XXVIII Domenica
Tempo ordinario – Anno C
Luca 17, 11-19

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Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
(Letture: 2 Re 5,14-17; Salmo 97; 2 Timoteo 2,8-13; Luca 17, 11-19)


«La tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). È il punto di arrivo del Vangelo odierno, che ci mostra il cammino della fede. In questo percorso di fede vediamo tre tappe, segnalate dai lebbrosi guariti, i quali invocanocamminano e ringraziano.

Anzitutto, invocare. I lebbrosi si trovavano in una condizione terribile, non solo per la malattia che, diffusa ancora oggi, va combattuta con tutti gli sforzi, ma per l’esclusione sociale. Al tempo di Gesù erano ritenuti immondi e in quanto tali dovevano stare isolati, in disparte (cfr Lv 13,46). Vediamo infatti che, quando vanno da Gesù, “si fermano a distanza” (cfr Lc 17,12). Però, anche se la loro condizione li mette da parte, invocano Gesù, dice il Vangelo, «ad alta voce» (v. 13). Non si lasciano paralizzare dalle esclusioni degli uomini e gridano a Dio, che non esclude nessuno. Ecco come si accorciano le distanze, come ci si rialza dalla solitudine: non chiudendosi in sé stessi e nei propri rimpianti, non pensando ai giudizi degli altri, ma invocando il Signore, perché il Signore ascolta il grido di chi è solo.

Come quei lebbrosi, anche noi abbiamo bisogno di guarigione, tutti. Abbiamo bisogno di essere risanati dalla sfiducia in noi stessi, nella vita, nel futuro; da molte paure; dai vizi di cui siamo schiavi; da tante chiusure, dipendenze e attaccamenti: al gioco, ai soldi, alla televisione, al cellulare, al giudizio degli altri. Il Signore libera e guarisce il cuore, se lo invochiamo, se gli diciamo: “Signore, io credo che puoi risanarmi; guariscimi dalle mie chiusure, liberami dal male e dalla paura, Gesù”. I lebbrosi sono i primi, in questo Vangelo, a invocare il nome di Gesù. Poi lo faranno anche un cieco e un malfattore sulla croce: gente bisognosa invoca il nome di Gesù, che significa Dio salva. Chiamano Dio per nome, in modo diretto, spontaneo. Chiamare per nome è segno di confidenza, e al Signore piace. La fede cresce così, con l’invocazione fiduciosa, portando a Gesù quel che siamo, a cuore aperto, senza nascondere le nostre miserie. Invochiamo con fiducia ogni giorno il nome di Gesù: Dio salva. Ripetiamolo: è pregare, dire “Gesù” è pregare. La preghiera è la porta della fede, la preghiera è la medicina del cuore.

La seconda parola è camminare. È la seconda tappa. Nel breve Vangelo di oggi compaiono una decina di verbi di movimento. Ma a colpire è soprattutto il fatto che i lebbrosi non vengono guariti quando stanno fermi davanti a Gesù, ma dopo, mentre camminano: «Mentre essi andavano furono purificati», dice il Vangelo (v. 14). Vengono guariti andando a Gerusalemme, cioè mentre affrontano un cammino in salita. È nel cammino della vita che si viene purificati, un cammino che è spesso in salita, perché conduce verso l’alto. La fede richiede un cammino, un’uscita, fa miracoli se usciamo dalle nostre certezze accomodanti, se lasciamo i nostri porti rassicuranti, i nostri nidi confortevoli. La fede aumenta col dono e cresce col rischio. La fede procede quando andiamo avanti equipaggiati di fiducia in Dio. La fede si fa strada attraverso passi umili e concreti, come umili e concreti furono il cammino dei lebbrosi e il bagno nel fiume Giordano di Naaman (cfr 2 Re 5,14-17). È così anche per noi: avanziamo nella fede con l’amore umile e concreto, con la pazienza quotidiana, invocando Gesù e andando avanti.

C’è un altro aspetto interessante nel cammino dei lebbrosi: si muovono insieme. «Andavano» e «furono purificati», dice il Vangelo (v. 14), sempre al plurale: la fede è anche camminare insieme, mai da soli. Però, una volta guariti, nove vanno per conto loro e solo uno torna a ringraziare. Gesù allora esprime tutta la sua amarezza: «E gli altri dove sono?» (v. 17). Sembra quasi che chieda conto degli altri nove all’unico che è tornato. È vero, è compito nostro – di noi che siamo qui a “fare Eucaristia”, cioè a ringraziare –, è compito nostro prenderci cura di chi ha smesso di camminare, di chi ha perso la strada: siamo custodi dei fratelli lontani, tutti noi! Siamo intercessori per loro, siamo responsabili per loro, chiamati cioè a rispondere di loro, a prenderli a cuore. Vuoi crescere nella fede? Tu, che sei oggi qui, vuoi crescere nella fede? Prenditi cura di un fratello lontano, di una sorella lontana.

Invocare, camminare e ringraziare: è l’ultima tappaSolo a quello che ringrazia Gesù dice: «La tua fede ti ha salvato» (v. 19). Non è solo sano, è anche salvo. Questo ci dice che il punto di arrivo non è la salute, non è lo stare bene, ma l’incontro con Gesù. La salvezza non è bere un bicchiere d’acqua per stare in forma, è andare alla sorgente, che è Gesù. Solo Lui libera dal male, e guarisce il cuore, solo l’incontro con Lui salva, rende la vita piena e bella. Quando s’incontra Gesù nasce spontaneo il “grazie”, perché si scopre la cosa più importante della vita: non ricevere una grazia o risolvere un guaio, ma abbracciare il Signore della vita. E questa è la cosa più importante della vita: abbracciare il Signore della vita.

