XXVII Domenica
Tempo ordinario –  Anno C
Luca  17,5-10

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
(Letture: Abacuc 1,2-3;2,2-4; Salmo 94; 2 Timoteo 1,6-8.13-14; Luca 17,5-10).


se-aveste-fede-quanto-un-granello-di-senape

Servi «inutili», che cioè non cercano il proprio utile
Ermes Ronchi

Gesù ha appena avanzato una proposta che ai discepoli pare una missione impossibile: quante volte devo perdonare? Fino a settanta volte sette. E sgorga spontanea la richiesta: accresci in noi la fede, o non ce la faremo mai. Una preghiera che Gesù non esaudisce, perché non tocca a Dio aggiungere fede, non può farlo: la fede è la libera risposta dell’uomo al corteggiamento di Dio.
E poi ne basta poca, meno di poca, per ottenere risultati impensabili: se aveste fede come un granello di senape, potrete dire a questo gelso sradicati…
Qui appare uno dei tratti tipici dei discorsi di Gesù: l’infinito rivelato dal piccolo. Gesù sceglie di parlare del mondo interiore e misterioso della fede usando le parole di tutti i giorni, rivela il volto di Dio e il venire del Regno scegliendo il registro delle briciole, del pizzico di lievito, della fogliolina di fico, del bambino in mezzo ai grandi. È la logica dell’Incarnazione che continua, quella di un Dio che da onnipotente si è fatto fragile, da eterno si è perduto dentro il fluire dei giorni.
La fede è rivelata dal più piccolo di tutti i semi e poi dalla visione grandiosa di foreste che volano verso i confini del mare. La fede è un niente che è tutto. Leggera e forte. Ha la forza di sradicare gelsi e la leggerezza di un minimo seme che si schiude nel silenzio.
Ho visto il mare riempirsi di gelsi. Ho visto imprese che sembravano impossibili: madri e padri risorgere dopo drammi atroci, disabili con occhi luminosi come stelle, un missionario discepolo del Nazzareno salvare migliaia di bambini-soldato, una piccola suora albanese rompere i tabù millenari delle caste…
Un granello: non la fede sicura e spavalda ma quella che nella sua fragilità ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria piccolezza ha ancora più fiducia nella sua forza.
Il Vangelo termina con una piccola parabola sul rapporto tra padrone e servo, chiusa da tre parole spiazzanti: quando avete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Capiamo bene, però: mai nel Vangelo è detto inutile il servizio, anzi è il nome nuovo della civiltà. Servi inutili non perché non servono a niente, ma, secondo la radice della parola, perché non cercano il proprio utile, non avanzano rivendicazioni o pretese. Loro gioia è servire la vita.
Servo è il nome che Gesù sceglie per sé; come lui sarò anch’io, perché questo è l’unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.
Inutili anche perché la forza che fa germogliare il seme non viene dalle mani del seminatore; l’energia che converte non sta nel predicatore, ma nella Parola. «Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore». (Rumi).


“Se aveste fede quanto un granello di senape…”  
Enzo Bianchi

Gli apostoli vorrebbero essere giganti della fede, ma Gesù fa loro comprendere che la fede, anche piccola, se è reale adesione a lui, è sufficiente per nutrire la relazione con lui e accogliere la salvezza. Sì, la nostra fede è sempre oligopistía, fede a breve respiro, ma basta avere in noi il seme di questa adesione alla potenza dell’amore di Dio operante in Gesù Cristo. Credere significa alla fin fine seguire Gesù: e quando lo si segue, si cammina dietro a lui, vacillando sovente, ma accogliendo l’azione con cui egli ci rialza e ci sostiene, affinché possiamo stare sempre là dove lui è.

Durante la sua salita verso Gerusalemme Gesù è interrogato, a volte invocato o pregato, a volte contestato per il suo comportamento o le sue parole. A volte Gesù si rivolge ai discepoli che lo seguono, a volte ad alcuni farisei e scribi, a volte agli “apostoli”, cioè quel gruppo ristretto di discepoli da lui resi “i Dodici” (Lc 6,13; 9,1) e inviati (questo il senso letterale di apóstoloi) ad annunciare il Vangelo, quelli che saranno anche i testimoni qualificati della sua resurrezione (cf. Lc 24,48; At 1,8.21-22).

