In questi anni sono in molti che parlano e scrivono della crisi della parrocchia. Spesso le analisi si ripetono senza particolari originalità. Quasi sempre mancano le piste necessarie da cui tentare di ripartire con coraggio e creatività nel dare, di nuovo, forma ospitale ad una vicenda – quella della parrocchia – che accompagna da secoli l’esperienza cristiana.

Di: Daniele Rocchetti
Data: 2 Ottobre 2025
http://www.labarcaeilmare.it

Il libro recente di Sergio Di Benedetto – “Parrocchia al capolinea: Fine o ripartenza?” (Edizioni Paoline, pp.192, 2025, euro 17) non nasconde le questioni in gioco, analizza con chiarezza le storture, indica le imprescindibili potature e rinunce, mostra (facendo riecheggiare sullo sfondo suggestioni di credenti che ben ha studiato, da Madaleine Delbrel a Michel de Certeau fino al cardinal Martini) incroci utili per rendere possibile un’esperienza spirituale che custodisca la pienezza dell’umano.
Di Benedetto è un autore che merita di essere seguito. Scrive con regolarità sul blog http://www.vinonuovo.it (buttategli l’occhio qualche volta, è ben fatto), insegna, dirige una compagnia di attori professionisti (www.exire.it), intreccia letteratura e spiritualità. Insomma, cerca di mostrare come il cristiano di oggi debba stare, con competenza e passione, ai crocicchi delle tante strade in cui imbattersi delle donne e degli uomini di oggi.
Quali sono le ragioni che ti hanno spinto a scrivere il libro?
Il libro è nato dall’osservazione e dall’ascolto; ho osservato, nel corso degli anni, una serie di problemi che andavano via via sempre più imponendosi alla parrocchia, problemi di cui tanti erano e sono consapevoli, ma di cui si faticava a parlare con sincerità perché “si è sempre fatto così” e perché procedere per inerzia spesso è più rassicurante. Poi ho ascoltato il disagio di molti — uomini e donne, laici e consacrati, giovani, adulti, anziani —, un disagio sul quotidiano parrocchiale a cui si faticava non solo a dare risposta, ma anche a dare ospitalità. Così mi sono detto che forse era il caso di mettere in ordine tante parole, fatiche, esperienze, raccogliere alcune intuizioni e magari cogliere ancora qualche possibilità evangelica futura. Il racconto di Giovanni 21, 1-14, una pagina che mi è molto cara, ha poi dato il filo per tessere le mie riflessioni.
La prima indicazione di metodo che offri è quella di guardare la crisi, attraversarla fino in fondo. La notte non è da fuggire né da accorciare. Accenni a diverse crisi che riguardano oggi la comunità cristiana.
Sì, il primo passo, di cui sono fortemente convinto, consiste proprio nel guardare la crisi con sincerità e profondità. Inutile nascondere ciò che comunque è sotto gli occhi di tanti. Ho colto sette crisi della parrocchia: di fede, di persone, di pensiero, di identità, di linguaggio, di credibilità, di strutture. Si tratta di crisi trasversali: difficile che una parrocchia le viva tutte; difficile che non ne ha abbia nemmeno una.
Mi soffermo sulla “crisi di linguaggio”. Tu con molta sincerità riconosci che oggi molte formule affermate in contesti catechetici o omiletici non significhino più nulla al giovane medio e nemmeno all’adulto. Serve una nuova inculturazione della fede?
Certamente; e serve un grande coraggio per questo passaggio fondamentale, perché bisogna vincere il timore di “perdere il contenuto” cambiando la forma linguistica con cui si parla. Ma la paura è sempre cattiva consigliera. Ad esempio, cosa dicono oggi parole come “grazia”, “peccato originale”, etc…? È uno sforzo decisivo questo a cui la chiesa è chiamata, ma prima si deve avere coscienza che spesso non siamo più né ascoltabili né comprensibili. Certe omelie sono una penitenza; meglio sarebbe il silenzio.
Quello che sta finendo non è il cristianesimo ma una forma del cristianesimo, non è la fede ma la forma della fede fin qui trasmessa. Cosa vuol dire abitare le fratture del tempo e, allo stesso momento, raccontare la bellezza della vicenda cristiana?
