XXIX Domenica del Tempo Ordinario – anno C
Luca 18,1-8


grido contro l'ingiustizia

In quel tempo Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

La preghiera è il respiro della vita
Ermes Ronchi

Disse una parabola sulla necessità di pre­gare sempre senza stancarsi mai. Il pericolo che minaccia la preghiera è quello della stanchezza: qualche volta, spesso prega­re stanca, anche Dio può stancare. È la stanchezza di scommettere sempre sul­l’invisibile, del grido che non ha risposta, quella che a­vrebbe potuto fiaccare la ve­dova della parabola, alla quale lei non cede.
Gesù ha una predilezione particolare per le donne so­le che rappresentano l’inte­ra categoria biblica dei sen­za difesa, vedove orfani po­veri, i suoi prediletti, che e­gli prende in carico e ne fa il collaudo, il laboratorio di un mondo nuovo. Così di que­sta donna sola: c’era un giu­dice corrotto in una città, u­na vedova si recava ogni gior­no da lui e gli chiedeva: fam­mi giustizia contro il mio av­versario!
Che bella figura, forte e dignitosa, che nessu­na sconfitta abbatte, fragile e indomita, maestra di pre­ghiera: ogni giorno bussa a quella porta chiusa. Come lei, anche noi: quante pre­ghiere sono volate via senza portare una risposta! Ma al­lora, Dio esaudisce o no le nostre preghiere? «Dio esau­disce sempre: non le nostre richieste, le sue promesse» (Bonhoeffer). E il Vangelo ne trabocca: sono venuto per­ché abbiate la vita in pienez­za, non vi lascerò orfani, sarò con voi tutti i giorni fino al­la fine del tempo, il Padre sa di cosa avete bisogno.
Con l’immagine della vedo­va mai arresa Gesù vuole so­stenere la nostra fiducia: Se un giudice, che è in tutto al­l’opposto di Dio, alla fine a­scolta, Dio non farà forse giu­stizia ai suoi eletti che grida­no a lui, prontamente? Li farà a lungo aspettare? Ci perdoni il Signore, ma a vol­te la sensazione è proprio questa, che Dio non rispon­da così prontamente e che ci faccia a lungo aspettare.
Ma quel prontamente di Ge­sù non si riferisce a una que­stione temporale, non vuol dire «subito», ma «sicura­mente». Il primo miracolo della preghiera è rinsaldare la fede, farla poggiare sulla prima certezza che la para­bola trasmette: Dio è presen­te nella nostra storia, non siamo abbandonati. Dio in­terviene, ma non come io vorrei, come lui vorrà. Se­conda certezza: un granello di senape di fede, una pic­cola vedova che non si lascia fiaccare, abbattono le mura. La preghiera è un «no» gri­dato al «così vanno le cose». È il primo vagito di una sto­ria nuova che Dio genera con noi.
La preghiera è il respiro del­la fede (papa Francesco): pregare è una necessità, per­ché se smetto di respirare smetto di vivere. Questo re­spiro, questo canale aperto in cui scorre l’ossigeno di Dio, viene prima di tutto, pri­ma di chiedere un dono par­ticolare, un aiuto, una gra­zia. È il respiro della vita, co­me per due che si amano, il respiro del loro amore.

Avvenire

Crediamo ancora nella giustizia?
José Antonio Pagola

Luca narra una breve parabola, indicando che Gesù la raccontò per spiegare ai suoi discepoli «la necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai». Questo tema è molto caro all’evangelista che, in diverse occasioni, ripete la stessa idea. Come è naturale, la parabola è stata letta quasi sempre come un invito ad aver cura della perseveranza della nostra preghiera a Dio.

Tuttavia, se osserviamo il contenuto del racconto e la conclusione dello stesso Gesù, vediamo che la chiave della parabola è la sete di giustizia. Fino a quattro volte si ripete l’espressione «fare giustizia». Più che modello di preghiera, la vedova del racconto è esempio mirabile di lotta per la giustizia in una società corrotta che abusa dei più deboli.

