Abramo, davanti all’annuncio dell’imminente distruzione di Sodoma, prova a intercedere facendosi ascoltare da Dio. In questo brano della Genesi scopriamo quindi un Dio capace di ascoltare le sue creature per offrire all’uomo l’occasione di trovare sé stesso. Perché ascoltare significa promuovere l’affermazione della soggettività altrui e non si può fare missione se non ci si apre all’ascolto del cuore.

Di Valentina Venturini
teologa ed educatrice presso la sede di
Busto Arsizio dell’Ufficio Educazione Mondialità
https://centropime.org

Quando l’uomo osa dialogare con Dio

Il Signore diceva: “Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso”. Disse allora il Signore: “Il grido contro Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!”. Quegli uomini partirono di lì e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora davanti al Signore. Allora Abramo gli si avvicinò e gli disse: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?”. Rispose il Signore: “Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città”. Abramo riprese e disse: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?”. Rispose: “Non la distruggerò, se ve ne trovo quarantacinque”. Abramo riprese ancora a parlargli e disse: “Forse là se ne troveranno quaranta”. Rispose: “Non lo farò, per riguardo a quei quaranta”. Riprese: “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta”. Rispose: “Non lo farò, se ve ne troverò trenta”. Riprese: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti”. Rispose: “Non la distruggerò per riguardo a quei venti”. Riprese: “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci”. Rispose: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”. Poi il Signore, come ebbe finito di parlare con Abramo, se ne andò e Abramo ritornò alla sua abitazione. (Genesi/Bereshit 18, 17-33)

Vita e morte nel disegno divino: Sodoma e il popolo di Israele

Questo brano si colloca dopo l’annuncio a Sara e Abramo della nascita di un erede e a parlare sono le stesse tre figure misteriose. Si crea così un contrasto tra l’annuncio di una nascita prossima a venire, quella di Isacco e del popolo di Israele, e quello della morte imminente di un altro popolo. Vita e morte fanno parte di uno stesso disegno: un popolo che non ha più diritto di esistere perché completamente marcio e uno che si sta stagliando sull’orizzonte della storia, destinato ad avere un rapporto speciale con Dio.

Molto interessanti anche i primi versetti del brano che mostrano un discorso interiore del Signore. Come fa un genitore con il proprio figlio, Dio si sta domandando se ha senso condividere con Abramo i suoi pensieri. Lui è Dio, non deve render conto a nessuno, ma questa creatura nello specifico è stata elevata a un compito molto particolare. Investito di una responsabilità unica, Abramo ha il dovere e il diritto di sapere quello che sta per accadere.

Forse vuole essere, in maniera indiretta, anche un monito per il futuro? Come a dire: “Guarda bene cosa succede se oltrepassi una certa linea: se la corruzione e la miseria di cuore diventano cosa diffusa, allora non c’è più nulla da fare e la fine incombe su tutti”. E forse Dio vuole anche far riflettere sul legame tra il singolo e la società in cui è inserito: un legame a filo doppio. Spesso si tende a elevare o a condannare un popolo, una nazione intera per gli atti della paggior parte dei suoi esponenti, ma non va dimenticato che ci sono singoli individui che possono riportare luce, che possono ristabilire l’equilibrio; grazie a loro è sempre possibile trovare salvezza.

Però a Sodoma e Gomorra questo non avviene: perciò Abramo prova a farsi portavoce di questa umanità che è ferita e inquinata, certo, ma pur sempre umanità resta. E lui è un essere umano che prova compassione e solidarietà, che cerca di guardare oltre le colpe di cui quegli uomini e quelle donne si sono macchiati, sperando di rintracciare un numero sufficiente di giusti che possano, con i loro meriti, salvare la propria gente.

Il significato simbolico dei numeri: dalla Qabbalah al minian

Sarebbe interessante soffermarsi sui numeri riportati dai redattori: cinquanta, quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. Sarebbe però molto lungo e complesso, quindi mi soffermo sul primo e sull’ultimo numero:

Cinquanta: rav Moshe C. Luzzatto associa a questo numero la parola binah (comprensione, senso, saggezza) che prende il valore di 50 nella Qabbalah. Sempre negli insegnamenti qabbalistici, Binah corrisponde alla forza della madre, alla conoscenza femminile. Abramo inizierebbe da questo numero forse per sollecitare la parte femminile di Dio, quella più materna e incline al perdono?

Dieci: sempre rav Luzzatto si rifà alla Qabbalah e collega il numero dieci al totale delle sefirot, le dieci emanazioni con le quali il divino si fa conoscere al genere umano (oltre a binah la comprensione, la gentilezza, l’eternità, il giudizio). Ma dieci, aggiungo io, è anche il minian, ovvero il numero minimo di ebrei necessari per alcune preghiere sinagogali che, da personali, diventano collettive. Si tratta quindi di un numero importante nell’ebraismo, perché permette alla preghiera di diventare segno di una collettività: il singolo diventa responsabile anche per gli altri, mette a disposizione la propria voce e l’intenzione personale per uno scopo comune. E, a Sodoma, neppure questo era ormai possibile perché di giusti non ce n’erano più, o forse erano meno di quanto fosse necessario per la salvezza della collettività.