Rispetto alla società che c’era in alcune linee portanti almeno fino quasi alla chiusura del Novecento, la fratture sono evidenti: pensiamo solo all’antropologia, alla comunicazione, al digitale, ai sensi delle appartenenze, alla relazionalità. Un esempio: la società da tempo offre ai giovani un precariato lavorativo per anni e anni, si elogia la flessibilità per pure ragioni economiche, ma poi c’è una lamentela sul fatto che i giovani non compiono scelte definitive: non è una profonda incoerenza?
Le fratture sono evidenti, ma molte lo erano già a metà del secolo: il concetto di frattura è antico e su questo ha scritto parole splendide Michel De Certeau. Abitare queste fratture significa non fuggirle, accettare che ci sono state, non far finta che nel profondo le coordinate essenziali del vivere siano rimaste immutate. Qui il Vangelo ha qualcosa da dire oppure pensiamo che possa essere declinato solo con schemi novecenteschi? Ecco, io penso che anche oggi, ormai nel terzo decennio del XXI secolo, il cristianesimo ha da dire e da dare per una vita radicata nell’oggi e, al tempo stesso, sensata, interessante, umana. Gesù di Nazareth anche oggi offre una relazione di verità e di umanità alla persona: ne sono convinto.
Hai un capitolo sul “coraggio dell’ascolto”. Postura non troppo congeniale ai cristiani del nostro tempo. A quale conversione ci chiama per riconoscere Dio che spesso oggi in forme inedite si fa incontrare?
È un punto che mi sta a cuore: la conversione di sguardo, che diventa conversione di mentalità. E, come ogni conversione, richiede sforzo. Mi spiego: siamo chiamati a cambiare schema mentale, per cui dobbiamo capire che possiamo e dobbiamo essere evangelizzati, non solo evangelizzare; e questo avviene anche dal ‘fuori’ dei recinti ecclesiali. Se crediamo che lo Spirito non si limiti ai nostri tracciati e ai nostri sentieri («Le vostre vie non sono le mie vie», dice Isaia), allora significa che Dio agisce al di fuori delle frontiere ecclesiali e ha qualcosa da dire a chi sta dentro, alle comunità cristiane, alle parrocchie. Ma lo dice da fuori, da ciò che appare come insolito, irregolare, nuovo. Significa avere il coraggio di ammettere che fuori c’è un Risorto che abita la storia, abita il quotidiano, e il nostro compito è riconoscerlo.
Penso alle domande di chi si sente escluso e non trova accoglienza se non superficiale, alle critiche di chi ha abbandonato una forma di appartenenza ecclesiale per conservare la fede, di chi vede le ingiustizie del mondo e trova nel Vangelo una luce capace di rischiarare le contraddizione dell’oggi; tutti questi movimenti possono dire nuovamente Dio a chi è radicato nella parrocchia. Si tratta anche di compiere un altro passo: chiediamoci dove non si trova più Dio in strutture, parole, riti, prassi, pensieri che ci trasciniamo da tempo, per domandarci, invece, dove potremmo trovarlo. Come nella pagina di Giovanni che ho citato: i sette discepoli trovano Gesù sulla riva del lago, nei panni di uno sconosciuto, che dà loro un consiglio. Quegli uomini sono chiamati a farsi evangelizzare di nuovo da chi non conoscono, per esclamare: «È il Signore».
Quali sono i “segni di vita” che ti pare riconoscere e da cui partire con forza?
Oltre le crisi, le nostre parrocchie ancora conoscono forme di generosità, impegno, servizio. Non tutto è da gettare dalla barca. Però c’è molto da cambiare nelle forme. Bisogna dare spazio e fiducia a quanti pensano altre vie, a chi tenta strade nuove, anche sbagliando. Era una felice intuizione di Papa Francesco. Girando per vari motivi tanto l’Italia che l’Europa, mi sono reso conto di alcune esperienze innovative di pastorale, di comunione parrocchiale, di valorizzazione della donne e dei laici. Ma sono esperienze troppo poco conosciute e spesso lasciate alla buona volontà di qualche prete, di qualche vescovo. Un paio di esempi: una parrocchia in profonda crisi, in Romagna, è stata affidata a un diacono con “carta bianca”: per anni non c’è stata alcuna iniziativa pastorale, si è superato l’attivismo che divora le parrocchie, solamente ci si è curati delle relazioni personali. In qualche anno è completamente rinata. Penso a una parrocchia svizzera dove ho visto una profonda collaborazione locale tra chiesa riformata e chiesa cattolica, con eventi comuni, azioni di carità condivise, centralità data alle donne, accompagnamento nel periodo della sofferenza: quando stai male e ti viene a trovare una persona della parrocchia, non ti curi che sia luterana o cattolica; attraversare il dolore con una speranza evangelica, poter respirare la comunione tra confessioni cristiane: sono doni preziosi. Da qui, da una relazionalità buona si può ripartire. Oltre piccole lotte di potere che troppo spesso di radicano nelle parrocchie.