Il primo personaggio della parabola è un giudice «che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno». È l’esatta incarnazione della corruzione che ripetutamente denunciano i profeti: i potenti non temono la giustizia di Dio e non rispettano la dignità né i diritti dei poveri. Non sono casi isolati. I profeti denunciano la corruzione del sistema giuridico in Israele e la struttura maschilista di quella società patriarcale.

Il secondo personaggio è una vedova indifesa in mezzo a una società ingiusta. Da una parte, vive soffrendo le vessazioni di un «avversario» più potente di lei. Dall’altra, è vittima di un giudice a cui non importa nulla della sua persona né della sua sofferenza. Così vivono milioni de donne di tutti i tempi nella maggior parte dei paesi.

Nella conclusione della parabola, Gesù non parla della preghiera. Prima di tutto chiede fiducia nella giustizia di Dio: «Non farà forse Dio giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?». Questi eletti non sono «i membri della Chiesa», ma i poveri di tutti i paesi che gridano chiedendo giustizia. Di essi è il Regno di Dio.

Poi, Gesù fa una domanda che è tutta una sfida per i suoi discepoli: «Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Non sta pensando alla fede come adesione dottrinale, ma alla fede che incoraggia l’azione della vedova, modello d’indignazione, resistenza attiva e coraggio per reclamare giustizia dai corrotti.

È questa la fede e la preghiera dei cristiani soddisfatti delle società del benessere? Sicuramente ha ragione J. B. Metz quando denuncia che nella spiritualità cristiana ci sono troppi cantici e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.

Traduzione di Mercedes Cerezo
https://www.gruposdejesus.com

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
Enzo Bianchi

Nel vangelo secondo Luca Gesù aveva già dato un insegnamento sulla preghiera attraverso la consegna ai discepoli del Padre nostro (cf. Lc 11,1-4) e una parabola, poi commentata, sulla necessità di insistere nella preghiera, chiedendo e bussando presso Dio, che sempre concede lo Spirito santo, cioè la cosa buona tra le cose buone, quella più necessaria ai credenti (cf. Lc 11,5-13). Al capitolo 18 c’è una ripresa di questo insegnamento, attraverso la parabola parallela a quella dell’amico importuno: la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente.

È necessario pregare sempre, dice Gesù. Ma cosa significa pregare sempre? E ancora, dobbiamo chiedercelo: com’è possibile? Evadere queste domande significa per il credente rimuovere una verità elementare: la preghiera è un’azione difficile, faticosa, per questo è molto comune, anche tra i credenti maturi e convinti, essere vinti dalla difficoltà del pregare, dallo scoraggiamento, dalla constatazione di non essere esauditi secondo i desideri, dalle vicissitudini della vita. Oggi poi la domanda non è solo: “come pregare?”, ma anche: “perché pregare?”. Viviamo in una cultura nella quale scienza e tecnica ci fanno credere che noi umani siamo capaci di tutto, che dobbiamo sempre cercare un’efficacia immediata, che l’autonomia dataci da Dio nel vivere nel mondo ci esime dal rivolgerci a lui. E va anche riconosciuto che a volte in molti credenti la preghiera sembra solo il frutto di un’indomabile angoscia, una chiacchiera con Dio, un verbalizzare sentimenti generati dalle nostre profondità, devozione e pietà in cerca di garanzia e di meriti per se stessi. C’è una preghiera diffusa che è brutta e falsa preghiera: non la preghiera cristiana, quella secondo la volontà di Dio, quella che Dio gradisce.

E allora, al di là delle difficoltà naturali che sovente denunciamo – mancanza di tempo, velocità della vita quotidiana, distrazioni, aridità spirituale –, cosa possiamo imparare dal Vangelo riguardo alla preghiera? Innanzitutto, va sempre ribadito che la preghiera cristiana si accende, nasce dall’ascolto della voce del Signore che ci parla. Come “la fede nasce dall’ascolto” (Rm 10,17), così anche la preghiera, che è nient’altro che l’eloquenza della fede (cf. Gc 5,15). Per pregare in modo cristiano, e non come fanno i pagani (cf. Mt 6,7), cioè le altre vie religiose umane, occorre ascoltare, occorre lasciarsi aprire gli orecchi dal Signore che parla e accogliere la sua Parola: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9). Non c’è preghiera più alta ed essenziale dell’ascolto del Signore, della sua volontà, del suo amore che mai deve essere meritato.