Proprio costoro, che hanno ascoltato le esigenze “dure” proclamate da Gesù come decisive per la sua sequela (cf. Lc 9,23-26; 14,26-27), conoscendo la propria debolezza chiedono a Gesù, designato quale Kýrios, Signore della chiesa: “Aumenta la nostra fede!”. È una preghiera rivolta al Signore, a colui che con la forza dello Spirito santo che sempre abita in lui può agire sulla fede, sull’adesione del discepolo. Questa domanda rischia però di non essere compresa nella sua reale portata, perciò sarà bene riflettere sulla fiducia-adesione assolutamente necessaria per essere discepoli di Gesù. La fede, da comprendersi in primo luogo come adesione, può essere presente solo là dove c’è una relazione personale e concreta con Gesù. La fede non è un concetto di ordine intellettuale, non è posta innanzitutto in una dottrina o in una verità, né tanto meno in formule, nei dogmi. La fede non è innanzitutto un “credere che” (ad esempio che Dio esista) ma è un atto di fiducia nel Signore. Si tratta di aderire al Signore, di legarsi a lui, di mettere fiducia in lui fino ad abbandonarsi a lui in un rapporto vitale, personalissimo. La fede è riconoscere che dalla parte dell’uomo c’è debolezza, quindi non è possibile avere fede-fiducia in se stessi. Proprio per questo, soprattutto sulla bocca di Gesù, è frequente l’uso del verbo “credere” (pisteúo) e del sostantivo “fede” (pístis) in modo assoluto, senza complementi o specificazioni:

  • Credi, non temere (Lc 8,50; Mc 5,36).
  • La tua fede ti ha salvato (Lc 7,50; 17,19; 18,42; Mc 5,34 e par.; 10,52).
  • Va’, e sia fatto secondo la tua fede (Mt 8,13).
  • Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri (Mt 15,28).

Credere senza complementi, avere fede senza specificazioni è per Gesù determinante nel rapporto con Dio e con lui stesso.

Certo, la fede è un atto che si situa alla frontiera tra debolezza umana e forza che viene da Dio, forza che rende possibile proprio l’atto di fede. Si tratta di passare dall’incredulità (apistía: Mc 6,6; 9,24; 16,14; Mt 13,58) alla fede, ma questo passaggio, questa “conversione”, richiede l’invocazione a Dio e, in risposta, il suo dono, la sua grazia, che in realtà sono sempre prevenienti. È infatti difficile e faticoso per ciascuno di noi rinunciare a contare su di sé per decentrarsi e mettere al centro la parola del Signore a noi rivolta. Non si dimentichi che l’incredulità o la poca fede (oligopistía: Mt 17,20; oligópistos: Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8; Lc 12,28) denunciate da Gesù contraddistinguono la situazione del discepolo (cf. Lc 24,11.41; Mc 9,19 e par.; 16,11.16), non di chi non incontra o non ascolta Gesù. E come non stupirci di fronte al grido di Gesù: “La tua fede ti ha salvato”, emesso davanti a malati, peccatori, stranieri e pagani che, incontrandolo, gli chiedono con fede di essere da lui aiutati e salvati?

C’è un episodio, descritto con particolare cura da Marco (cf. Mc 9,14-29), ma presente anche in Luca (cf. Lc 9,37-43) e Matteo (cf. Mt 17,14-18), che può aiutarci a comprendere meglio il brano che stiamo commentando. Un padre ha un figlio indemoniato e i discepoli di Gesù non riescono a guarirlo. Scoraggiato, quando incontra Gesù, gli dice: “Se tu puoi qualcosa, avendo compassione di noi aiutaci”. E Gesù, dopo aver rimproverato i discepoli – “Generazione incredula!”; come fa Mosè in Dt 9,6; 31,27; 32,5 –, gli risponde: “Non dire: ‘Se puoi’, ma comprendi che tutto è possibile a chi crede”. Ovvero: “Se hai fede, tutto ti è possibile attraverso la fede che ti salva”. È come se Gesù gli dicesse: “Ti basta credere, avere fiducia”, cioè confidare che tutto è reso possibile da Dio per colui che crede, perché “tutto è possibile a Dio” (Mc 10,27; Gen 18,14). Allora il padre risponde: “Io credo, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità (apistía)”. Basta offrire a Gesù la propria incredulità, lasciare che sia lui a vincere i nostri dubbi, sempre presenti dove c’è la fede all’opera. E così Gesù guarisce non solo il figlio, ma anche il padre, preda della sfiducia verso la vita…

