarsi dalla parte del povero. Questa è la sua giustizia!
Amicizie, parentele, regali, minacce, elevata posizione sociale… nulla contano davanti a lui. L’unica condizione che lo smuove è la povertà, il bisogno dell’uomo: “Egli ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano né quella della vedova che si sfoga nel lamento” (vv.13-14). Le loro preghiere attraversano le nubi e non si fermano finché non raggiungono il trono di Dio (vv.15-18).
Quando davanti a lui si presenta chi non ha alcun merito da esibire, uno che può contare solo sulle proprie miserie, egli si commuove e pronuncia sempre una sentenza di salvezza.
Seconda Lettura (2 Tm 4,6-8.16-18)
Carissimo, 6 il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. 8 Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
16 Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. 17 Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. 18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Nella Bibbia ci sono molti discorsi di addio posti sulla bocca dei grandi personaggi. Li hanno pronunciati, prima di morire, Giacobbe, Mosè, Giosuè, ed anche Gesù (Gv 14-17), Pietro (2 Pt 1,12-14) e Paolo (At 20,17-35). Il brano della lettera a Timoteo che oggi ci viene proposto appartiene a questo genere letterario.
L’Apostolo ormai vecchio e stanco, si trova rinchiuso in una prigione di Roma. Vede avvicinarsi il giorno in cui dovrà lasciare questo mondo, fa un bilancio della sua vita e volge uno sguardo verso il futuro.
Il tono è commovente e le immagini molto efficaci.
Ha combattuto la buona battaglia. Si è volutamente impegnato in conflitti drammatici in cui si affrontavano luce e tenebra, verità e menzogna, giustizia e forze di peccato e di morte. Scrivendo ai corinti ha fatto un drammatico elenco di ciò che ha dovuto sopportare in questa lotta per la giusta causa: “Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2 Cor 11,24-27).
È in prigione e sembra uno sconfitto. Non importa, si è schierato dalla parte di Cristo e sa di aver fatto la scelta migliore.
Ha concluso la corsa. Durante la gara si è fatto onore ed è sicuro che il Signore gli consegnerà la corona di alloro.
Non parla di meriti, accumulati con sforzi e fatiche (sarebbe un concetto incompatibile con la sua teologia), ma della certezza di essersi affidato alla persona giusta, al Signore Gesù che non deluderà né lui né coloro che “attendono con amore la sua manifestazione” (v.8).
Ha tenuto fede agli impegni assunti. La fede è stata per Paolo un lungo travaglio, una nuova nascita, ma, una volta conquistata, è stata sempre mantenuta.
Ha condotto una vita integra ed ha portato a compimento la missione di apostolo alla quale Cristo lo aveva chiamato.
Il suo sguardo si volge anche al futuro: “Il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele” (v.6).
La sua fedeltà a Cristo sarà convalidata dal più grande gesto di amore: il dono della vita.
La sua morte sarà, come quella del Maestro, un sacrificio espiatorio e il suo sangue “una libagione” sull’altare della fede.
L’immagine della nave che scioglie le vele mostra l’incrollabile convinzione che la morte non è un inabissarsi, ma un dirigersi verso nuovi, splendidi lidi.
Una trentina d’anni dopo, Clemente, un eminente cristiano di Roma, parlerà di lui così: “Dopo aver insegnato la giustizia a tutto il mondo e aver raggiunto gli estremi confini dell’occidente, rese testimonianza davanti alle autorità, così è stato tolto dal mondo e assunto nel luogo santo, divenuto il più grande esempio di perseveranza” (1 Corinti V,7).
Vangelo (Lc 18,9-14)
Chi racconta una parabola tende sempre una specie di tranello ai suoi ascoltatori: li spinge, senza che essi se ne avvedano, a schierarsi a favore dell’uno o dell’altro personaggio della storia. Poi, quando essi sono pienamente coinvolti, tira la conclusione morale.
Leggendo la parabola di oggi si può perdere il messaggio perché si rischia di identificarsi con il personaggio sbagliato.
Siamo convinti di non avere nulla da spartire con il fariseo ipocrita, antipatico, pieno di orgoglio e di presunzione, che disprezza con arroganza gli altri e si sente giusto senza esserlo realmente. Le nostre simpatie sono tutte per il pubblicano il quale, poveretto, ha sì combinato qualche malefatta, ma ha un cuore d’oro, è pentito e dunque merita amore e comprensione. Ci convinciamo che questa parabola è rivolta a coloro che non sentono avversione per il fariseo.
La parabola non è così semplice come appare a prima vista.
Contempliamo anzitutto il fariseo che, assumendo l’atteggiamento normale (non orgoglioso) del pio giudeo, prega in piedi (cosa che del resto fa anche il pubblicano). Nessuna ostentazione dunque, nessuna ipocrisia.
