Lectio divina
LA LETTERA AI ROMANI
GIUSTIFICATI PER GRAZIA – SALVATI PER FEDE
Commento e attualizzazione a cura di don Sergio Carrarini
Testo doc Lettera ai Romani – capitoli 1-5 – Sergio Carrarini (1)
Testo pdf Lettera ai Romani – capitoli 1-5 – Sergio Carrarini (1)
INTRODUZIONE

L’apostolo Paolo è il grande missionario che ha innescato il processo di traduzione della fede cristiana nella cultura greco-romana. Quando scrive la Lettera ai Romani è vicino alla conclusione della sua vita, sul finire degli anni 50 d.C.
La Lettera ai Romani è lo scritto più lungo e più importante di tutto l’epistolario paolino, quello più studiato e commentato nella tradizione della Chiesa e quello che più ha influito nella sua storia, sia per fondare la teologia, che per le molte discussioni che ha suscitato. La riforma protestante ne ha fatto il suo cavallo di battaglia ed attualmente è il testo dal quale si riparte nel dialogo ecumenico. E’ un testo dottrinale, con l’intento di svolgere un discorso teologico completo e sistematico sul contenuto essenziale della fede cristiana. Non è un testo facile, ma vogliamo rileggerlo a partire dalla situazione della nostra Chiesa chiamata, come la Chiesa delle origini, a passare da una tradizione di fede ancorata e pensata per il contesto religioso della società contadina, ad una nuova visione della fede che nasce da un contesto secolarizzato, multiculturale e multireligioso.
Per compiere questo passaggio (simile a quello che hanno dovuto fare gli ebrei diventati cristiani) anche noi dobbiamo superare la vecchia mentalità, legata alla legge e alle pratiche religiose, per cogliere l’essenziale della fede (ciò che è irrinunciabile) e metterlo come punto di partenza di una nuova sintesi teologica, di una nuova prassi religiosa più in sintonia con la cultura moderna. Per dialogare in verità con altre culture e religioni bisogna sfrondare ciò che non è importante, ciò che è incrostazione del passato, e mantenere saldo ciò che è fondamentale. Ci faremo aiutare da Paolo in questa “potatura” radicale della nostra tradizione religiosa, per rinvigorire la pianta della Chiesa e farla rifiorire nell’annuncio del vangelo agli uomini d’oggi.
La Lettera ai Romani è stata dettata da Paolo allo scrivano Terzo, presumibilmente nella primavera dell’anno 57 d.C., a Corinto, mentre si preparava per andare a Gerusalemme a portare la colletta. Dopo la visita alla comunità madre di Gerusalemme, Paolo aveva intenzione di passare da Roma nel suo viaggio verso la Spagna. Questa Lettera è nata per preparare la sua visita in una comunità dove non era mai stato, ma gli dà anche l’occasione per riprendere, in modo ragionato e completo, quanto scritto alle comunità della Galazia e quanto sosteneva nelle accese discussioni con i giudaizzanti. Alcuni pensano che sia come una preparazione per il suo incontro con la comunità di Gerusalemme, da sempre legata al giudaismo e in lotta con la sua linea apostolica.
Roma, capitale dell’impero, era la più grande città dell’antichità con un milione di abitanti. La sua popolazione era formata da un piccolo nucleo di famiglie importanti che detenevano il potere e le cariche pubbliche (senatori e cavalieri); da una classe di schiavi affrancati (liberti) che formavano l’ossatura dell’amministrazione pubblica; da una numerosa schiera di artigiani e di commercianti provenienti da ogni parte dell’impero. La maggioranza della popolazione, però, era composta da plebei romani e da schiavi che vivevano in quartieri secondo le varie razze o popoli di provenienza. C’era anche una nutrita colonia di ebrei (50.000 persone) che viveva in piccole comunità dislocate nei vari quartieri. Nel 49 l’imperatore Claudio aveva espulso da Roma gli ebrei a causa di tumulti per la fede in Cristo (segno della presenza a Roma di un’attiva comunità cristiana). Nerone li aveva riammessi verso la fine degli anni 50, ed è in questo periodo che Paolo scrive ai cristiani di Roma.