Una volta avvenuto l’ascolto, la preghiera può diventare un pensare davanti a Dio e con Dio, un’invocazione del suo amore, una manifestazione di lode, adorazione, confessione nei suoi confronti. La preghiera cambia in ciascuno di noi a seconda dell’età, del cammino spirituale percorso, delle situazioni nelle quali viviamo. Ci sono tanti modi di pregare quanti sono i soggetti oranti. E guai a chi pretende di giudicare la preghiera di un altro: il sacerdote Eli giudicava la preghiera di Anna nella dimora di Dio come il borbottio di un’ubriaca, mentre quella era preghiera gradita a Dio e da lui ascoltata (cf. 1Sam 1,9-18)! Dunque veramente la preghiera personale è “secretum meum mihi”, e la preghiera liturgica deve ispirarla, ordinarla, illuminarla e renderla sempre più evangelica, come Gesù Cristo l’ha normata.

Quando così avviene, la preghiera deve essere solo insistente, perseverante, non venire meno, perché sia che viva del pensare di fronte a Dio o con Gesù Cristo, sia che si manifesti come lode o ringraziamento, sia che assuma la forma dell’intercessione per gli umani, è sempre dialogo, comunicazione con Dio, apertura e accoglienza della sua presenza, tempo e spazio in cui lo Spirito di Dio che è vita ispira, consola e sostiene. Ecco perché pregare sempre! Non si tratta di ripetere costantemente formule o riti (sarebbe impossibile farlo continuamente), ma di pensare e compiere tutto alla presenza di Dio, ascoltando la sua voce e confessando la fede in lui. Per questo l’Apostolo Paolo nelle sue lettere più volte e con diverse espressioni ripete il comandamento: “Pregate ininterrottamente” (1Ts 5,17); “Siate perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12); “In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito” (Ef 6,18); “Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie” (Col 4,2). Ciò significa restare sempre in comunione con il Signore, nel sentire la sua presenza, nell’invocarlo nel proprio cuore e accanto a sé, nell’offrirgli il corpo, cioè la concreta vita umana, come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf. Rm 12,1).

Ed ecco allora la parabola. C’è una vedova (categoria che, insieme all’orfano e al povero, esprime secondo la Bibbia la condizione di chi è senza difesa, oppresso) che chiede a un giudice di farle giustizia, di liberarla dalla sua ingiusta oppressione. Ma quel giudice, dice Gesù, “non teme Dio né ha rispetto per gli umani”. È dunque un cattivo giudice, che mai avrebbe esercitato la giustizia a favore di quella donna; eppure a un certo momento, vinto dalla sua insistenza e per non essere più tormentato da lei, decide di esaudirla. Lo fa nella sua logica egoistica, per non essere più disturbato. Al termine di questa breve parabola, Gesù se ne fa esegeta e con autorevolezza pone una domanda ai suoi ascoltatori: “Se accade così sulla terra da parte di un giudice al quale non importa né la giustizia umana né la Legge di Dio, Dio che è giudice giusto non ascolterà forse le suppliche e le grida dei chiamati da lui a essere suo popolo, sua comunità e assemblea in alleanza con lui? Tarderà forse a intervenire?”.

Con queste parole Gesù conferma la fede dei credenti in lui e tenta di placare la loro ansia e i loro dubbi sull’esercizio della giustizia da parte di Dio. La comunità di Luca, infatti, ma ancora oggi le nostre comunità, faticano a credere che Dio è il difensore dei poveri e degli oppressi. L’ingiustizia continua a regnare e nonostante le preghiere e le grida nulla sembra cambiare. Ma Gesù, con la sua forza profetica, assicura: “Dio farà loro giustizia in fretta!”. Il giudizio di Dio ci sarà, verrà su tutti come suo improvviso intervento e arriverà in fretta, nella fretta escatologica, anche se a noi umani sembra tardare. “Ai tuoi occhi, o Dio, mille anni sono come ieri”, canta il salmo (90,4), ed è vero che per noi umani non è come per Dio, ma attendiamo quel giorno che, sebbene sembri indugiare, verrà in fretta, senza tardare (cf. Ab 2,3; Eb 10,37; 2Pt 3,9). Dunque la perseveranza nel pregare ha i suoi effetti, non è inutile, e occorre sempre ricordare che Dio è un giudice giusto che esercita il giudizio in un modo che per ora non conosciamo. Siamo miopi e ciechi quando cerchiamo di vedere l’azione di Dio nel mondo, e soprattutto l’azione di Dio sugli altri…