Il suo monologo è una preghiera e quando si dialoga con Dio, quando gli si apre il cuore non si può certo mentire, si dice solo ciò che si sente. Basta rileggere con attenzione e senza preconcetti i vv.11-12 e subito ci si rende conto che ci troviamo di fronte a una persona retta, integra, onesta, che osserva fedelmente i precetti della legge ed evita scrupolosamente tutti i peccati (i furti, le ingiustizie, gli adulteri).
Fa addirittura più di quanto è prescritto.
La legge ordina di digiunare un giorno l’anno (Lv 16,29) e il fariseo digiuna due volte per settimana (di martedì e di giovedì) per riparare i peccati degli altri e attirare sul suo popolo le benedizioni di Dio. La legge stabilisce che, al momento del raccolto, il contadino consegni immediatamente ai sacerdoti la decima parte dei prodotti principali: il grano, il vino, l’olio, i primogeniti del gregge (Dt 14,22-27). Si tratta di offerte destinate a beneficiare i poveri, a sostenere le spese del tempio e a formare i giovani rabbini. Purtroppo i contadini – e il fariseo lo sa bene – fanno i furbi e, se appena possono, non adempiono a quest’obbligo. Per compensare il loro eventuale (anzi, probabile!) furto, paga lui la decima, di tasca propria, ogni volta che acquista i loro prodotti. Insomma, può tranquillamente dire a Dio: “Mio Signore, nel mondo ci sono tanti uomini malvagi, ma non te la prendere, c’è gente come me che bilancia le loro malefatte!”.
Per quanto si cerchi qualche mancanza in quest’uomo, non si scopre alcunché di riprovevole.
È orgoglioso della sua rettitudine, si contrappone agli altri uomini e prende le distanze dai peccatori.
Questo – è vero – suscita un certo fastidio, ma non si tratta di colpe gravi e poi ha parecchie ragioni per sentirsi migliore degli altri.
Ce ne fosse di gente così, onesta, giusta, irreprensibile! Perdoneremmo volentieri anche un po’ di orgoglio.
Anche Paolo – che pure attacca duramente la teologia dei farisei – dà loro atto che sono persone zelanti (Rm 10,2).
In stridente contrasto con questo primo personaggio, ecco comparire sulla scena il secondo, un pubblicano, colui che ha immediatamente attirato le nostre simpatie per la sua umiltà.
Costui sì che ci imbroglia, non è per niente il tipo mansueto e bonario che appare a prima vista.
È un ladro matricolato, uno sfruttatore odioso, uno sciacallo.
Non estorce denaro ai ricchi, dissangua i poveri; impone tasse esorbitanti ai più miserabili fra i contadini, a coloro che non hanno nemmeno il pane da dare ai figli piccoli. Non ha nulla di buono da offrire a Dio. È carico soltanto di peccati.
La legge dice che, per salvarsi, costui deve restituire tutto ciò che ha rubato, più il 20% di interessi e abbandonare immediatamente la sua infame professione. Le condizioni sono tanto difficili da attuare che i rabbini affermano concordi che per i pubblicani la salvezza è praticamente impossibile.
Adesso che abbiamo chiarito chi sono i due personaggi da che parte stiamo? Spero si sia un po’ affievolita la simpatia per il pubblicano e che sia stata ridimensionata anche l’avversione nei confronti del fariseo.
Se questa è la nostra nuova disposizione d’animo, proviamo a concludere la parabola in modo sensato e logico.
Gesù dovrebbe esprimersi più o meno così: il fariseo sia un po’ più umile; il suo disprezzo per gli altri indispone un po’, ma, per il resto, è un modello da imitare. Con le sue opere, con la sua rettitudine ha meritato la giustificazione. A lui spetta di diritto il paradiso.
Quanto al pubblicano: il suo pentimento – certo – lo colloca sulla buona strada, ma non bastano gli occhi bassi e un atto di dolore così generico per essere a posto con Dio e con gli uomini. Ci vuole altro: restituisca ai poveri i soldi che ha rubato e adempia le prescrizioni della legge, perché i castighi di Dio incombono su di lui e cadranno di sicuro, terribili e repentini.
Se concordiamo con questa conclusione della parabola, allora abbiamo la disposizione giusta per ricevere la lezione di Gesù: “Io vi dico: il pubblicano tornò a casa sua giustificato a differenza dell’altro”.
Con questa sentenza non possiamo essere d’accordo. Come si può condannare chi si è comportato bene e dichiarare giusto un peccatore? I nostri criteri di giustizia vengono stravolti.
Vediamo di chiarire.
Il rovesciamento del giudizio non riguarda il comportamento morale dei due.