IL VANGELO FINO AI CONFINI DEL MONDO
1,1-17 e 15,14-16,27
La Lettera ai Romani è uno scritto molto esteso (16 capitoli), meditato e provocatorio nei contenuti. Secondo lo stile classico delle lettere dell’antichità, nel proemio (1,1-17) troviamo la presentazione del mittente e dei destinatari, una preghiera di ringraziamento a Dio e l’enunciazione del tema che Paolo vuole trattare. Noi leggeremo subito anche la parte conclusiva della Lettera (15,14 – 16,27) perché contiene molte informazioni su Paolo e i suoi progetti, sulla Chiesa di Roma e la sua struttura organizzativa, sui motivi che hanno spinto Paolo a scrivere ai romani e sulla situazione generale delle Chiese alla fine degli anni 50 d.C.
Paolo, l’apostolo dei pagani (1,1-17)
Il mittente della Lettera si presenta ai suoi interlocutori lontani e, questa volta, in gran parte sconosciuti. Paolo infatti non era mai stato a Roma, ma aveva conosciuto e lavorato con ebrei (es. Aquila e Prisca) espulsi da Roma ai tempi dell’imperatore Claudio. Certamente ne conosceva altri per motivi di viaggi o di lavoro. Proprio perché molti cristiani di Roma non lo conoscevano di persona, Paolo si presenta in modo più preciso e approfondito. Sottolinea tre aspetti:
v.1: Servo di Gesù Cristo… apostolo perché porti il suo messaggio di salvezza. Notiamo subito che Paolo non si associa altri collaboratori (come fa in quasi tutte le altre Lettere) per assumersi la piena responsabilità di ciò che scrive e per sottolineare il suo posto nella Chiesa di Cristo. Il suo essere cristiano e apostolo del vangelo gli deriva da una precisa chiamata ed elezione di Dio, non da una sua scelta personale. Durante tutta la sua vita di missionario Paolo ha sempre dovuto rivendicare e difendere la legittimità della sua vocazione apostolica di fronte alle critiche dei giudaizzanti. Anche con i romani precisa subito la sua posizione di apostolo, prevenendo possibili obiezioni.
vv.2-4: Il vangelo di salvezza… Paolo presenta con essenzialità il contenuto centrale del vangelo. Questi tre versetti sono come un piccolo credo, una breve professione di fede nel mistero di Cristo, forse già usata nelle liturgie delle comunità primitive. Essa sottolinea le due dimensioni di Cristo:
• pienamente uomo: ebreo, discendente di Davide, fragile e mortale;
• figlio di Dio: costituito Signore con la risurrezione dai morti, potente e immortale.
In questa professione di fede non si parla tanto di due “nature” (affermazione venuta molto dopo nella Chiesa), ma di due “condizioni esistenziali” di Gesù di Nazaret, quella prima e quella dopo la risurrezione. Come nell’inno della Lettera ai Filippesi (2,1-11) Paolo sottolinea il cammino storicoesistenziale (più che quello teologico-dogmatico) del mistero di Cristo: il Figlio di Dio dall’eternità ha iniziato ad esistere nel tempo in Gesù di Nazaret, pienamente uomo come tutti; per grazia di Dio il Nazareno è risorto dai morti ed è stato costituito Signore della storia e Salvatore.