Ma per Gesù la preghiera è l’altra faccia della medaglia della fede perché, come si è detto, nasce dalla fede ed è eloquenza della fede. Per questo segue un’ultima domanda, non retorica, che indica l’inquietudine di Gesù circa l’avventura della fede nel mondo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Domanda che inquieta anche noi, che a volte abbiamo l’impressione di essere gli ultimi cristiani sulla terra e temiamo che la nostra fede venga meno. Nulla è garantito, nulla è assicurato, e purtroppo ci sono cristiani convinti che la chiesa resterà sempre presente nella storia. Ma chi lo assicura, se neanche la fede è assicurata? Dio non abbandona certo la sua chiesa, ma questa può diventare non-chiesa, fino a diminuire, scomparire e dissolversi nella mondanità, magari religiosa, senza più essere comunità di Gesù Cristo il Signore. La chiamata di Dio è sempre fedele, ma i cristiani possono diventare increduli, la chiesa può rinnegare il Signore.

Quando leggiamo il nostro oggi, possiamo forse non denunciare la morte della fede come fiducia, adesione, fede nell’umanità e nel futuro, prima ancora che nel Dio vivente? E se viene a mancare la fiducia negli altri che vediamo, come potremo coltivare una fiducia nell’Altro, nel Dio che non vediamo (cf. 1Gv 4,20)? La mancanza di fede è la ragione profonda di molte patologie dei credenti e la tentazione di abbandonare la fede è quotidiana e presente nei nostri cuori. Non ci resta dunque che rinnovare la fede, con la speranza nella venuta di Gesù, Figlio dell’uomo, Giudice giusto, e con l’amore fraterno vissuto attingendo all’amore di Gesù, amore fedele fino alla fine (cf. Gv 13,1), per tutti gli umani.

http://www.monasterodibose.it

Nel cuore dell’ottobre missionario, ritorna l’appuntamento annuale della prossima Giornata Missionaria Mondiale, come espressione di un impegno che non si limita ad una giornata né alla semplice raccolta di aiuti materiali. È piuttosto una bella opportunità pastorale per sentirsi Chiesa, comunità viva di persone che hanno incontrato Cristo e lo sentono come un dono da condividere con altri, mediante gesti concreti: la preghiera, il sacrificio, atti di solidarietà e -perché no?- anche l’offerta della propria vita. Il tema forte della missione è la salvezza di ogni persona in Cristo. Di conseguenza ritornano i temi forti: urgenza dell’annuncio, scarsità di operai del Vangelo, necessità di preghiera insistente, cooperazione da parte di tutti i credenti…

La missione, in quanto annuncio del Vangelo, sta passando per stagioni complesse, ma promettenti. Realtà nuove stanno nascendo per la Chiesa missionaria. La Parola di Dio offre oggi messaggi di speranza per i momenti tragici dell’esistenza umana, sia a livello individuale che sociale e politico. Dio interviene e salva, anche se, a volte, sembra tardare. La sua salvezza è gratuita, ma non ci esime dal libero contributo di ciascuno. Il popolo d’Israele (I lettura), spesso in lotta contro i nemici di turno, ottiene una vittoria contro gli Amaleciti, grazie alla preghiera di uno straordinario orante, Mosè, che, con l’aiuto di due collaboratori, mantiene sollevate le braccia in gesto di supplica a Dio (v. 11-12). La vera preghiera non è ‘fuga dal mondo’, ma luogo di trasformazione della vita e del mondo.