È bello vedere che quell’uomo guarito, che era un samaritano, esprime la gioia con tutto sé stesso: loda Dio a gran voce, si prostra, ringrazia (cfr vv. 15-16). Il culmine del cammino di fede è vivere rendendo grazie. Possiamo domandarci: noi che abbiamo fede, viviamo le giornate come un peso da subire o come una lode da offrire? Rimaniamo centrati su noi stessi in attesa di chiedere la prossima grazia o troviamo la nostra gioia nel rendere grazie? Quando ringraziamo, il Padre si commuove e riversa su di noi lo Spirito Santo. Ringraziare non è questione di cortesia, di galateo, è questione di fede. Un cuore che ringrazia rimane giovane. Dire: “Grazie, Signore” al risveglio, durante la giornata, prima di coricarsi è l’antidoto all’invecchiamento del cuore, perché il cuore invecchia e si abitua male. Così anche in famiglia, tra sposi: ricordarsi di dire grazie. Grazie è la parola più semplice e benefica.

13/10/2019

Gesù ha «fretta» di guarire l’uomo
Ermes Ronchi

Gesù è in cammino. E come lungo ogni cammino, la lentezza favorisce gli incontri, l’attenzione trasforma ogni incontro in evento.
Ed ecco che dieci lebbrosi, una comunità senza speranza, un nodo di dolore, all’improvviso si pone di traverso sulla strada dei dodici.
E Gesù appena li vede… notiamo: subito, senza aspettare un secondo di più, “appena li vede”, prima ancora di sentire il loro lamento. Gesù ha l’ansia di guarire, il suo amore ha fretta, è amore preveniente, amore che anticipa, pastore che sfida il deserto per una pecora che non c’è più, padre che corre incontro mentre il figlio cammina…
Davanti al dolore dell’uomo, appaiono i tre verbi dell’agire di Cristo: vedere, fermarsi, toccare, anche se solo con la carezza della parola.
Davanti al dolore scatta come un’urgenza, una fretta di bene: non devono soffrire neanche un secondo di più. E mi ricorda un verso bellissimo di Ian Twardowski: affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto! L’amore vero ha sempre fretta. È sempre in ritardo sulla fame di abbracci o di salute.
Andate… E mentre andavano, furono purificati. Sono purificati non quando arrivano dai sacerdoti, ma mentre camminano. La guarigione comincia con il primo passo compiuto credendo alla parola di Gesù. La vita guarisce non perché raggiunge la meta, ma quando salpa, quando avvia processi e inizia percorsi.
Nove lebbrosi guariscono e non sappiamo più nulla di loro, probabilmente scompaiono dentro il vortice della loro inattesa felicità, sequestrati dagli abbracci ritrovati, ridiventati persone libere e normali.
Invece un samaritano, uno straniero, l’ultimo della fila, si vede guarito, si ferma, si gira, torna indietro, perché intuisce che la salute non viene dai sacerdoti, ma da Gesù; non dalla osservanza di regole e riti, ma dal contatto con la persona di quel rabbi. Non compie nessun gesto eclatante: torna, canta, lo stringe, dice un semplice grazie, ma contagia di gioia.
Ancora una volta il Vangelo propone un samaritano, uno straniero, un eretico come modello di fede: la tua fede ti ha salvato. La fede che salva non è una professione verbale, non si compone di formule ma di gesti pieni di cuore: il ritorno, il grido di gioia, l’abbraccio che stringe i piedi di Gesù.
Il centro della narrazione è la fede che salva. Tutti e dieci sono guariti. Tutti e dieci hanno creduto alla parola, si sono fidati e si sono messi in cammino. Ma uno solo è salvato. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, rinasce una pelle di primavera. Nella salvezza ritrovi la sorgente, tu entri in Dio e Dio entra in te, e fiorisce tutta intera la tua vita.

Avvenire 2016

Stranieri e grati
Clarisse di Sant’Agata

La manifestazione della fede attraverso il rendimento di grazie è l’elemento che non solo caratterizza la pagina di Vangelo che la Chiesa ci dona in questa Domenica, ma attraversa tutte le letture, quasi ad indicare come la gratitudine, che fiorisce spesso tra le ferite della vicenda umana, sia un lineamento fondamentale dell’essere cristiano.

“Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. I lebbrosi sono per eccellenza coloro che la società costringe all’isolamento a causa della loro malattia, eppure questi dieci lebbrosi cercano una relazione personale con Gesù, si affidano ad un “tu”. La reazione di Gesù davanti a quegli uomini, che gridano lungo la strada, non si lascia attendere e lui li vede, entra in questa relazione supplicata. In Lc il “vedere” è legato alla compassione, diremmo ad una compassione viscerale che coinvolge totalmente. In questo movimento di incontro di Gesù con gli altri, in cui lui per primo si spoglia, emerge qualcosa dell’amore di Dio per le creature umane.

«Andate a presentarvi ai sacerdoti». E’ interessante che Gesù non guarisce prima i lebbrosi e poi li manda, ma li invia ai sacerdoti ancora ammalati. C’è un invito a partire, ma quando ancora sono lebbrosi. E’ un comando strano perché, secondo la legge, ci si poteva presentare ai sacerdoti solo quando si era guariti, eppure loro, ancora lebbrosi, partono. Partono con una speranza grande nelle parole di Gesù. Mentre vanno vengono purificati. Una guarigione che parte da un atto di obbedienza. Questi non vengono guariti da alcun gesto terapeutico di Gesù, ma si fidano delle sue parole e si mettono in cammino. Gesù riconosce in essi la fiducia che sostiene la loro volontà di guarigione: a loro basta aver sentito parlare di Gesù per fidarsi di Lui e il Signore sostiene questa fiducia. Il ministero di guarigione avviene nel riconoscere, sostenere e accrescere nell’altro la fiducia nella vita, l’amore per essa, che passa per la ricerca della relazione.