vv.5-7: Devo portare tutti i popoli a credere in Dio e a ubbidirgli nella fede. Dalla fede in Cristo uomo-Dio nasce la missione, l’impegno di Paolo ad essere apostolo dei pagani, per annunciare loro che solo in Gesù Cristo c’è salvezza e che tutti sono chiamati a vivere come lui ha insegnato. Paolo ha ricevuto da Gesù il dono e la responsabilità di portare il vangelo ai non ebrei. Tra di loro ci sono anche i romani. Lascia così capire che la Chiesa di Roma è formata in gran parte da cristiani di origine pagana. Dopo l’editto di Claudio erano i soli rimasti a Roma e al tempo in cui Paolo scrive erano la grande maggioranza. Paolo li chiama amati da Dio e santi, cioè membra vive del nuovo popolo di Dio. Per loro invoca grazia e pace, secondo lo stile usuale delle Lettere.
vv.8-15: Ho il desiderio ardente di vedervi. Come in altre Lettere, alla presentazione del mittente e dei destinatari segue una preghiera di ringraziamento a Dio per i doni presenti nella comunità. Ma Paolo è subito preoccupato di giustificare il fatto di rivolgersi ad una comunità che non ha fondato e che non lo conosce. Perché lo fa? Con quale autorità si rivolge a loro? Che scopo ha? Abilmente Paolo presenta due riflessioni per giustificare il suo intervento e ingraziarsi i romani:
• lo scambio di doni tra Chiese sorelle: ognuno ha dei doni che possono arricchire l’altro;
• i tempi di Dio non sempre coincidono con quelli dell’uomo: ora forse è giunto il tempo per un incontro tra l’apostolo dei pagani e la Chiesa che vive nella capitale dell’impero. Senza questo incontro la sua missione non sarebbe completa.
vv.16-17: Dio, per mezzo della fede, riabilita gli uomini davanti a sé. Paolo mette il titolo alla Lettera, annuncia il tema che svolgerà poi con ampiezza di argomenti. Il tema si può formulare così: Il lieto annuncio riguarda Gesù Cristo che salva gratuitamente gli uomini per mezzo della fede. E’ il messaggio centrale del cristianesimo, perché da esso dipende tutto il resto.
La nuova missione di Paolo in Occidente (15,14-33)
Prima di affrontare il tema teologico della Lettera leggiamo i capitoli finali che ci aiutano a capire meglio il motivo che ha spinto Paolo a scrivere ai romani e la realtà di quella Chiesa.
vv.14-21: I non ebrei diventino un’offerta gradita a Dio. Alla fine della Lettera Paolo riprende i temi del prologo aggiungendo nuovi aspetti e notizie. Torna a giustificarsi per il suo intervento con parole forti in una Chiesa che non lo conosce e che non ha fondato. Partendo sempre dalla sua vocazione-missione di apostolo dei pagani, riprende i due motivi precedenti (scambio di doni fra Chiese e tempi di Dio per realizzare i suoi progetti), ma con una sottolineatura nuova:
la sua azione missionaria è come una grande liturgia offerta a Dio non con riti sacri nei templi, ma con la vita delle persone che si convertono e credono. E’ una liturgia senza confini di tempo e di spazio e si propone di coinvolgere tutta l’umanità. Questo tema verrà ripreso varie altre volte nelle Lettere e sarà portato al suo massimo sviluppo dal Vangelo di Giovanni (4,22-24; 13,1-5)
è venuto il tempo di guardare verso Occidente perché la sua missione in Oriente è terminata. Paolo afferma di aver avuto da Dio l’incarico di portare solo il primo annuncio, di mettere le basi delle comunità, di aprire strade nuove, non quello di dirigere le Chiese. Lui è fondatore, iniziatore; altri poi consolideranno. Ormai ha girato tutte le regioni dell’Oriente romano e sente che il suo compito ora è quello di andare verso Occidente.
vv.22-33: Verrò da voi quando passerò per andare in Spagna. Paolo rassicura i romani che non è sua intenzione venire in Italia per fondarvi delle nuove comunità o per fare da maestro a quelle già esistenti. Il suo sguardo e il suo cuore sono già proiettati verso i confini dell’Occidente, verso le colonne d’Ercole, estremo limite del mondo allora conosciuto. La sua visita a Roma è solo di passaggio, per avere uno scambio di fede e un sostegno al suo progetto missionario. E’ veramente impressionante questo slancio missionario di Paolo che in circa 20 anni ha girato tutto l’impero romano per portare l’annuncio di Cristo, per gettare il seme del vangelo. Certamente era spronato dall’aspettativa della fine del mondo imminente, ma aveva una fede incrollabile in Cristo, una coscienza profonda della sua missione, una dedizione totale e senza remore.