Spendi alcune parole sul tema, complesso ma decisivo, dell’iniziazione cristiana. Sfida attorno al quale oggi le comunità spendono moltissime risorse (per lo più femminili) con scarsi risultati. Cosa proponi?
Fermiamo tutto per un anno, due anni. E dedichiamo questo tempo alla riflessione, al discernimento: il percorso classico, ancora scandito dai ritmi scolastici, ancora uguale per tutti, non funziona più. C’è una grande maggioranza di bambini che sente per la prima volta parlare di Gesù di Nazareth quando comincia il percorso; c’è una piccola minoranza che lo ha incontrato da sempre in famiglia. Ha senso avere una proposta uguale per tutti? Sono anche scettico sul tentativo di riagganciare i genitori attraverso i bambini: per le famiglie l’iniziazione cristiana è spesso un impegno in più da cui liberarsi il prima possibile. Servono cammini personalizzati, più snelli, più umani, più relazionali, esperienziali, senza perdere il coraggio di qualche proposta forte e di qualche assenza. Ma prima fermiamoci e chiediamoci cosa dismettere. Un’ultima cosa: la catechesi è spesso affidata alla generosità delle donne; ma siamo capaci di formarle davvero, per poi dare loro le chiavi delle nostre parrocchie?
Oltre la territorialità e verso gli esiliati. Due scelte di fondo che potrebbero definire la postura della comunità cristiana del tempo prossimo…
Nel tempo della mobilità diffusa, soprattutto per giovani e adulti, ha poco senso avere un’istituzione ancora così radicata nel territorio come la parrocchia, frutto di una società agricola, premoderna, stanziale. La territorialità può essere superata a favore della relazionalità: ognuno cerca relazioni buone, generative, che sappiano far risuonare il Vangelo. Non è un male cercarle, e quindi cercare luoghi in cui questa relazioni si possono trovare; evitando autoreferenzialità ed elitarismo, ma anche evitando di stare in luoghi che spengono la vita. E poi la parrocchia, in comunione con altre parrocchie, dovrebbe davvero domandarsi come recuperare il rapporto con chi, come dicevo prima, ha abbandonato la parrocchia perché non sentiva in essa di trovare vita evangelica, in forme di autoesilio che hanno salvato la fede; peggio ancora quando l’esilio è stato imposto a quanti non si sono allineati alle linee pastorali dominanti in una comunità. A queste donne, a questi uomini possiamo dare ospitalità? Possiamo vedere in loro risorse e non problemi, possiamo credere che portino aria fresca? Ogni comunità dovrebbe perdere il sonno sul tema degli esiliati.
Ci dai alcune linee utili per immaginare una proposta spirituale adatta al tempo e capace, come scrivi nell’ultimo capitolo, “di prendere parte del quotidiano”?
Provo a tracciare alcune linee: avere uno sguardo di speranza sul mondo, mantenendo un senso critico evangelico, significa coltivare anche altre logiche rispetto a quelle che in Occidente vanno per la maggiore: il rispetto per l’altro, la cura della relazione, la cultura della pace al posto dell’aggressività e della violenza, anche verbale. Avvertire la tentazione di fughe settarie, autoreferenziali, per spendersi nel mondo, sapendo che anche chi crede diversamente o non crede può arricchire la mia umanità e la mia fede. Tentare nuove forme di preghiera o rianimarne di antiche, come la preghiera del silenzio, la meditazione sulla Parola, la spiritualità del creato e del cammino. Scoprire la spiritualità del corpo. Porre la morale all’ultimo posto e non al primo, mettere le regole in fondo e non davanti. Andare oltre il criterio “viene a Messa / non viene a Messa” per cogliere semi cristiani ovunque. Cercare la fraternità e la sororità; custodire il tempo, oltre l’efficientismo. Mi pare che queste linee possano offrire vie per un cristianesimo più umano, e quindi in cui ancora possa rivelarsi il Risorto.