“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano”. Ci può essere una guarigione, ma può non cambiare niente più nella nostra vita, non guarisce necessariamente il cuore. Dieci sono sanati, ma uno solo torna perché capisce che non basta la guarigione, ma bisogna entrare in una relazione nuova. Oltre ad essere guarito vuole godere anche della gioia di poter guardare il volto di Colui che gli ha ridato pienezza di vita. La lode è amore che risponde all’amore: all’amore di Dio riconosciuto in eventi dell’esistenza si risponde lodando, riconoscendo l’Altro. E’ uno straniero che torna a ringraziare, che ha capito cosa è accaduto: dieci sono sanati, ma uno solo sarà salvato. Dieci hanno avuto fiducia, ma uno solo anche fede poiché la vera fede è riconoscere chi è Gesù. Lo straniero è colui che sente che non gli spetta nulla e coglie che niente gli è dovuto. Per essere salvati forse bisogna rimanere stranieri, lasciar sgorgare il ringraziamento perché si è consapevoli che nulla ci è dovuto. Mantenerci nello stupore davanti a tutte le grazie che Dio dona alla nostra vita perché è grazia la vita, il corpo che abbiamo, la possibilità di vivere la fede, le relazioni. Mantenersi stranieri per non smettere di imparare dalla vita, dai fratelli, sorpresi e grati per ciò che abbiamo. Tutto è grazia, tutto è dono e a noi è dato non perché ce lo meritiamo, ma perché l’amore di Dio, la sua compassione sono grandi. Il camminare della fede si manifesta come ritorno reso possibile dalla visione di sé trasformato. Come l’azione di Gesù parte dal vedere, così l’azione dell’ex-lebbroso parte dal vedersi come Gesù lo ha visto. Gesù lo ha avvolto di compassione: è una creatura degna di amore, non solo un malato ripugnante; lo sguardo di Gesù non lo ha bloccato in questa situazione ma gli ha offerto un orizzonte altro di comprensione di sé che lo ha rimesso in cammino.

C’è poi un “dove” che chiede Gesù (“E gli altri nove dove sono?”) che ci dovrebbe far fermare e chiederci dove siamo noi: dentro quella gratitudine indispensabile per conoscere la salvezza o lontani a goderci la nostra guarigione senza aprirci ad una nuova relazione. La fede è un cammino che può condurre dalla supplica alla lode, dal bisogno alla libertà tramite l’incontro con Gesù e la sua parola. Quest’uomo ritorna a Gesù e Gesù lo rimette in cammino sulle sue tracce: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”. La salvezza evangelica avviene quando il cuore si apre alla conoscenza di Cristo: una conoscenza che rinnova e pone in cammino non più verso un luogo di isolamento e separazione dagli uomini, ma sulle strade dei fratelli, testimoni di quell’amore che gratuitamente salva.

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Rendere gloria a Dio attraverso Gesù
Enzo Bianchi

Gesù demolisce molte certezze di noi cristiani asserragliati in chiese o comunità. Fuori, fuori, anche fuori c’è un operare di Cristo Signore che trova più ricezione di quanta ne abbia tra noi che ci sentiamo dentro. Dio non si lascia conoscere solo nelle istituzioni ecclesiastiche o cultuali, ma si fa conoscere soprattutto in Gesù: grazie a lui, attraverso di lui solo si rende gloria a Dio.

Per la terza volta Luca attesta che Gesù è in cammino verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51; 13,22) e precisa che, invece di continuare la strada verso il sud, tocca la frontiera tra Galilea e Samaria per scendere nella valle del Giordano. Ma ecco un incontro inatteso: dieci lebbrosi, scarti della società, emarginati e condannati alla segregazione come impuri e maledetti da Dio e dagli uomini, vanno incontro a Gesù mentre egli sta per entrare in un villaggio. Sono uomini che, secondo la Legge, hanno il peccato scritto sulla pelle; peccato che, consumato, corrompe tutto il corpo, tutta la persona, facendone un membro rigettato dalla comunità credente.

Per noi è difficile comprendere la condizione del lebbroso in quel tempo, perché oggi abbiamo una concezione diversa della malattia e, soprattutto, le malattie della pelle ci fanno forse ribrezzo ma non ci spaventano più come segno della presenza del Maligno. Nella Scrittura c’era una legge precisa per affermare l’immunità dalla lebbra nella vita quotidiana (cf. Lv 13-14): il sacerdote, esaminata la piaga sulla pelle del malato, lo dichiarava impuro. Di conseguenza, il lebbroso doveva portare vesti strappate, tenere il capo scoperto, coprirsi con un velo la barba. Quando si muoveva doveva gridare: “Impuro! Impuro!”, e restarsene solo, abitando fuori del villaggio (cf. Lv 13,45-46). Il lebbroso, dunque, era un vivo-morto, come uno a cui il padre aveva sputato in faccia (cf. Nm 12,14)…

Nel vangelo secondo Luca abbiamo già letto un incontro tra Gesù e un lebbroso: supplicato da quest’ultimo, Gesù aveva steso la mano e toccato il suo corpo piagato, guarendolo (cf. Lc 5,12-16). Qui invece i lebbrosi sono un gruppetto e, stando lontani, senza avvicinarsi a lui, gli gridano: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. È un grido semplice e breve, che mette l’accento sulla miseria di questi uomini. È un grido ripetuto tante volte nei salmi, come invocazione al Signore Dio. Il Signore, che è misericordioso e compassionevole (cf. Es 34,6), nella sua potenza può compiere ciò che i lebbrosi possono solo desiderare ma non realizzare. Questa invocazione è come una lancia, una giaculatoria molto generale, non precisa nei contenuti, ma efficace lamento di chi soffre e chiede aiuto, consolazione.