Dunque, proprio perché la fede è credere alla potenza di Gesù, non ha senso la domanda degli apostoli: “Aumenta la nostra fede”. Basta infatti – continua nel nostro brano Gesù – avere fede quanto un granello di senape per sradicare un gelso e trapiantarlo nel mare, per spostare le montagne (cf. Mc 11,22-23; Mt 17,20; 21,21). Gli apostoli sono consapevoli di avere una fede piccola; vorrebbero essere giganti della fede, ma Gesù fa loro comprendere che la fede, anche piccola, se è reale adesione a lui, è sufficiente per nutrire la relazione con lui e accogliere la salvezza. È vero, la nostra fede è sempre oligopistía, fede a breve respiro, ma basta avere in noi il seme di questa adesione alla potenza dell’amore di Dio operante in Gesù Cristo. Credere significa alla fin fine seguire Gesù: e quando lo si segue, si cammina dietro a lui, vacillando sovente, ma accogliendo l’azione con cui egli ci rialza e ci sostiene, affinché possiamo stare sempre là dove lui è. Noi cristiani dovremmo guardare spesso il piccolo seme di senape, tenerlo nel palmo della mano, avere coscienza di quanto sia piccolo; ma dovremmo anche vederlo come seme seminato, morto sottoterra, germinato e cresciuto, fino a diventare grande come un arbusto che dà riparo agli uccelli del cielo – immagine usata da Gesù per descrivere il regno di Dio (cf. Mc 4,26.31-32) –, e dunque stupirci. Così è la nostra fede, piccolissima forse; ma non temiamo, perché se la fede c’è, è sufficiente, perché più forte di ogni nostro altro atteggiamento. La fede è la fede: sempre, anche se piccola, è adesione a una relazione, è obbedienza (hypakoé písteos: Rm 1,5).

La risposta di Gesù agli apostoli prosegue poi con una parabola che li riguarda particolarmente, in quanto inviati a lavorare nel campo, nella vigna il cui padrone è il Signore. Gesù li mette in guardia dal confidare in se stessi, perché questo è il peccato che si oppone radicalmente alla fede. È l’atteggiamento che Gesù condannerà nella parabola del fariseo e del pubblicano al tempio (cf. Lc 18,10-14), rivolta ad alcuni che, come il fariseo, “confidavano in se stessi perché erano giusti (prós tinas toùs pepoithótas eph’heautoîs hóti eisìn díkaioi: Lc 18,9)”. Questo potrebbe succedere anche agli inviati che, consapevoli di aver fatto puntualmente la volontà del Signore, vorrebbero essere riconosciuti, premiati. Ma Gesù, con realismo, chiede loro: può forse succedere questo nel mondo, nel rapporto tra padrone e schiavo? Quando lo schiavo rientra dal lavoro, il padrone gli dirà forse: “Vieni e mettiti a tavola”?”. Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, preparati a servirmi, e dopo mangerai e berrai tu”? Dovrà forse ringraziarlo per aver svolto il suo compito? No, questo non può avvenire, e così gli apostoli, inviati a lavorare nella vigna del Signore, quando hanno terminato il lavoro devono dire: “Siamo servi non necessari, ciò che dovevamo fare l’abbiamo fatto”.

Nella sequela di Gesù non si rivendica nulla, non si pretendono riconoscimenti, non si attendono premi, perché neppure il compito svolto diventa garanzia o merito. Ciò che si fa per il Signore, si fa gratuitamente e bene, per amore e nella libertà, non per avere un premio… Purtroppo nella vita della chiesa i premi, i meriti vengono dati da sé a se stessi e non c’è neanche da aspettare qualcosa da Dio!