L’esperienza orante di Mosè si prolunga nel salmo e trova conferma nel Vangelo della vedova, la quale, grazie alla sua insistente supplica “senza stancarsi mai” (v. 1), ottiene un risultato importante, avendo la meglio in situazioni avverse: una causa in corso, un giudice sprezzante di Dio e degli uomini (v. 2.4)… L’apostolo Paolo (II lettura), dalla prigione, esorta vivamente il discepolo Timoteo a compiere la sua missione di annunciare la Parola, insistere in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonire, esortare (v. 4,2)… Questi sono solo alcuni dei verbi irrinunciabili della Missione. Gli esempi biblici di Mosè e della vedova sottolineano l’importanza della preghiera al Padrone della messe, che disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Padrone della messe che mandi operai nella sua messe” (Mt 9,37-38; Lc 10,2). La preghiera di intercessione è uno strumento insostituibile di missione. Lo esprimeva bene il grande missionario San Daniele Comboni, che in mezzo a grandi difficoltà, scriveva dall’Africa: “L’onnipotenza della preghiera è la nostra forza”. La parola di Gesù ce ne da la certezza: “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui?… farà loro giustizia prontamente” (Lc 18,7-8).

Papa Francesco non perde occasione per rinnovare l’appello missionario a tutte le Chiese, quelle di antica tradizione e quelle di recente evangelizzazione, e le invita tutte a rilanciare l’azione missionaria per far fronte alle molteplici e gravi sfide del nostro tempo. Infatti, c’è un evidente raffreddamento, e anche segni di un inverno della fede cristiana nei paesi d’occidente, che minacciano anche la vita cristiana in altri paesi. Coscienti di questa realtà, possiamo comprendere l’inquietante domanda di Gesù alla fine del Vangelo odierno: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (v. 8). È forse la domanda più provocatoria per la vita della famiglia umana e quindi per la Chiesa e la missione. Il rischio è “il silenzio dell’amore nella notte dell’indifferenza” (G. Bernanos). Parole pessimiste o realiste? Che ne pensi?

Per il battezzato e per la comunità cristiana, non è il momento di rinchiudersi in se stessi, di ridurre lo spazio della speranza, o di rallentare l’impegno missionario. È invece l’opportunità di aprirsi con fiducia alla Provvidenza di Dio, che mai abbandona il suo popolo. È l’occasione per rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo; pregare di più e aprire nuovi spazi di azione missionaria.

Un saggio dell’AT riassume così l’esperienza accumulata durante la vita: “Sono stato fanciullo e ora sono vecchio, ma non ho mai visto il giusto abbandonato, né i suoi figli mendicare il pane… Il Signore ama la giustizia e non abbandona i suoi fedeli. Gli empi saranno distrutti per sempre” (Sal 37,25.28).

Belle parole, ma ce la sentiremmo di sottoscriverle senza avanzare qualche riserva? Chi non conosce esempi che le contraddicono?

Due domeniche fa abbiamo sentito Abacuc lamentarsi con Dio. Nel Paese – diceva – dominano i malfattori si commette ogni sorta d’ingiustizia e tu, Signore, non intervieni.

Nella Bibbia si trovano stupende invocazioni a Dio per chiedere il suo intervento quando sulla terra la vita diventa intollerabile.

Il salmista implora: “Signore tu vedi. Rompi il tuo silenzio! Dio, da me non stare lontano. Dèstati, svègliati, vieni in mia difesa, per la mia causa, Signore mio Dio” (Sal 35,22-23).

Nell’Apocalisse i martiri innalzano al Signore il loro grido: “Fino a quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (Ap 6,10).

Come mai Dio non risponde sempre e subito a queste suppliche?

Se, pur potendo, egli non pone fine all’ingiustizia, può forse essere considerato innocente?

Come giustifica il suo silenzio?

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Anche se non sempre me ne rendo conto, tu Signore mi proteggi all’ombra delle tue ali”.

Prima Lettura (Es 17,8-13a)

In quei giorni, 8 Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. 9 Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio”.
10 Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle.
11 Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. 12 Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. 13 Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo.

Gli amaleciti erano una tribù nomade che viveva nelle regioni desolate del deserto del Sinai. Pochi popoli sono stati odiati dagli israeliti quanto loro.