Gesù vede questi lebbrosi, con uno sguardo che li discerne tutti e ciascuno personalmente e, mosso a compassione, dà loro un ordine che può sembrare enigmatico, anche assurdo: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”, coloro che erano incaricati dalla Legge di diagnosticare la lebbra e attestare la guarigione da essa. A prima vista, dunque, dieci lebbrosi non sono esauditi, anzi sembrerebbe che Gesù li rimandi ai sacerdoti per manifestare la propria incompetenza. Eppure essi obbediscono a Gesù e realizzano ciò che ha loro chiesto. Egli infatti non li manda via da sé ma, accogliendo la loro fiducia iniziale che li aveva spinti all’invocazione, li invita a una fiducia che può contare sulla sua parola. Ed ecco che “mentre essi andavano, furono purificati”: la loro lebbra sparisce ed essi diventano puri. Certamente Luca, nel raccontare questo evento, ricorda la guarigione dalla lebbra di Naaman il siro da parte di Eliseo: il profeta, restando lontano, gli ordina attraverso un messaggero di andare a bagnarsi nel Giordano, ed egli dopo un iniziale rifiuto acconsente e così viene guarito (cf. 2Re 5,1-14; Lc 4,27).

Qui è la fede di questi uomini, la loro adesione a Gesù che causa la guarigione. Potevano sentirsi delusi dalla parola di Gesù, il quale non li tocca, non compie nessun gesto, non pronuncia nessuna parola di guarigione, ma li invita solo a dare seguito alla loro fiducia, fino ad andare dai sacerdoti che avevano l’autorità di dichiararli guariti. La fede resta veramente un mistero e non sempre sappiamo discernerla nella sua portata, nella sua qualità, non sappiamo giudicarla né misurarla: negli altri, ma anche in noi che, secondo l’Apostolo, da discepoli cristiani dovremmo avere il coraggio di esaminarci, ponendoci la domanda: “Abbiamo la fede sì o no?” (cf. 2Cor 13,5). Sì, la fede, questa adesione al Signore Gesù Cristo che come dono è deposta in noi, ma che noi dobbiamo custodire, esercitare, rinnovare, sostenere, confermare, resta davvero un mistero. Eppure – come dichiara Gesù alla fine di questo brano – è la fede che ci salva, e la sua affermazione: “La tua fede ti ha salvato”, presente più volte nei vangeli (Lc 7,50; 17,19; 18,42; Mc 5,34 e par.; 10,52), dovrebbe ricordarcelo.

Come altre narrazioni di miracoli, anche questo racconto potrebbe finire qui e invece prosegue. Tra quei dieci uomini lebbrosi guariti dalla malattia fisica, uno era samaritano, a differenza degli altri nove che erano giudei, dunque membri del popolo di Dio, santi per vocazione (cf. Lv 11,44-45; 19,2, ecc.). I samaritani erano ritenuti scismatici ed eretici, il loro culto era considerato illegittimo, erano disprezzati come gruppo. Ma proprio uno di essi, annoverato tra “quelli di fuori”, tra “i lontani”, non appena si vede guarito torna indietro e comprende che, essendo stato purificato dalla sua fede in Gesù, deve testimoniarlo, deve mostrargli gratitudine. Egli riconosce il peso, la gloria della presenza di Dio in Gesù, la grida a piena voce e si getta davanti a Gesù con la faccia a terra, come davanti al Signore. In tal modo mostra che la fede che lo aveva guarito è anche quella che lo salva.

Gesù però constata, con una serie di domande: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. Egli è deluso non perché gli altri non sono tornati a ringraziarlo, ma perché il loro cammino di fede si è arrestato alla guarigione, senza accogliere la salvezza, cioè la grazia del Signore: costoro sono guariti ma non salvati. Non sembri oziosa questa differenza: guarire nel corpo è certamente una vittoria della vita sulla malattia e sulla morte, e Dio se ne rallegra, ma questo non significa entrare nella salvezza che è guarigione, restituzione all’integrità di tutta la persona, nella sua unità di corpo, mente e spirito. Noi cristiani dovremmo essere molto attenti e vigilanti di fronte a guarigioni e miracoli: questi avvengono, a dire il vero anche in contesti non cristiani, ma non sono le guarigioni e i miracoli che danno la salvezza, che rendono i malati figli del Regno e quindi discepoli di Gesù. La guarigione fisica non significa e non coincide con la guarigione totale, quella della vita più intima, la vita spirituale che ciascuno di noi, con più o meno consapevolezza, vive.

Anche questa volta (cf. Lc 4,23-27; 7,1-10) chi accede allo spazio dei figli del Regno è uno straniero, un samaritano, uno fuori dal popolo di Dio, dal recinto ortodosso. In questo racconto Gesù demolisce molte certezze di noi cristiani asserragliati in chiese o comunità. Fuori, fuori, anche fuori c’è un operare di Cristo Signore che trova più ricezione di quanta ne abbia tra noi che ci sentiamo dentro. Dio non si lascia conoscere solo nelle istituzioni ecclesiastiche o cultuali, ma si fa conoscere soprattutto in Gesù: grazie a lui, attraverso di lui solo si rende gloria a Dio.

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Con un miracolo Gesù guarisce e purifica dieci lebbrosi, anche se soltanto uno -un samaritano, uno straniero!– ritorna a rendere lode a Dio e a dire grazie a Gesù (v. 18). Il primo evidente messaggio del Vangelo di oggi riguarda le buone maniere: impariamo come dire “grazie” a una persona che ci fa un favore o compie una gentilezza. In varie occasioni Papa Francesco ha dato degli insegnamenti pastorali partendo da tre parole semplici e comuni: Grazie! – Scusi! – Per favore! Ognuno di noi, nella sua esperienza quotidiana, sa quanto sono importanti queste tre parole nella vita di famiglia e nei rapporti sociali. La gratitudine è il contrario dello scambio commerciale, fa entrare in una relazione di amore.

Spesso pensiamo che tutto ci sia dovuto; anche da Dio. Domenica scorsa abbiamo visto come il dono prezioso della fede richiede chiaramente l’ossequio della nostra gratitudine verso Dio, con un impegno missionario, condividendo la nostra fede, sostenendo il lavoro missionario della Chiesa.