Ma c’è anche un secondo motivo che ha spinto Paolo a rivolgersi ai Romani. Gli ultimi anni della sua missione in Oriente erano stati segnati da forti contrasti e lotte con i giudaizzanti, perché il compromesso siglato al Concilio di Gerusalemme era saltato e molte comunità erano tornate ad osservare la legge mosaica e ad imporla ai nuovi convertiti, oppure a separare ebrei e pagani.
Oltre ad accese discussioni e a chiare prese di posizione (orali e scritte), Paolo aveva testardamente voluto mantenere fede ad un impegno preso al Concilio di Gerusalemme: quello di aiutare materialmente la comunità madre di Gerusalemme, come segno di comunione nella fede, pur nel pluralismo dei modi di viverla. Visto come stavano andando le cose, alcune Chiese dei pagani si rifiutavano di contribuire alla colletta e avevano accusato Paolo di interessi personali nella vicenda. Un’intera regione (la Galazia) si era ritirata e in Macedonia e Acaia Paolo aveva dovuto usare tutta la sua autorità di fondatore per portarla a termine. Ora che finalmente la colletta era stata raccolta, Paolo voleva concludere la sua missione in Oriente con un segno importante, un suggello al suo lavoro di apostolo, un segno ufficiale di comunione tra le sue Chiese e la Chiesa madre di Gerusalemme: la consegna della colletta. Per lui questo gesto assumeva un valore fondamentale: perché non risultasse inutile il lavoro che avevo compiuto e che stavo ancora facendo (Gal 2,2).
Ma era preoccupato circa l’esito della visita a Gerusalemme: sarebbe stato accolto bene o male? L’aiuto sarebbe stato accettato o rifiutato? Sarebbe diventato un segno di comunione o di rottura? Mentre scrive sta preparando il viaggio a Gerusalemme e ci sono molti segni che lo preoccupano. Chiede perciò ai Romani di pregare per il buon esito della sua missione a Gerusalemme e (velatamente) chiede anche il loro appoggio nella disputa che lo vede protagonista. Per questo ha trattato così approfonditamente con loro il tema della salvezza per fede e del rapporto con la Legge di Mosè. Paolo spera di avere il sostegno della Chiesa di Roma e di poter dopo condividere con loro la gioia della pace ritrovata. La comunione con tutta la Chiesa è per Paolo una condizione fondamentale per dare nuovo slancio alla sua missione. Di fatto la visita a Gerusalemme finirà male per lui (con l’arresto e una lunga detenzione) e per i rapporti tra le Chiese. A Roma arriverà sì, ma in catene e, in parte, per colpa proprio dei cristiani della Chiesa di Gerusalemme.
La struttura delle Chiese dei pagani (16,1-24)
L’ultimo capitolo della Lettera contiene delle raccomandazioni e i saluti. La cosa che lo rende originale e interessante (e che suscita molte discussioni fra gli studiosi) è il gran numero di persone citate per nome e con il loro ruolo nella Chiesa. Al di là, però, del problema di come potesse Paolo conoscere tanti cristiani della comunità di Roma, questo lungo elenco ci aiuta a capire meglio come erano strutturate le Chiese dei pagani. Cogliamo alcuni dati che emergono con più chiarezza.