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Il vangelo di questa domenica si apre con una richiesta dei discepoli nei confronti del Signore: “Gli apostoli dissero al Signore: accresci in noi la fede”.
La liturgia omette quello che precede questa richiesta, ma in realtà è proprio questo che ci rivela il senso profondo dal quale la richiesta scaturisce. Leggiamo infatti nei versetti che precedono: “Disse ai suoi discepoli: “È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai”.
È di fronte a queste affermazioni perentorie del Signore che i discepoli sentono l’esigenza di una fede più grande. L’imperativo del perdono infatti, così come il comandamento dell’amore che ritroviamo nel capitolo 13 del vangelo di Giovanni, mostrano la misura di un Amore davanti al quale i discepoli sperimentano che la loro fede è insufficiente, che quello che sono non basta. “Accresci in noi la fede”: un grido al quale Gesù risponde con misure inaspettate e impensabili come quella di “un granello di senape”.
La fede non è dunque questione di abbondanza, ma di presenza. Non è il “tanto” che cambia le situazioni, ma il fatto che la fede ci sia, povera, vacillante, con mille fatiche, ma presente.
Nelle prossime domeniche ascolteremo una domanda che è posta da Gesù ai suoi discepoli: “il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. La fede dunque non come misura, ma come presenza. Affidarsi è un movimento del cuore che, dice il Signore, non occorre sia di grande misura. E mettere in moto il cuore sulla strada della fiducia trasforma anche le situazioni più radicate. Dunque il perdono è possibile a partire da un piccolo movimento del cuore, invisibile quanto un granello di senape.
L’evangelo di oggi prosegue con la parabola del servo non necessario:
“Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi non necessari. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
E anche di fronte a questa affermazione di Gesù sorgono interrogativi nel nostro cuore: come dire “non necessario” un servo che si prende cura dei beni del suo padrone? Cosa significa “non necessario”? La storia del pensiero greco ci insegna che si definisce non necessario (contingente) qualcosa che può non esserci, o può essere diverso da come è. Stando alla parabola di Gesù, quello che è necessario è che qualcuno si prenda cura di arare il campo e di pascolare il gregge, come di servire il padrone quando torna, mentre non è necessario che il soggetto che compie queste azioni sia quello e non un altro. In altre parole, vivere il nostro servizio come “servi non necessari” ci concede di non appropriarci di nulla e di continuare a riconoscerci uomini e donne a cui è concesso il privilegio di “partecipare all’opera della creazione, con adesione filiale al volere di Dio e in spirito di vera fraternità”, come troviamo in una orazione della liturgia delle ore. Dunque riconoscerci “non necessari” ci fa figli di Dio e fratelli degli uomini.
C’è infatti un solo “servo necessario” di cui ci parla la Scrittura e del quale l’umanità non può fare a meno: è il Figlio di Dio e servo di JHWH che dona la sua vita per tutti.

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Puntualmente, all’inizio nel mese missionario di ottobre, la Parola di Dio offre un messaggio forte sulla fede del credente, in particolare del cristiano e di ogni persona che vive e irradia con coerenza la sua adesione al Padre della Vita. Va ripetuto subito e chiaramente che la fede cristiana non si limita alla conoscenza e all’accettazione intellettuale delle verità scritte nella Bibbia o nel catechismo; la fede non è una questione di riti, cerimonie e altre opere… La fede è anzitutto adesione piena a una Persona, fiducia totale nella sua Parola, abbandono della propria esistenza nelle mani di un Padre amoroso. La nostra fede non è una questione di saperne di più, ma di vivere, assaporare, gustare, fidarsi e affidarsi. La fede comporta un coinvolgimento di tutto l’essere e di ogni essere (spirito, anima, corpo, persone, cosmo, avvenimenti e altre vicende della vita ordinaria…). Questi si illuminano di una luce nuova, secondo il loro vero valore di fronte a Dio. La fede è quella “luce gentile”, della quale si era innamorato il Beato John Henry Newman, nel suo cammino di conversione verso la verità piena.

La fede è vita, è salvezza! Il profeta Abacuc (I lettura), contemporaneo di Geremia (VII-VI s. av. C.), lo gridava alla gente, che in epoca di repressione, iniquità, rapina, violenza, liti, contese… (v. 3), si domandava: chi si salverà? La risposta del profeta è chiara: “Il giusto vivrà per la sua fede” (v. 4). La direzione da seguire è precisa; resta la fatica del cammino da fare, la sfida del compimento da parte dell’uomo. Perché “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37). Chi si lascia guidare e sorreggere da Lui ha la forza di superare le incertezze e i passi stanchi; per questo dobbiamo pregare come gli Apostoli (Vangelo): “Signore, accresci in noi la fede!” (v. 6).