Ma l’insegnamento del Vangelo odierno va ben oltre una lezione di galateo circa il dovere della gratitudine. Il miracolo di Gesù è a favore delle persone più escluse dalla società civile e religiosa. La legislazione del tempo era rigidissima e minuziosa riguardo ai lebbrosi (Lev 13-14), considerati impuri, maledetti, castigati da Dio con il peggior flagello. Erano obbligati a vivere separati dalla famiglia, fuori dei villaggi, e a gridare ai passanti di tenersi lontani da loro. Gesù, con il suo miracolo, capovolge quella mentalità escludente: nei tempi nuovi la salvezza di Dio è offerta a tutti, senza alcuna esclusione di persone. I lebbrosi non sono dei maledetti. Anzi la loro guarigione diventa segno della presenza del Regno: il fatto che “i lebbrosi sono purificati” (Mt 11,5; Lc 7,22) è un chiaro segno che il Messia è presente e all’opera, come Gesù segnala agli inviati dell’amico Giovanni Battista in carcere. Fin dall’inizio della sua vita pubblica, Gesù sente compassione, tende la mano, tocca un lebbroso e lo guarisce (Mc 1,40-42). Il progetto di Dio non è mai escludente, ma inclusivo: è comunione, aggregazione, condivisione. Questa apertura si manifesta anche nella guarigione di un lebbroso straniero, Naamàn (I lettura), comandante dell’esercito del re di Aram (Siria).

Dei dieci lebbrosi, nove erano giudei e uno era samaritano. Tutti sono ugualmente guariti da Gesù, ma non tutti ottengono la salvezza piena. “L’episodio in esame ci dice che non sempre la guarigione fisica diviene salvezza completa e definitiva… I nove giudei continuano il loro itinerario verso il tempio per reintegrarsi nella vita civile e religiosa di Israele… Diversamente si comporta l’unico samaritano del gruppo. Egli torna indietro da solo per ringraziare il Maestro, perché comprende che in Gesù può trovare qualcosa di nuovo e diverso da ciò che gli offre la sua vecchia comunità di appartenenza… A lui Gesù offre una salvezza maggiore della semplice salute fisica: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (v. 19)… Il samaritano non si è affrettato verso il tempio (come gli altri nove), ma è tornato da Gesù, «a rendere gloria a Dio» (v. 18), dimostrando, in tal modo, di comprendere che il Dio che salva non si incontra e non si onora più nel tempio, bensì unendosi a Cristo” (Corrado Ginami). Lo scrittore e poeta bulgaro Elias Canettidiceva: “La cosa più dura per chi non crede in Dio, è non avere nessuno a cui poter dire grazie”. Quel lebbroso che torna da Gesù ci insegna che a volte la vera fede nasce da un gesto semplice, da un “grazie” sussurrato timidamente ma con amore.

Attaccarsi a Cristo, seguire la via nuova da Lui inaugurata, è la calda esortazione di S. Paolo al discepolo Timoteo (II lettura): “Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti” (v. 8). Paolo gli è fedele, anche se gli tocca soffrire in catene e Lo annuncia con fiducia, nella certezza che “la Parola di Dio non è incatenata” (v. 9). Ci si può fidare di Lui fino a dare la vita, perché “Lui rimaner fedele” (v. 11-13). A quel livello di maturità spirituale giunse anche San Daniele Comboni, che celebriamo il 10 ottobre. Ai futuri missionari egli additava con insistenza l’ideale di Cristo crocifisso-risorto, esortandoli a “tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati di offrirsi a perder tutto, e morire per Lui, e con Lui… esibendosi anche al martirio” (Regole del 1871).

Gesù ha cercato gli impuri, eretici, esclusi, emarginati: è venuto per “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52). Sul suo esempio, i cristiani sono chiamati ad essere persone di comunione verso chiunque; uomini e donne che ripudiano qualsiasi motivazione e prassi escludente; persone che scelgono le vie della comunione, solidarietà, inclusione; gente che opera all’interno della comunità per alleviare la sofferenza di quanti sono di fatto impediti o esclusi in qualche ambito della vita cristiana e civile, da qualunque parte vengano le restrizioni. La missione sui passi di Gesù ci impegna a lavorare per la più piena comunione di tutti con tutti!

Possiamo correre il pericolo di ridurre il messaggio del Vangelo di oggi ad una lezione di galateo: bisogna ricordarsi di dire grazie a chi ci ha beneficato.

Il lebbroso samaritano è additato a volte a modello di riconoscenza e nulla più. Interpretata in questo modo, la scena con cui si chiude il racconto – un gruppo di persone inspiegabilmente scortesi e un Gesù rabbuiato – comunica tristezza più che gioia, mentre da ogni pagina del Vangelo noi ci attendiamo soltanto gioia. Il tema non è la riconoscenza.

Gesù rimane sorpreso: un samaritano – eretico, miscredente – ha avuto un’intuizione teologica che nove giudei, figli del suo popolo, educati nella fede e conoscitori delle Scritture, non hanno avuto.

Lungo il cammino, tutti e dieci si sono resi conto che Gesù era un guaritore. La grande notizia doveva essere subito annunciata alle guide spirituali d’Israele: Dio ha visitato il suo popolo, ha inviato un profeta pari a Eliseo. Fin qui ci sono arrivati tutti e dieci.

Solo nella mente e nel cuore del samaritano è brillata una luce nuova: ha capito che Gesù era più che un guaritore. Nel suo gesto di salvezza ha colto il messaggio di Dio. Lui, l’eretico che non credeva nei profeti, ha sorprendentemente intuito, per primo, che Dio ha inviato colui che i profeti hanno annunciato, colui che apre gli occhi ai ciechi e le orecchie ai sordi, che fa camminare gli storpi, risuscita i morti e sana i lebbrosi (Lc 7,22).