Gesù non dice che il pubblicano era buono e il fariseo cattivo e bugiardo. Non dice che l’uno era fondamentalmente virtuoso, mentre l’altro era un peccatore che riusciva a mantenere nascoste le sue colpe. Dice solo che il primo “fu giustificato”, cioè, fu reso giusto da Dio, mentre il secondo se ne tornò a casa sua come prima, con tutte le sue innegabili opere buone, ma senza che Dio sia riuscito a renderlo giusto. Questo è il punto.
Qual è l’errore del fariseo?
Egli sbaglia perché si colloca davanti al Signore nel modo scorretto: va al tempio portando con sé un carico di buone opere che si è accumulato con rigorose penitenze e attraverso l’osservanza scrupolosa di tutti i comandamenti. È convinto che questo basti a meritargli la giustificazione. È come se dicesse al Signore: guarda che vita meravigliosa ti presento! Di’ la verità: ti ho stupito! Non te l’aspettavi di avere un adoratore così fedele, dichiara che sono “giusto”!.
Si noti: il fariseo non chiede a Dio di essere reso giusto. Da Dio pretende solo che dichiari, che riconosca – come fa un notaio ineccepibile – la giustizia che egli ha saputo costruirsi con le sue mani. Non capisce che tutte le sue opere buone, messe insieme, non gli conferiscono alcun diritto alla salvezza. Chi fa il bene non merita assolutamente nulla, deve solo ringraziare il Signore che lo ha guidato sulla strada della felicità.
Non sono le opere buone che rendono giusti. Esse sono il segno che il Signore ci ha resi giusti. Le opere buone sono come i frutti che rivelano che l’albero è pieno di vita. Ma non sono i frutti che fanno vivere l’albero.
Davanti a Dio l’uomo si trova sempre a mani vuote. Non può esibire nulla di suo, non ha nulla che lo renda degno della compiacenza divina.
Chi ragiona come il fariseo non è cattivo, è solo ingenuo.
Si comporta come il figlio che pensa di “meritare” l’eredità del padre perché è uno studente modello, non si droga, non commette sciocchezze. Se agisce in modo corretto sta solo facendo il proprio bene e deve ringraziare il padre che lo ha educato.
L’eredità appartiene al padre e può soltanto essere ricevuta in dono, non guadagnata.
Il pubblicano non è un modello di vita virtuosa. È il povero che sa di poter offrire a Dio soltanto il suo cuore “spezzato e abbattuto” che – come recita il Salmo – il Signore non disprezza (Sal 51,19). È l’affamato che viene ricolmato di beni, mentre il ricco è rimandato a mani vuote (Lc 1,53). Egli non corre nemmeno il pericolo di illudersi che le buone azioni gli conferiscano il diritto di avanzare pretese, perché non ne ha.
Il fariseo non deve rinunciare alla sua vita irreprensibile, ma alla falsa immagine di Dio che ha in mente: un contabile che prende nota delle opere buone e cattive degli uomini, un distributore di premi e castighi. Da questa immagine deformata di Dio derivano tutti gli altri guai, primo fra tutti il bisogno di creare una barriera divisoria fra giusti e peccatori. Il suo stesso nome significa separato.
Chi pensa di poter accumulare meriti davanti a Dio finisce inevitabilmente per disprezzare gli altri, non vuole avere più nulla a che vedere con gli empi. Chi si sente giusto è convinto di poter addirittura coinvolgere Dio in questa separazione, vorrebbe iscriverlo nel suo gruppo, nel club dei giusti, vorrebbe farlo diventare un fariseo. Dio non ci sta. Se proprio deve scegliere… si mette con i peccatori.
L’ultima frase: “Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (v.14) sembra un invito a considerare effimeri i trionfi in questo mondo e a coltivare la speranza che nella vita futura le posizioni verranno capovolte. Nel contesto in cui è collocata, l’affermazione di Gesù è rivolta a chi confida nei propri meriti, al fariseo che si esalta per le proprie buone azioni e le considera un motivo di vanto di fronte a Dio. Costui, se non vuole trovarsi a mani vuote (essere umiliato), deve accettare di farsi piccolo, povero fra i poveri, debitore fra i debitori. Quando avrà assunto questo atteggiamento sarà nella condizione di poter essere riempito di doni dal Signore, come è accaduto a Maria, la povera, umile serva nella quale l’Onnipotente ha operato meraviglie (Lc 1,48-49).
A questo punto diventa importante il versetto introduttorio (v.9) che chiarisce a chi è diretta la parabola.
I destinatari sono “alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri”. Costoro non sono i farisei del tempo di Gesù, ma i cristiani delle comunità di Luca. È in costoro che si è insinuata la pericolosa mentalità farisaica. La parabola è diretta ai cristiani di ogni tempo perché l’idea di poter “meritare” davanti a Dio è profondamente radicata nell’uomo. Nessuno è completamente immune da questo “lievito” che inquina e corrompe la vita delle comunità (Mc 8,16).
Per gentile concessione di
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