Dopo le proposte esigenti di Gesù nel Vangelo delle domeniche scorse (rinuncia ai beni, porta stretta, onestà a tutta prova, perdono senza condizioni…), i discepoli sono coscienti della loro fragilità e ne hanno paura. Per cui rivolgono al Maestro una preghiera accorata, che ciascuno di noi, nel suo percorso spirituale, sente come vera e sincera dal profondo del cuore: “Accresci in noi la fede!” (v. 6). Le sfide che Gesù lancia alla nostra fede vacillante sono paradossali e proverbiali: fino a sradicare un gelso e trapiantarlo in mare (v. 6), o trasportare una montagna (Mc 11,23). Perché “tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23).

Senza bisogno di quei segni straordinari, la vita del credente si svolge nelle situazioni concrete di ogni giorno, nella fatica quotidiana (v. 7) del compimento fedele e gratuito dei propri doveri. Senza pretese, né rivendicazioni o gratificazioni. Nella consapevolezza di essere semplici servi, gente comune, ordinaria, fedele nelle cose di ogni giorno. Appunto, “servi inutili” (v. 10), contenti solo di servire, con una fedeltà che può arrivare fino al martirio. Dio stesso sarà felice di farsi servitore di quei servi fedeli, li metterà a tavola e passerà a servirli (Lc 12,37).

La fede è un dono prezioso di Dio da testimoniare nella vita, da ravvivare, custodire e irradiare nel mondo, come insegna S. Paolo a Timoteo (II lettura). Un dono che abbiamo ricevuto gratuitamente dal Padre della Vita: lo potremo rafforzare in noi solo nella misura in cui lo condividiamo. Perché “la fede si rafforza donandola!” (Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio 2). Il prezioso dono della fede, che arricchisce il credente di abbondanti benedizioni, esige chiaramente l’ossequio della nostra gratitudine verso Dio (cf. Sal 116,12). L’impegno missionario è la prima risposta della nostra gratitudine, condividendo la nostra fede, sostenendo e promuovendo il lavoro missionario della Chiesa per portare ovunque la luce della fede; cominciando dalla nostra famiglia con l’educazione dei bambini nella fede e nella vita cristiana, e irradiando la fede anche nelle relazioni sociali con amici e colleghi.

Nel mese missionario di ottobre, preghiamo la Madonna, specialmente con il Santo Rosario, preghiera popolare atta a far rivivere i misteri della vita di Cristo e di Maria, in sintonia con le gioie, dolori, speranze e problemi del mondo intero, e pregando il Signore che susciti buone e numerose vocazioni per la sua messe nel mondo intero.

Nella Bibbia non si dice mai che Abramo sia entrato in un santuario per pregare, eppure egli è ritenuto non soltanto il padre dei credenti, ma anche il modello dell’uomo che prega. Se per pregare è necessario credere, per credere bisogna pregare.

Tutta la sua vita è segnata dalla preghiera: non ha preso alcuna iniziativa se non dopo aver ascoltato la parola del Signore, non ha fatto un passo senza aver ricevuto dal suo Dio l’indicazione del cammino.

La sua storia è segnata da un costante dialogo con il Signore: “Il Signore disse ad Abram: vattene… allora Abram partì” (Gen 12,1.4); “La parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione… e Abram rispose: Signore che mi darai?” (Gen 15,1.2); “Poi il Signore apparve a lui alle querce di Mamre… ed egli si prostrò a terra” (Gen 18,1-3); “Dio mise alla prova Abramo… e Abramo rispose: eccomi!” (Gen 22,1)…

Questo dialogo ha alimentato la fede di Abramo, lo ha disposto ad accogliere la volontà di Dio, gli ha fatto credere nel suo amore nonostante ogni apparenza contraria.

Molti eventi della nostra vita sono enigmatici, incomprensibili, illogici e sembrano dar ragione a chi dubita che Dio sia presente e accompagni la nostra storia.

In questi momenti la nostra fede è messa a dura prova e ci verrebbe spontaneo gridare al Signore e implorare: “Ascolta la nostra voce, intendi il nostro lamento”.

Egli ascolta sempre la nostra voce, difficile per noi riuscire a percepire la sua.

“Fa che noi ascoltiamo Signore la tua voce” – è l’invocazione che gli dobbiamo rivolgere.

Apri il nostro cuore, aiutaci a rinunciare alle nostre attese, alle nostre sicurezze, ai nostri progetti e fa che accogliamo i tuoi.

È questa la fede che salva.