Avevano commesso un crimine imperdonabile. Gli israeliti che erano in cammino verso la Terra Promessa dovevano attraversare il loro territorio. Stanchi per il viaggio, chiedevano solo un po’ d’acqua e gli amaleciti, invece di aiutarli, li assalirono e uccisero i più deboli della retroguardia della carovana (Dt 25,17-19).

La lettura di oggi si riferisce ad uno dei primi scontri avvenuti con questa tribù.

Dice il testo che Mosè ordinò a Giosuè di attaccarli, mentre egli, assieme ad Aronne e a Hur, sarebbe salito sul monte per invocare l’aiuto di Dio (vv.12-13).

Accadde allora che, mentre Mosè stava con le mani alzate in preghiera, Giosuè vinceva, ma non appena, per la stanchezza, egli le lasciava cadere, gli ameleciti avevano la meglio (v.11).

Come riuscire a mantenere sempre elevate in preghiera le braccia di Mosè? Aronne e Hur trovarono la soluzione: posero Mosè seduto su di una pietra ed essi, uno a destra e l’altro a sinistra, gliele sostennero. Rimasero così fino a sera e Israele sbaragliò gli amaleciti.

Il brano biblico non vuole essere un invito a chiedere a Dio la forza per uccidere i nemici!

I popoli dell’antichità ritenevano che gli dei combattessero a fianco del popolo che li adorava. Noi oggi, istruiti da Gesù, sappiamo che questa è una concezione di Dio arcaica e rozza.

L’episodio narrato nella lettura è stato inserito nella Bibbia perché ha un messaggio teologico: ci insegna che chi vuole raggiungere obiettivi superiori alle sue forze, deve pregare… senza stancarsi.

Ci sono risultati che non possono essere ottenuti se non mediante la preghiera. Ci confrontiamo con nemici che c’impediscono di vivere, che ci tolgono il respiro: l’ambizione, l’odio, le passioni sregolate.

Se per un solo momento lasciamo cadere le braccia, se interrompiamo la preghiera, immediatamente questi nemici prendono il sopravvento e a noi non rimane che rassegnarci alla drammatica esperienza della sconfitta.

Le braccia vanno mantenute alzate… fino a sera, fino al termine della vita, senza stancarsi.

Seconda Lettura (2 Tm 3,14-4,2)

Carissimo, 14 rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso 15 e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù.
16 Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
4,1 Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: 2 annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina.

Per quali valori vale la pena giocarsi la vita? Quali principi inculcare nei figli? Dovranno essere educati a competere e a sopraffare o ad aiutare i più deboli? Che valore dare al denaro, alla famiglia, ai figli, alla salute, alla propria immagine sociale, al successo? Le risposte a questi interrogativi sono molte e divergenti. Qual è quella giusta?

Le soluzioni proposte dagli uomini sono incerte e mutevoli, condizionate spesso più dalla moda che da solide motivazioni.

Paolo suggerisce a Timoteo il punto di riferimento sicuro: le Sacre Scritture. Per convincerlo gli richiama il legame, anche affettivo, che lo lega alla fede. Gli ricorda che in essa è stato educato fin dall’infanzia, “fede schietta che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce” (2Tm 1,5).

Continuando, spiega il valore della Sacra Scrittura. Essa – dice – “è ispirata da Dio ed è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (vv.14-16).

Chi ha trovato questo tesoro, non può nasconderlo o considerarlo un bene da godere in solitudine, deve comunicare la sua scoperta ai fratelli.

Paolo scongiura Timoteo – e attraverso lui tutti gli animatori delle comunità – di approfittare di ogni occasione per far conoscere il Vangelo (2Tm 4,1-2).

L’Apostolo è preoccupato che la fede dei discepoli venga adeguatamente alimentata. Non con dottrine avariate, ma con l’unico cibo nutriente e solido: la parola di Dio contenuta nei testi sacri. Negli stessi anni Pietro, rivolgendosi ai neofiti, impiega un’altra immagine commovente: paragona questa Parola al latte che la madre chiesa offre ai suoi figli. Dice: “Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza” (1Pt 2,2).