vv.1-2: Vi raccomando la nostra sorella Febe. La prima persona ad essere citata è Febe diaconessa (oggi diremmo “responsabile”) della comunità di Cencre, porto orientale di Corinto, che ha accolto molti cristiani nella sua casa e tra questi anche Paolo in qualche sua visita a Corinto. Il fatto che Paolo inviti i romani ad accoglierla bene e ad aiutarla, ha fatto pensare a molti che fosse lei l’incaricata di portare a Roma la Lettera, ma non è sicuro, anche se può essere plausibile. Da notare che per Febe si parla di un preciso ministero femminile nella comunità, anche se non è specificato con precisione di cosa si tratti. Certamente alcune donne avevano un ruolo importante nelle Chiese dei pagani: solo in questo capitolo ne sono ricordate per nome 9!
vv.3-16: Salutate… Segue un lungo elenco di quasi trenta nomi, più il riferimento a molti altri che si radunavano nelle varie case. Notiamo alcuni particolari:
♦ i nomi: alcuni sono di origine greca (Apelle, Epèneto, Narciso…); alcuni sono di origine romana (Giulia, Rufo, Urbano…); alcuni sono di origine giudaica (Andronico, Giunia, Maria, Prisca, Aquila…); alcuni sono nomi di schiavi o di liberti (Ampliato, Asincrito, Erma, Nereo, Erodione…). La Chiesa di Roma era veramente “cattolica”, cioè composta da persone di varie razze, culture, condizioni sociali; una Chiesa multietnica e multiforme.
♦ Il ruolo: alcuni sono ricordati per il rapporto personale che li lega a Paolo (affetto, collaborazione, nazionalità, prigionia); altri per il loro impegno missionario a servizio delle varie Chiese fondate da Paolo.
♦ Le comunità domestiche: da sottolineare il riferimento alle “case” comunità in cui si riunivano i cristiani: la casa di Aquila e Prisca che già avevano ospitato Paolo a Corinto, poi a Efeso e che ora erano ritornati a Roma; la casa di Aristobulo (nipote del re Agrippa?); la casa di Narciso (celebre liberto della famiglia di Claudio?); la casa di Asincrito (comunità di schiavi o liberti?); la casa di Filologo e Giulia…
Come abbiamo visto commentando gli Atti degli Apostoli, le prime comunità cristiane si erano strutturate nel mondo giudaico sul modello della sinagoga ebraica e nel mondo pagano sul modello delle “domus”, le case-famiglia patriarcali che erano l’ossatura portante della società romana. Anche la Chiesa di Roma (come del resto tante altre) era formata da piccole comunità autonome, ma in contatto fra loro, che si scambiavano lettere e persone. Alcuni cristiani infatti facevano i missionari o i catechisti itineranti a servizio di tutte le comunità e tenevano i collegamenti. Ogni comunità poi, al suo interno, aveva dei responsabili e dei ministeri a servizio della sua crescita e del suo funzionamento.
vv.17-20: State lontani da chi crea divisioni. Un invito strano questo ad evitare cristiani che creano divisioni. A chi si riferisce? Forse i giudaizzanti erano già arrivati anche a Roma? Oppure Paolo vuole solo prevenire difficoltà future in base all’esperienza già vissuta in Oriente? Non lo sappiamo.
vv.21-24: Vi salutano… Riprendono i saluti, ma questa volta da parte dei collaboratori e delle persone più vicine a Paolo:
• l’equipe missionaria che lo ha aiutato nell’ultima parte della sua missione in Oriente e che ora si sta preparando ad accompagnarlo nel viaggio a Gerusalemme;
• lo scrivano Terzo, che per una volta esce dall’anonimato e si firma unendosi ai saluti;
• il capo comunità che lo sta ospitando nella sua casa a Corinto;
• le autorità civili che governano la città, conosciute dai romani.