Prima Lettura (Ab 1,2-3; 2,2-4)

2 Fino a quando, Signore, implorerò
e non ascolti,
a te alzerò il grido: “Violenza!”
e non soccorri?
3 Perché mi fai vedere l’iniquità
e resti spettatore dell’oppressione?
Ho davanti rapina e violenza
e ci sono liti e si muovono contese.
2 Il Signore rispose e mi disse:
“Scrivi la visione
e incidila bene sulle tavolette
perché la si legga speditamente.
3 È una visione che attesta un termine,
parla di una scadenza e non mentisce;
se indugia, attendila,
perché certo verrà e non tarderà”.
4 Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,
mentre il giusto vivrà per la sua fede.

Abacuc è contemporaneo di Geremia. La situazione sociale, politica e religiosa in cui vivono è la stessa. L’iniquità regna nel paese: “Tutti passano da un delitto all’altro… il fratello inganna il fratello… Ognuno si beffa del suo prossimo, nessuno dice la verità… angheria sopra angheria, inganno su inganno” (Ger 9,2-5). “Dal più piccolo al più grande, tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna” (Ger 8,10). Il re è un imbelle, un incapace, ama il lusso, sfrutta gli operai per costruire il suo palazzo, non tutela la causa del povero e del misero (Ger 22,13-17). Le ingiustizie, i soprusi, le prevaricazioni sono sotto gli occhi di tutti e – questo è scandaloso! – Dio lascia correre. Pare che si disinteressi di ciò che accade sulla terra. Perché non interviene? Perché non soccorre gli oppressi?

Attenti, sensibili, spiritualmente maturi, sia Geremia che Abacuc cercano di capire quello che sta accadendo e non temono di aprire un contenzioso con Dio.

Gli chiedono il perché del suo silenzio e della sua impassibilità: “Tu sei giusto, Signore, e non posso discutere con te. Tuttavia vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Dimmi: perché gli empi prosperano? Perché ai malvagi va sempre bene?” (Ger 12,1).

Anche il popolo vuole una spiegazione, per questo si rivolge ad Abacuc e gli chiede di consultare il Signore. Turbato e confuso, in quella stessa notte il profeta si raccoglie in preghiera e dirige a Dio le domande contenute nella prima parte della lettura di oggi: fino a quando, Signore, continuerai a tacere? Fino a quando tollererai l’ingiustizia? Perché rimani spettatore inerte di fronte alla rapina, alle violenze, alle liti, alle contese? (Ab 1,2-3).

Stupenda la preghiera di Abacuc! Egli ha il coraggio di dire al Signore che non è d’accordo con lui, che non capisce la sua tolleranza nei confronti dei malvagi; reclama per la sua passività e il suo silenzio; osa chiedergli conto del suo modo di governare il mondo e gli eventi della storia.

Dopo aver esposto le recriminazioni sue e del popolo, il profeta tace.

Tocca a Dio rispondere, è lui che ora è chiamato a giustificare il suo operato.

Abacuc rimane in attesa come fanno le sentinelle che scrutano l’orizzonte lontano per scorgere anche il più piccolo movimento. Aspetta un segno che preluda a un cambiamento (Ab 2,1).

La risposta del Signore non si fa attendere ed è contenuta nella seconda parte della lettura (Ab 2,2-4).

Dio ordina ad Abacuc: prendi nota, scrivi ciò che sto per dire perché voglio che rimanga documentato (v.2). Ecco la promessa: a breve termine non accadrà nulla, non ci saranno cambiamenti immediati. Passerà un certo tempo prima che giunga la liberazione. Guai però a scoraggiarsi, diffidare, rassegnarsi all’ingiustizia, adeguarsi al comportamento dei malvagi (v.3).

Una risposta sorprendente: Dio non dà alcuna spiegazione, chiede solo fiducia incondizionata. Capisce le rimostranze del profeta e del popolo, sa che non sono in grado di comprendere le ragioni della sua tolleranza, tuttavia assicura che un giorno apparirà a tutti, con chiarezza, ciò che oggi soltanto a lui è dato di vedere: l’empio – che apparentemente prospera – in realtà sta ponendo le basi della sua rovina. Davanti al giusto, davanti a colui che si fida del Signore, si spalancano invece orizzonti di vita (v.4).