È stato il primo a intuire che non è vero che Dio sta lontano dai lebbrosi, che li sfugge, che li rigetta.

Ha intuito cosa doveva dire a coloro che istituzionalizzano, in nome di Dio,  le emarginazioni dei lebbrosi: fatela finita con la religione che esclude, che giudica, che condanna le persone impure! In Gesù, il Signore è apparso in mezzo a loro, le tocca e le risana.

Il messaggio di gioia è questo: gli impuri, gli eretici, gli emarginati non solo non vengono allontanati da Dio, ma giungono a lui e a Cristo prima e in modo più autentico degli altri.

Prima Lettura (2 Re 5,14-17)

In quei giorni, 14 Naaman Siro, scese e si lavò nel Giordano sette volte, secondo la parola dell’uomo di Dio, e la sua carne ridivenne come la carne di un giovinetto; egli era guarito.
15 Tornò con tutto il seguito dall’uomo di Dio; entrò e si presentò a lui dicendo: “Ebbene, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”. Ora accetta un dono dal tuo servo”. 16 Quegli disse: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò”. Nàaman insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
17 Allora Nàaman disse: “Se è no, almeno sia permesso al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al Signore.

L’antefatto: siamo nella seconda metà del IX secolo a.C. Damasco ha esteso il suo dominio sulla maggior parte della Siria e della Palestina e il personaggio più in vista e stimato del regno è Nàaman, il comandante in capo dell’esercito. Costui sarebbe l’uomo più felice e fortunato se non fosse affetto dalla lebbra, la terribile malattia ritenuta uno dei peggiori castighi di Dio.

Un giorno una ragazza d’Israele, rapita durante una razzia, gli rivela che nella sua terra un profeta opera guarigioni straordinarie. È Eliseo, il discepolo di Elia.

Nàaman va a trovarlo, ma quando sta per giungere alla casa dell’uomo di Dio, gli viene incontro un suo servo che gli ingiunge di andare a lavarsi sette volte nell’acqua del fiume Giordano.

Nàaman si indigna. Si aspettava da Eliseo il compimento di qualche rito, un’invocazione al suo Dio, l’imposizione delle mani. Niente di tutto questo, Eliseo non si è neppure degnato di venirlo a salutare.

Imprecando, sta per allontanarsi quando i suoi servi gli si avvicinano e gli fanno un ragionamento elementare: se il profeta ti avesse ordinato qualcosa di difficile, certo l’avresti fatto. Perché non mettere in pratica un comando tanto semplice?

A questo punto della storia si inserisce la nostra lettura: Nàaman scende al Giordano, si lava sette volte e la sua carne diviene come quella di un giovinetto; è guarito (v.14).

Torna indietro per ringraziare Eliseo con un regalo, ma questi si rifiuta di riceverlo: non vuole che sorgano equivoci. La guarigione non deve essere attribuita a lui, ma al Signore.

Nàaman capisce ed esclama: “Ora sono convinto che su tutta la terra non c’è che il Dio d’Israele” (vv.15-16), d’ora in poi non adorerò altri dèi all’infuori del Signore. Per questo chiede il permesso di portare con sé un po’ di “terra santa” per costruire, nella sua città, un altare al Signore (v.17).

Nàaman è curato non solo dalla lebbra del corpo, ma anche da quella dell’anima. Dal paganesimo è passato alla fede nell’unico, vero Dio. Ambedue le guarigioni gli sono state concesse gratuitamente: sono state un dono del Signore.

La lettura termina qui, ma il racconto non è finito e credo valga la pena ricordare come si è concluso il dialogo fra Eliseo e Nàaman. Questi – come abbiamo visto – ha preso la decisione di adorare il Signore tuttavia il suo cammino di fede è solo agli inizi. Si rende subito conto che ci sono delle difficoltà. Un problema morale lo inquieta, non gli lascia la coscienza tranquilla: vuole esporlo ad Eliseo, che già considera la sua guida spirituale.

Ascoltiamo la sua commovente confessione.

Nella mia terra – dice – io ho l’incombenza di accompagnare il re durante le cerimonie pagane nel tempio di Rimmòn. Quando si inginocchia davanti alla statua del dio, il sovrano si appoggia al mio braccio e anch’io mi devo prostrare. Tornando a Damasco riprenderò questo servizio e, anche se a malincuore, dovrò compiere un gesto di idolatria. Insomma, so che commetterò un peccato, ma è “inevitabile”.

Nàaman non pretende che Eliseo approvi la sua azione, chiede solo un po’ di comprensione per la sua debolezza (v.18).

Apprezziamo la sincerità con cui riconosce la sua fragilità, ma cosa rispondergli? Come mettere d’accordo la coerenza con i principi morali e la misericordia verso il peccatore?

La soluzione più facile per Eliseo sarebbe quella di trincerarsi dietro le disposizioni giuridiche, applicare freddamente le norme e – se occorre – minacciare chi si permette di ipotizzare una vita di compromessi e di incoerenze.

Ma Eliseo che è un vero pastore d’anime non si comporta in questo modo. Conosce i principi, ma sa di trovarsi di fronte a un uomo in difficoltà dal quale sarebbe insensato pretendere immediatamente la perfezione.

Ma va’ in pace! – gli dice. E possiamo immaginare che abbia accompagnato le sue parole con un sorriso, quel sorriso amico di chi ha capito le angosce e i drammi spirituali che gli sono stati confidati.

Seconda Lettura (2 Tm 2,8-13)

8 Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo, 9 a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! 10 Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
11 Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; 12 se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; 13 se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

Quando scrive la seconda lettera a Timoteo, Paolo si trova in prigione a Roma. Ha già subìto un primo processo durante il quale nessuno ha avuto il coraggio di presentarsi a testimoniare in suo favore (2 Tm 4,16). Molti amici lo hanno abbandonato o addirittura si sono schierati contro di lui (2 Tm 4,9-15). I pagani lo considerano un malfattore e i giudei un traditore.
Questa è la sorte che attende chiunque si dedichi lealmente alla causa del Vangelo!