È un invito a tutte le comunità a non ridurre la vita cristiana a devozioni, alla ripetizione di riti e cerimonie religiose, ma a dare importanza allo studio e alla meditazione della sacra Scrittura.

Vangelo (Lc 18,1-8)

La preghiera non può essere un modo per forzare Dio a fare la nostra volontà. Perché allora siamo invitati a rivolgerci a lui con insistenza? Che senso ha la preghiera?

A queste domande Gesù risponde oggi con una parabola (vv.1-5) e con un’applicazione alla vita delle comunità (vv.6-8).

La parabola comincia con la presentazione dei personaggi.

Il primo è un giudice il cui compito dovrebbe essere quello di proteggere i deboli e gli indifesi, invece è un senzadio, uno che non prova sentimenti di pietà (v.2). Egli stesso, nel suo soliloquio, riconosce che la cattiva reputazione che si è fatto è del tutto giustificata: “Non temo Dio – dice – e non ho rispetto per nessuno” (v.4). La descrizione che Gesù fa di quest’uomo è quanto mai realistica. Viene da pensare che si riferisca a qualche caso di sfacciata ingiustizia di cui ha sentito parlare o è stato testimone.

Il secondo personaggio è la vedova. Nella letteratura dell’antico Medio Oriente e nella Bibbia è il simbolo della persona indifesa, esposta ai soprusi, vittima di soperchierie, che non può ricorrere a nessuno se non al Signore. Il Siracide si commuove di fronte alla sua condizione e minaccia chi abusa di lei: “Il Signore è giudice. Egli ascolta la supplica dell’oppresso e non trascura le grida dell’orfano o della vedova quando si sfoga nel suo lamento, mentre le lacrime le rigano le guance e il gemito si aggiunge alle lacrime. Il suo dolore ottiene il favore di Dio e il suo grido attraversa le nubi” (Sir 35,14-21).

Nella parabola è messa in scena una vedova che ha subìto ingiustizia. Forse è stata ingannata in un trapasso d’eredità o è stata vittima di qualche raggiro, forse qualcuno ha sfruttato il suo lavoro, certo ha subito un torto e rivendica i suoi diritti, ma nessuno le dà retta. Non ha i soldi per pagarsi un avvocato, non conosce nessuno che possa perorare la sua causa, nessuno cui possa raccomandarsi. Ha in mano una sola carta e la gioca: importuna il giudice andando e ritornando da lui in continuità, con ostinazione, a costo di sembrare indiscreta (v.3).

Dopo aver presentato i due personaggi la parabola continua con il soliloquio del magistrato il quale un giorno decide di dare soluzione al caso. Non perché si è reso conto del suo comportamento scorretto, è solo stanco e infastidito dall’insistenza della donna. Dice: questa vedova è troppo molesta, m’importuna, è diventata insopportabile (vv.4-5).

La parabola si conclude qui. I versetti seguenti (vv.6-8) contengono un’attualizzazione. Li commenteremo più avanti. Prima vediamo di cogliere il senso e il messaggio della parabola.

Chi rappresenta il giudice iniquo? La risposta sembra scontata, anche se piuttosto imbarazzante: è Dio. Invece non è così.

Questo personaggio in realtà è secondario, è introdotto solo per creare la situazione insostenibile in cui è coinvolta la vedova. È su questa situazione che Gesù vuole richiamare l’attenzione. Essa è la condizione in cui i discepoli si vengono a trovare in questo mondo, che è ancora dominato dal maligno e profondamente segnato dalla morte.

Al tempo di Gesù l’ingiustizia si concretizzava in sistemi oppressivi politici, sociali e religiosi. Oggi è rappresentata dai soprusi, dalle frodi ai danni dei più poveri e anche da quegli avvenimenti inspiegabili, assurdi che ci turbano e che sono contrari al nostro anelito di vita.

Che fare in queste situazioni?

Ecco il messaggio della parabola: pregare. Gesù l’ha raccontata – dice l’evangelista – per inculcare la convinzione che è necessario pregare sempre, senza stancarsi (v.1).