Seconda Lettura (2 Tm 1,6-8.13-14)

Carissimo, 6 ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. 7 Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. 8 Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio.
13 Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14 Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito santo che abita in noi.

La seconda lettera a Timoteo è diretta soprattutto a coloro che, nella comunità cristiana, svolgono il ministero della presidenza.

Il nostro brano inizia con l’invito a Timoteo di “ravvivare” il dono di Dio che gli è stato conferito mediante l’imposizione delle mani (v.6).

Il ministero che è chiamato a svolgere – testimoniare la verità – richiede forza e coraggio. Timoteo, purtroppo, è timido e riservato, tanto che Paolo un giorno deve raccomandare ai corinti di non metterlo in soggezione (1 Cor 16,10), ecco la ragione per cui gli ricorda che lo Spirito è fonte di forza, non di timidezza (vv.7-8).

Nella seconda parte della lettura (vv.13-14) per due volte l’Apostolo raccomanda a Timoteo – e indirettamente a tutti gli operatori pastorali delle comunità – di conservare integro il deposito della fede.

Alla fine del I secolo d.C. cominciano a infiltrarsi nelle comunità cristiane dei falsi maestri che diffondono dottrine erronee, bizzarre, fantasiose. L’adesione a tali false interpretazioni del Vangelo porta a gravi deviazioni sia teologiche sia morali. Coloro che presiedono alla vita della comunità devono vigilare, proteggere i fedeli particolarmente esposti e tentati di aderire alle nascenti eresie.

La raccomandazione di mantenersi fedeli ai principi della fede non deve essere confusa con l’immobilismo spirituale. Non è un invito a non cambiare nulla nella vita della comunità. Le interpretazioni nuove e più approfondite della Bibbia, le spiegazioni che rendono il Vangelo più comprensibile all’uomo d’oggi, non sono deviazioni dalla fede. Le nuove forme liturgiche, i nuovi testi del catechismo, non sono un’infedeltà alla tradizione.

Il bambino è fatto per svilupparsi, crescere, diventare adulto. Gli farebbe violenza chi lo costringesse a rimanere sempre com’è.

Anche la parola di Dio deve crescere (At 12,24), anche la fede deve maturare.

È la fedeltà al Vangelo che esige una continua metamorfosi della mente e del cuore.

Questo cambiamento voluto e guidato dallo Spirito è espressione e segno di vita.

Vangelo (Lc 17,5-10)

Il brano del Vangelo che ci viene proposto oggi non è fra i più facili. Sia la prima parte dove si parla della fede (vv.5-6) che la seconda, dove viene proposta una sconcertante parabola (vv.7-9) sono piuttosto enigmatiche e sollevano interrogativi. Lo stesso discorso vale per il versetto conclusivo (v.10) nel quale anche i discepoli più fedeli sono chiamati “servi inutili”.

Cominciamo dai prodigi che la fede, anche piccola come un granello di senapa, è in grado di produrre. Il detto del Signore è introdotto da una richiesta dei discepoli: “Aumenta la nostra fede”.

È possibile far crescere la fede? O si crede o non si crede, pensa qualcuno. Allora non ci può essere un più o un meno. Questo sarebbe vero se la fede si riducesse all’assenso dato a un pacchetto di verità.

In realtà credere non riguarda solo la mente: comporta una scelta concreta, implica la piena e incondizionata fiducia in Cristo e l’adesione convinta alla sua proposta di vita. Stando così le cose è facile rendersi conto che la fede può crescere o diminuire. Il cammino al seguito del Maestro a volte è più spedito, a volte meno, a volte ci si stanca, si rallenta e ci si ferma.

L’esperienza di una fede incerta e vacillante viene fatta ogni giorno: crediamo in Gesù, ma non ci fidiamo totalmente di lui, non abbiamo il coraggio di compiere certi passi, di slegarci da certe abitudini, di fare certe rinunce. Ecco la fede che deve rafforzarsi!

La richiesta degli apostoli rivela la convinzione cui essi sono giunti. Si sono resi conto che la maturazione spirituale non è frutto del loro sforzo e del loro impegno, ma è un dono di Dio, per questo chiedono a Gesù di renderli più decisi, più convinti, più generosi nella scelta di seguirlo.

Dal contesto si intuisce anche la ragione per cui gli rivolgono questa supplica.

