In questo momento delicatissimo dal punto di vista internazionale, le interviste del martedì di Leone XIV smorzano o alimentano gli incendi più o meno vasti diffusi nel mondo?

di Sergio Ventura
2 Ottobre 2025
Per gentile concessione di
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Qualcuno sta cercando l’escalation»: così Leone XIV, il 23 settembre, nella seconda di quelle che potremmo cominciare a definire le interviste del martedì sera a Castel Gandolfo (qui). Gli avevano posto delle domande sulle presunte «incursioni russe» settembrine e sul conseguente «riarmo necessario», ma il vescovo di Roma aveva risposto in modo più generico e diplomatico rispetto alla prima intervista, impedendo ogni speculazione giornalistica con un no comment sulle «questioni politiche» ed un invito finale a «lasciare le armi» e ad avvicinarsi al «tavolo del dialogo», confermando quanto affermato nel libro intervista Leone XIV: cittadino del mondo, missionario del XXI secolo: «non ho alcuna intenzione di immischiarmi nella politica di parte».
Si era trattato di un passo ulteriore in quell’apprendistato papale che lui stesso ha dichiarato inevitabile in questo primo periodo del pontificato. Un passo che ho giudicato positivo perché invece, nella prima intervista del 16 settembre, si era lasciato intrappolare in quelle polarizzazioni dalle quali lui stesso vorrebbe uscire. Leone XIV aveva infatti risposto a una domanda su affermazioni politiche di parte – russa («la Nato è di fatto in guerra con la Russia nel conflitto con l’Ucraina») – che erano figlie, però, di altre affermazioni politiche di parte – polacca («l’Alleanza atlantica è estranea al conflitto tra Russia ed Ucraina»). Ed aveva risposto, non con un saggio e sorridente silenzio «gravido di senso» (Udienza generale, 17 settembre), ma con parole “fuori traccia” rispetto alla domanda giornalistica («la Nato non ha cominciato nessuna guerra») ma comunque tali da trattenerlo nella prigione delle polarizzazioni (e rivelando un’opinione che altrove avrebbe forse controllato). Come se, ad un’eventuale domanda su cosa avesse pensato dell’affermazione di parte (polacca) secondo cui «l’esercitazione Zapad 2025 è una simulazione di un prossimo attacco russo al corridoio Suwalki», il Papa avesse risposto (sulla scia dei russi) che «Zapad 2025 è solo una normale esercitazione analoga a quelle che la Nato ha svolto ai confini della Russia»: seppur a ‘tifoserie invertite’ sarebbe restato ugualmente imprigionato in un pericoloso “battibecco” tra le parti in conflitto.
Purtroppo, tale apprendistato sembra essere destinato a procedere tra altri e bassi, come è avvenuto il 30 settembre nell’ultima intervista del martedì. Qui, a differenza delle volte precedenti, il vescovo di Roma è “scivolato” sulla questione palestinese. In precedenza, egli aveva sobriamente ricordato (qui) che lo Stato del Vaticano già dal 2015 riconosce lo Stato palestinese e che per Gaza la «soluzione» non può essere quella dell’esodo (vedi qui). Martedì sera, però, egli ha affermato che il piano di Trump per Gaza «sembra realista», con «elementi molto interessanti», al punto da sperare che Hamas accetti. Ora, come è possibile in sole ventiquattro ore esprimere un giudizio, peraltro positivo, su una soluzione alla tragedia di Gaza che tra gli stessi cattolici – oltre che tra gli uomini e donne di buona volontà (da cui il Concilio insegna che spesso possiamo anche imparare: GS 44) – è discussa e interpretata anche come ambigua e irrealistica per ignoranza o, addirittura, per dolo? Come non immaginare che lo stesso auspicio papale affinché il viaggio della Flotilla si concluda senza «violenza» sarebbe stato oscurato nella dialettica reale (che confonde parole di diplomazia e aiuti umanitari) dal suo giudizio sul piano di pace di Trump, che rafforza anzi l’interpretazione (scorretta) – data anche da molti cattolici – del viaggio della Flotilla quale ostacolo al piano stesso?
Per non parlare poi di quanto è stato sottaciuto dai mezzi di informazione proprio a causa di questa parte strabordante dell’intervista. Sia nel bene (secondo i pochi che l’hanno notato e rilanciato), quando in inglese Leone XIV ha valutato una vicenda interna statunitense (legata al senatore democratico Durbin e al cardinal Cupich), ricordando con equilibrio e saggezza che «dire “sono contro l’aborto” ma “a favore della pena di morte” non è davvero pro-vita, come non lo è essere “d’accordo con il trattamento disumano degli immigrati negli Stati Uniti”: sono questioni molto complesse, non so se qualcuno possieda tutta la verità su di esse, ma chiederei, prima di tutto, che ci sia un maggiore rispetto reciproco e che si cerchi insieme, sia come esseri umani sia come cattolici, (…) la via da seguire insieme come Chiesa». Sia nel male (ma qualcuno lo ha notato?), laddove in riferimento all’escalation del linguaggio statunitense ha affermato una strana e ambigua speranza – «che sia solo un modo di (…) mostrare la forza per “pressionare” e speriamo che funzioni ma che però non ci sia la guerra»: che “c’azzecca” quel speriamo che funzioni con tutto il suo recente magistero relativo alla necessità di disarmare financo le parole, proprio perché non vi sono strategie “armate” funzionali ad evitare l’escalation della guerra?
Insomma, è vero che già Francesco rilasciava interviste sull’attualità durante il ritorno in aereo dai suoi viaggi apostolici. E, quindi, si sarà immaginato nell’entourage papale che questa forma di intervista breve rilasciata da Leone XIV prosegua e rinnovi la tradizione del predecessore. Ma è altrettanto vero che già su quelle interviste, comunque strutturate e immagino in gran parte preparate, si potevano giustamente sollevare parecchie perplessità. A maggior ragione ciò vale per queste di Leone XIV, dove si vorrebbe prendere posizione velocemente e brevemente su questioni di cronaca, già complicatissime da decifrare per gli esperti, e nelle quali, anche al netto degli equivoci indicati, ci si limita spesso a ricordare che sono «difficili», «preoccupanti» e che per esse «speriamo».
Sono veramente utili? E non dannose? Io sarei dell’avviso di non proseguirle, però è anche vero che probabilmente lo Spirito soffia maggiormente sul vescovo di Roma che sul sottoscritto, per cui forse in questo momento storico è più necessario e più efficace per un mondo distratto, polarizzato e in preda alla tristezza – quando non indifferente, superficiale e disperato – sentirsi ricordare ogni settimana, con semplicità disarmante, che i fatti quotidiani della vita sono sempre «difficili» da interpretare, «preoccupanti» ma perciò ancora impregnati di «speranza». O forse i martedì di silenzio a Castel Gandolfo dovrebbero suggerire altro?