Per i cristiani l’epilogo di Sodoma è ovvio: deve ancora venire un giusto, IL Giusto che, da solo, riscatterà l’umanità intera e il suo nome è Gesù di Nazaret.

Un Dio che ci considera: l’ascolto attivo come modello biblico

In tutto questo c’è Dio: un Dio che ascolta. E ribalta il punto di vista perché, solitamente, pensiamo sempre all’ascolto che deve mettere in pratica la creatura (non a caso la preghiera più importante dell’ebraismo è lo Shemà Israel, “ascolta Israele”). Qui invece incontriamo un Dio che ascolta una sua creatura. Anzi, sta facendo qualcosa di più, perché si dice che Dio ascolti sempre le nostre preghiere: qui sta rendendo una creatura partecipe della sua decisione, da questa si lascia interrogare e provocare. Abramo stesso lo riconosce: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere”; e Dio non lo rimprovera ma lo lascia continuare.

Oggi si sente spesso parlare di ascolto attivo, ovvero quel tipo di ascolto reale, profondo, empatico che cerca di non sovrapporre le proprie precomprensioni a quello che l’interlocutore sta dicendo per accoglierlo così come esso si presenta. Dio, nonostante conosca già il cuore del popolo di Sodama e sappia che non ci sono speranze, sta comunque praticando nei confronti di Abramo un ascolto attivo.

Anche in altri episodi Dio si dimostra un campione di ascolto attivo, come in Esodo/Dvarim 32, 30-35, in cui Mosè chiede al Signore di risparmiare il popolo che ha fabbricato il vitello d’oro, arrivando persino a offrire se stesso. La prima regola dell’ascolto attivo è far sentire l’altra persona accolta e al sicuro, così da farla esprimere liberamente. E qui Mosè è accolto da Dio, che lo tranquillizza subito. Quell’uomo che è così coraggioso da offrire sé stesso in cambio della salvezza del suo popolo può stare tranquillo che non verrà punito.

Scoprire se stessi nell’ascolto: il rapporto tra individualità e collettività

Ascoltare e accogliere l’altro produce anche un ulteriore effetto: dargli la possibilità di scoprire chi è. Nella narrazione scopriamo noi stessi, i nostri limiti e le nostre aspettative, ciò di cui siamo capaci e ciò che ci frena dall’arrivare alla persona che vorremmo essere. Ascoltandoci, l’altro ci dona la possibilità di definirci come individui, di “staccarci dallo sfondo” per cogliere la nostra individualità e portarla a compimento. È il continuo rapporto dialettico tra individualità e collettività che ci forma come soggetti pensanti e volenti. E, in questo auto-scoprirci soggetti senzienti, ci rendiamo conto della necessità della giustizia. Essere giusti è una condizione che va realizzata in primo luogo dai singoli, per far sì che si estenda alla collettività. Per poter diventare una parte di quel numero che Abramo spera di trovare a Sodoma.

Chiaro, la giustizia che ci deve guidare è quella divina, il giudice per eccellenza. Se in passato la tradizione cristiana ha punito eccessivamente alcuni (troppi!) comportamenti, soprattutto legati alla sfera sessuale, è anche vero che negli ultimi decenni abbiamo forse assistito a un’inversione di rotta troppo esagerata dall’altra parte. Siamo arrivati a un Dio che passa sopra a tutto, un Dio del “volemose bene”, andando così a creare un solco ancora più profondo tra il “dio buono” del Nuovo Testamento e il “dio vendicativo” dell’Antico Testamento, superato dall’annuncio del Cristo. Attenzione però: Gesù ha detto “In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto.” (Mt 5,18).

Allora non è lecito liquidare alcuni tratti della figura divina delle Scritture antiche che, invece, richiedono approfondimento, studio e una presa di coscienza che la nostra comprensione dell’essere umano e delle sue esigenze si è molto evoluta.

Il perdono divino: basta un solo giusto che cerchi la fede

Ma allora, mi domando, qual è il fine ultimo della giustizia che ha nel cuore Dio? Cosa vuole davvero il Signore? Attingendo sempre al Primo Testamento riporto il primo versetto del capitolo 5 del libro di Geremia:

Il perdono. Il perdono, ci dice il profeta, è pronto a scendere su un’intera popolazione – qui quella della città santa per eccellenza – se anche un solo uomo è giusto, se anche un solo uomo prova a mantenersi fedele. Dio non richiede la fedeltà a Lui e ai suoi precetti in una forma già compiuta, ma è sufficiente che quell’unico giusto stia cercando la fede, come recita l’originaleDio non ci chiede la perfezione, la santità – solo Lui è il Santo, il separato – ma la voglia di cercarlo, il sapersi mettere sul suo cammino.

Questa è la grande sfida dei nostri tempi. Essere uomini e donne di buona volontà che sappiano mettersi alla sequela del Signore imitando il suo modo di fare, a partire dall’ascolto attivo, sincero, ospitale ed empatico. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole, possiamo fare nostre le parole di un saggio che ci ha preceduto:

Concedi al tuo servo un cuore “ascoltante” perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male. (Salomone, in 1Re 3,9)