Cosa consola l’Apostolo in questa situazione difficile? Il pensiero che anche Cristo è passato attraverso le stesse sofferenze e incomprensioni prima di entrare nella gloria del Padre. Per questo dice a Timoteo ed anche a se stesso: “Ricordati di Gesù Cristo!” (v.8). Per giungere alla salvezza è necessario percorrere il suo stesso cammino: “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui, se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (vv.11-12).

Ciò che è accaduto a Paolo e a Gesù si ripete nella vita di ogni autentico discepolo. Chi si impegna in favore della propria comunità deve mettere in conto anche le critiche, le incomprensioni e addirittura le persecuzioni, ma, pur nelle difficoltà, deve coltivare la serenità e la gioia, certo che il messaggio di amore e di pace che annuncia porterà frutti abbondanti. “La parola di Dio, infatti, non è incatenata” (v.9).

Vangelo (Lc 17,11-19)

Si diceva al tempo di Gesù: “Quattro categorie di persone sono equiparate a un morto: il povero, il lebbroso, il cieco e colui che è senza figli”.

I lebbrosi non potevano avvicinarsi ai villaggi e i luoghi in cui abitavano erano considerati impuri, come i cimiteri. Alcuni rabbini dichiaravano che, se avessero incontrato un lebbroso, lo avrebbero preso a sassate e gli avrebbero gridato: “Torna al tuo posto e non contaminare le altre persone!”.

Tutte le malattie erano ritenute un castigo per i peccati, ma la lebbra era il simbolo stesso del peccato. Dio se ne serviva – si diceva – per colpire soprattutto gli invidiosi, gli arroganti, i ladri, i responsabili di omicidi, di falsi giuramenti e di incesti.

La guarigione dalla lebbra era un miracolo paragonabile alla risurrezione di un morto, solo il Signore la poteva curare, prima però dovevano essere espiate tutte le colpe che l’avevano provocata. I lebbrosi si sentivano per questo rifiutati da tutti: dagli uomini e da Dio.

Essendo queste le consuetudini e la mentalità, si capisce la ragione per cui i dieci lebbrosi si sono fermati a distanza e, da lontano, hanno gridato: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!” (v.13).

Si noti bene: non gli chiedono la guarigione, ma solo che senta compassione, che si intenerisca di fronte alla loro condizione disperata. Forse si aspettano soltanto l’elemosina.

Gesù, appena li vede dice: “Andate a presentarvi ai sacerdoti” (v.14). La legge stabiliva che, chi guariva da questa malattia, si doveva presentare ad un sacerdote il quale, dopo le opportune verifiche, decideva se riammetterlo o no nella comunità (Lv 14,2-7). I dieci lebbrosi dunque se ne vanno e, lungo la strada, si sentono curati.

C’è qualcosa di singolare in questo miracolo: la guarigione non avviene immediatamente. La lebbra scompare in seguito, quando i malati sono lungo il cammino e questo rende l’episodio molto simile al racconto che abbiamo trovato nella prima lettura. Anche Nàaman guarisce dopo essersi allontanato da Eliseo.

Vedendosi curato, uno dei dieci lebbrosi torna indietro e, trovato il Maestro, gli si getta ai piedi per ringraziarlo.

È un samaritano.

Gesù si meraviglia che solo costui, uno straniero, abbia sentito il bisogno di rendere gloria a Dio. Lo solleva e gli dice: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”.

Questo il fatto. Quale il messaggio? Per coglierlo concentriamoci su alcuni dettagli significativi.

Notiamo anzitutto che non si parla di uno, ma di dieci lebbrosi e Luca non sottolinea questo particolare solo per dovere di cronaca.

Il numero dieci nella Bibbia ha un valore simbolico: indica la totalità (sono dieci le dita delle mani). I lebbrosi del Vangelo rappresentano dunque tutto il popolo, l’intera umanità lontana da Dio. Tutti – vuole dirci Luca – siamo lebbrosi e abbiamo bisogno di incontrare Gesù. Nessuno è puro, tutti portiamo sulla nostra pelle segni di morte che soltanto la parola di Cristo può sanare.

Chi non prende coscienza della propria condizione di peccatore finisce per ritenersi un giusto e in diritto di condannare altri all’emarginazione.

Dio non ha creato due mondi: uno per i buoni e l’altro per i malvagi, ma – sia nel presente che nel futuro – un unico mondo in cui chiama a vivere insieme tutti i suoi figli, tutti peccatori salvati dal suo amore.

Il medesimo messaggio è contenuto in un secondo particolare: la lebbra mette insieme giudei e Samaritani, unisce cioè persone che, quando sono in buona salute, si disprezzano, si odiano, si combattono. La presa di coscienza della comune disgrazia e del comune dolore li ha resi amici e solidali.

È esattamene ciò che accade nel campo spirituale: se qualcuno si ritiene giusto e perfetto, inevitabilmente innalza barriere e steccati per proteggersi dai “lebbrosi”. Chi invece si rende conto di essere egli stesso un lebbroso, non si sente superiore, non giudica, non allontana, non disprezza, si sente solidale nel bene e nel male con i fratelli.

Gesù non ha paura di essere considerato un peccatore, non è un “fariseo” che si allontana da chi è impuro. Al termine del racconto della guarigione di un lebbroso, l’evangelista Marco nota che, dopo aver steso la mano ed averlo curato, egli “non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti” (Mc 1,45). Accarezzando il lebbroso sapeva di compiere un gesto che lo avrebbe reso immondo e che per questo avrebbe dovuto allontanarsi dalla società dei puri. Lo ha accarezzato ugualmente perché aveva scelto di condividere la condizione degli emarginati, degli esclusi, dei reietti.