La dossologia finale (vv.25-27) non è nello stile paolino e non appartiene alla Lettera ai Romani, ma è stata aggiunta nel secondo secolo a conclusione di una raccolta degli scritti paolini che terminava proprio con la Lettera ai Romani. Ha il tipico stile dell’apocalittica e denota una lunga riflessione di fede sul senso della storia e sulla centralità di Cristo nelle vicende dell’umanità.
L’impressione generale che resta dalla lettura della situazione delle Chiese alla fine degli anni 50 del primo secolo è la grandezza del progetto missionario che ha ispirato i primi credenti, il loro coraggio e la loro dedizione, unita però a tante difficoltà e lotte non solo con il mondo esterno, ma anche all’interno della stessa Chiesa. Il cammino dell’evangelizzazione è sempre segnato dalla croce e insieme dal coraggio di chi cerca di aprire vie nuove.
v.1: Siamo in pace con Dio. Basta paure, scrupoli, doveri da compiere, sensi di colpa… Cristo ci fa sentire in pace con Dio, accolti dal suo amore, perdonati e consolati, ripieni di tutti i doni dello Spirito. L’apostolo Giovanni dirà nella sua Prima Lettera: Allora non avremo più paura davanti a Dio. Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore (3,20).
v.2: Abbiamo accesso alla grazia. La fede ci apre alla conoscenza sempre più profonda del mistero di Dio rivelatoci da Gesù. La fede ci fa approfondire il progetto di salvezza di Dio (anche se non riusciamo ancora a capirlo pienamente). Essa ci apre alla speranza, all’attesa di un compimento futuro, quando vedremo Dio faccia a faccia e potremo contemplare il mistero del suo amore.
vv.3-4: Ci vantiamo delle sofferenze. La vita del credente resta comunque segnata da persecuzioni. Il dono della riconciliazione diventa la forza per resistere e superare le prove, per consolidare e purificare la fede, per aprirsi ad una speranza sicura fondata non sulla forza dell’uomo, ma sulle promesse di Dio. Il vanto di Paolo non deriva da un atteggiamento masochistico o dall’orgoglio di essere migliore degli altri, ma è fondato su un cammino di fedeltà a Dio e di sequela di Gesù Cristo.
v.5: L’amore è nei nostri cuori. La fede e la speranza diventano concrete e visibili nella vita del credente attraverso l’amore, che è frutto e dono dello Spirito. La pienezza della riconciliazione si realizza in una vita guidata dallo Spirito e vivificata dall’amore.
vv.6-8: Cristo è morto per noi quando eravamo ancora peccatori. Questa è la prova che Dio ci ama. Di fronte ai dubbi e alle paure di Dio Paolo porta un ultimo argomento per sottolineare la grandezza del suo amore: se Dio ci ha salvati quando eravamo lontani da lui, tanto più ci salverà ora che abbiamo accolto la sua grazia! Basta aver paura di Dio; basta essere ripiegati su noi stessi e sulle nostre miserie. Apriamoci al suo amore e viviamo con fiducia e speranza la nostra vita.
vv.9-11: Addirittura possiamo vantarci di quel che siamo davanti a Dio. Questi ultimi versetti diventano un inno alla speranza e alla gioia: se già ora, pur essendo ancora fragili e peccatori, abbiamo superato la paura di Dio, tanto più dobbiamo essere fiduciosi e gioiosi di incontrarlo alla fine della nostra vita. Paolo ci dice anche: siamo orgogliosi e gioiosi dei doni che Dio ci ha dato, per vivere con coraggio e con generosità al servizio di Cristo e dei fratelli, nell’attesa del suo ritorno.
Come viviamo noi oggi il rapporto con Dio: con paura o con fiducia? Come ci immaginiamo l’incontro con lui al momento della nostra morte: esperienza di gioia (luce) o di angoscia (oscurità)? Come consideriamo i tempi di prova nella nostra vita? Nella nostra esperienza cristiana predomina la gioia o il dovere? Il minimo per essere a posto o l’amore senza calcoli? I meriti o la gratuità?