La preghiera è il grande mezzo per non perdere la testa anche nei momenti più difficili e drammatici, quando tutto sembra congiurare contro di noi e contro il regno di Dio.

Come si fa a pregare sempre?

La preghiera non va identificata con la monotona ripetizione di formule che snervano chi le recita, il prossimo che le ascolta e – credo – anche Dio che si annoia certamente a sentirle se non sono espressione di un autentico sentimento del cuore (Cf. Am 5,23).

Gesù ha richiamato i discepoli a non fare come i pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole (Mt 6,7).

La preghiera vera, quella che non deve mai essere interrotta, consiste nel mantenersi in costante dialogo con il Signore.

Il dialogo con lui ci fa valutare la realtà, gli avvenimenti, gli uomini con i suoi criteri di giudizio. Vagliamo con lui i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre reazioni, i nostri progetti.

Pregare sempre significa non prendere alcuna decisione senza aver prima consultato lui. Se anche per un solo istante si dovesse interrompere questo rapporto con Dio, se – per usare l’immagine della prima lettura – si lasciano cadere le braccia, immediatamente i nemici della vita e della libertà prendono il sopravvento. Nemici che si chiamano passioni, pulsioni incontrollate, reazioni istintive. Si creano le premesse per le scelte insensate.

È la preghiera che permette, ad esempio, di controllare l’impazienza nel volere instaurare il regno di Dio a tutti i costi e ricorrendo a qualunque mezzo. È la preghiera che ci impedisce di forzare le coscienze e ci insegna a rispettare la libertà di ogni persona.

La conclusione del brano (vv.6-8) è piuttosto enigmatica. L’ultima frase: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” sembra insinuare il dubbio sul successo finale dell’opera di Cristo. Per comprenderla è necessario verificare chi sta parlando e chi sono i destinatari del messaggio, poi si deve anche apportare una correzione alla traduzione.

Chi prende la parola è il Signore che nel Vangelo di Luca indica il Risorto. Si rivolge agli eletti che sono i cristiani perseguitati delle comunità di Luca. È ai loro interrogativi angoscianti che si vuole dare una risposta.

Siamo negli anni 80 e in Asia Minore è iniziata una persecuzione subdola più che violenta. Domiziano pretende che tutti lo adorino come un Dio. L’istituzione religiosa pagana, servile e adulatrice, si è subito adeguata e asseconda le eccentricità maniacali del sovrano. I cristiani no. Non possono – come dice il libro dell’Apocalisse (Ap 13) – inchinarsi davanti alla “bestia” (il divo Domiziano) e per questo subiscono angherie e discriminazioni.

Ora risulta chiaro chi è la vedova della parabola: è la chiesa di Luca, la chiesa cui è stato sottratto lo Sposo, è la comunità che attende la sua venuta, anche se non conosce né il giorno né l’ora del suo ritorno e che ogni giorno, con insistenza, implora: “Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20).

A questa invocazione il Signore dà una risposta consolante, con una domanda retorica  (E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui?) seguita da un’affermazione perentoria (Sì, vi dico: egli farà loro giustizia e molto presto! Anche se li fa a lungo aspettare). Avrete notato che alla fine è stato tolto il punto interrogativo. Questa modifica alla traduzione rende più coerente il senso del testo.

La maggior tentazione dei cristiani sono lo scoraggiamento e la sfiducia di fronte alla lunga attesa dello Sposo che tarda a manifestarsi, che tollera l’ingiustizia.

L’ultima frase: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” non si riferisce alla fine del mondo, ma alla venuta salvatrice di Cristo in questo mondo.

Di fronte all’inspiegabile lentezza del giudice la vedova avrebbe potuto rassegnarsi e disperare di poter un giorno ottenere giustizia.

Il Signore vuole mettere in guardia la comunità cristiana contro il pericolo rappresentato dallo scoraggiamento, dalla rassegnazione, dal pensiero che lo Sposo non torni più a “fare giustizia”. Egli verrà certamente, ma troverà i suoi eletti pronti ad accoglierlo? A qualcuno il suo tardare potrebbe aver fatto perdere la fede.

Per gentile concessione di
http://www.settimananews.it