Anche il terzo particolare insiste sulla solidarietà fra gli uomini: i dieci lebbrosi non cercano di salvarsi ognuno per proprio conto. Vanno insieme alla ricerca di Gesù. La loro preghiera è comunitaria: “Gesù, maestro, tu che comprendi la nostra condizione, abbi pietà di noi”.

Questa invocazione è una condanna di quella pseudospiritualità individualistica e intimistica che ha predicato la ricerca della “salvezza della propria anima”. La salvezza può essere raggiunta solo assieme ai fratelli.

I grandi personaggi della Bibbia sono sempre stati solidali con il loro popolo. Azaria, il giovane dalla vita integra ed esemplare, prega: “Noi abbiamo peccato (non dice: “essi hanno peccato”), noi abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo, non abbiamo fatto quanto ci avevi ordinato per il nostro bene” (Dan 3,29-30); Mosè si rivolge al Signore dicendo: “Perdona il loro peccato, se no cancellami dal tuo libro che hai scritto” (Es 32,32) e Paolo arriva a pronunciare una frase paradossale: “Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne” (Rm 9,3).

In paradiso nessuno, nemmeno Dio, può essere felice finché anche l’ultimo degli uomini non sia liberato dalla “lebbra” che lo tiene lontano dal Signore e dai fratelli.

Un quarto particolare del racconto è un invito a riflettere sull’efficacia salvifica della parola pronunciata da Gesù. I lebbrosi lo invocano da lontano (vv.11-12). Non possono avvicinarsi a lui. Riuscirà egli a percepire il loro grido disperato? Potrà fare qualcosa in loro favore o la distanza gli impedirà di intervenire?

Questi i dubbi, i timori che angustiano non solo i dieci lebbrosi, ma anche i cristiani delle comunità di Luca – che non hanno avuto la fortuna di “avvicinarsi” materialmente al Maestro – e sono i dubbi che bloccano anche noi.

Siamo convinti che quando Gesù era vicino, quando camminava lungo le strade della Palestina, quando si poteva avvicinarlo, toccarlo, parlargli, egli prestava attenzione a tutti, ascoltava ogni richiesta di aiuto e, con la sua parola, curava ogni malattia. Ma ora che egli non è più visibilmente in questo mondo, ora che è “lontano”, egli tende l’orecchio verso di noi? Si interessa ancora della nostra “lebbra”? È capace di salvare anche “a distanza”?

La risposta che Luca dà ai suoi cristiani e a noi è semplice: non c’è distanza che possa impedire alle nostre preghiere di giungere fino a lui e non c’è situazione disperata che, con la sua parola, anche pronunciata “da lontano”, egli non possa risolvere.

La parola che cura ogni “lebbra” continua ad essere annunciata oggi e mantiene intatta la sua efficacia. Basta fidarsi, come ha fatto il lebbroso samaritano al quale Gesù riconosce: “La tua fede ti ha salvato” (v.19).

I dieci lebbrosi vengono curati lungo la strada. Come mai Gesù non li guarisce immediatamente – come è solito fare – e non li manda dai sacerdoti in seguito per la verifica prescritta dalla legge? Voleva mettere alla prova la loro riconoscenza?

A questo dettaglio dell’episodio è certamente legato un messaggio teologico. Nel NT, la vita cristiana è paragonata ad un “itinerario”, a un viaggio lungo e faticoso. La guarigione dalle “lebbre” che ci fanno sentire lontani da Dio, rifiutati dai fratelli e disprezzati dalla nostra stessa coscienza – lo sappiamo e lo verifichiamo ogni giorno – non avviene di colpo, è progressiva, richiede un’intera vita. È questo il cammino che Gesù invita a percorrere con pazienza, serenità, ottimismo, guidati in ogni passo dalla sua parola. Lungo la strada chi ha fede verificherà il prodigio: gradualmente vedrà “la sua pelle divenire come quella di un giovinetto” – come è accaduto a Nàaman.

Siamo così arrivati al punto più difficile del racconto: perché uno solo è tornato a ringraziare? Perché Gesù si è lamentato del comportamento degli altri nove quando lui stesso aveva ordinato di andare a mostrarsi ai sacerdoti? Chi ha disobbedito non è stato forse il samaritano?

Diciamolo subito: sicuramente anche gli altri nove saranno poi tornati a ringraziare. Essi sono prima andati dai sacerdoti per sbrigare le “formalità” delle verifiche ed essere riammessi alla vita comunitaria. Poi sono corsi dalle loro famiglie e sono certamente tornati da Gesù. È questa l’unica ricostruzione dei fatti che ha una logica. Allora perché Gesù si è lamentato?

Egli non parla di ringraziamenti, non si rattrista perché ha verificato una mancanza di riconoscenza. Dice che il samaritano è stato l’unico che ha dato gloria a Dio, cioè, l’unico che ha capito subito che la salvezza di Dio giunge agli uomini attraverso Gesù. È stato l’unico che ha riconosciuto non solo il bene ricevuto, ma anche l’intermediario scelto da Dio per comunicare i suoi doni. Ha voluto proclamare davanti a tutti la sua riconoscenza e la sua scoperta.

Gli altri non erano cattivi, solo non si sono resi immediatamente conto della novità. Hanno continuato a seguire i cammini tradizionali: hanno pensato che a Dio si arrivava attraverso le pratiche religiose antiche, attraverso i sacerdoti del tempio.

Gesù rimane sorpreso che la gente del suo popolo, pur abituata a leggere le Sacre Scritture ed educata dai profeti, sia stata preceduta da un samaritano nel riconoscimento del Messia di Dio.

Il fatto della guarigione dei dieci lebbrosi è riletto da Luca come una parabola, come un’immagine di quanto è accaduto al suo tempo: gli eretici, i pagani, i peccatori sono stati i primi a riconoscere in Gesù il mediatore della salvezza di Dio.

Per gentile concessione di
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