Egli ha prospettato loro il cammino difficile che li attende: dovranno entrare per la porta stretta (Lc 13,24), essere disposti a “odiare” il padre e la madre (Lc 14,26), rinunciare a tutti i propri beni (Lc 14,33) e – come è scritto nei versetti che precedono immediatamente il nostro brano – dovranno essere capaci di perdonare senza limiti e senza condizioni (Lc 17,5-6). Davanti a simili richieste è comprensibile che si sentano mancare le forze.

La tentazione di rimettere in causa le proprie scelte, di tirarsi indietro è grande. Anche a loro, probabilmente, viene da dire, come molti hanno già fatto: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” (Gv 6,60). Temono di non farcela. Ecco allora affiorare spontanea sulla loro bocca l’invocazione di aiuto: aumenta la nostra fede!.

Invece di esaudirli, Gesù comincia a descrivere le meraviglie che la fede produce.

Impiega un’immagine paradossale e molto strana per la nostra cultura: parla di un albero – non si sa bene se si tratta di un gelso o di un sicomoro – che può essere miracolosamente sradicato e piantato in mare.

Se Gesù si riferisce al sicomoro, allora l’immagine allude alle radici molto forti e profonde di questa pianta, radici che resistono anche per seicento anni e che sono molto difficili da estirpare dalla terra.

La fede – dice Gesù – è capace di realizzare anche l’impossibile: sradicare un sicomoro o far crescere un gelso nel mare.

Matteo e Marco non parlano di un albero, ma di una montagna che può essere spostata con la fede (Mt 17,29; Mc 11,23) e questa doveva essere un’immagine più familiare e proverbiale, che viene usata anche da Paolo (1 Cor 13,2). Il messaggio è comunque lo stesso e può essere riassunto con le parole pronunciate da Gesù in un altro contesto: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23).

Viene spontaneo un interrogativo: come mai nessuno ha mai compiuto simili miracoli? Non li hanno fatti né Gesù, né la Madonna, né Abramo, né i grandi santi. Non li hanno compiuti – e non è difficile capirlo – perché Gesù stava parlando in modo iperbolico.

I miracoli di cui parla sono quei cambiamenti inattesi che si realizzano in coloro che credono, sono quelle trasformazioni inspiegabili, assolutamente imprevedibili che si verificano nella società e nel mondo quando ci si fida realmente della parola del Vangelo e la si pone in pratica.

Alcuni esempi ci possono illuminare: di fronte agli odi, ai rancori, ai pregiudizi che hanno caratterizzato i rapporti fra i popoli, chi non ha pensato che si tratti di realtà ineluttabili? Chi non ha pensato che certi conflitti familiari siano insanabili? Chi, almeno una volta, non ha ritenuto che le radici dell’inimicizia siano tanto profonde da non poter essere strappate?

Per chi crede – dice Gesù – non esistono situazioni irrecuperabili. Chi confida nella sua parola sarà testimone di miracoli straordinari e inattesi, vedrà realizzarsi i cambiamenti prodigiosi annunciati dai profeti: il deserto fiorirà (Is 32,15) e la steppa sarà trasformata in un giardino dell’Eden (Is 51,3).

A questa affermazione fa seguito una parabola (vv.7-9) che ci lascia un po’ di amarezza e delusione.
Non è facile capire perché Gesù parli in questo modo.

Racconta di uno schiavo che, dopo una giornata di duro lavoro, torna a casa sfinito e col volto bruciato dal sole. Il padrone, invece di complimentarsi con lui per il servizio reso e di invitarlo a sedersi, a mangiare un boccone, lo apostrofa con durezza: “Prima servi me, dopo, quando io sarò sazio, cenerai anche tu”.

Siccome il padrone rappresenta Dio ed i servi siamo noi, abbiamo di che preoccuparci: al termine della nostra vita verremo davvero accolti in questo modo?

La parabola sorprende anche perché, qualche domenica fa, abbiamo sentito Gesù parlare in modo ben diverso: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37). Una scena commovente!

Il paragone usato nel brano di oggi non corrisponde alla nostra attuale sensibilità, anzi ci irrita. Dobbiamo collocarlo nel contesto culturale del tempo, quando lo schiavo era considerato proprietà del padrone e non poteva avanzare alcuna pretesa.
Gesù non discute questa situazione, la prende come un dato di fatto.
Un giorno enuncerà i principi innovatori su cui sarà basata la società nuova da lui proposta.

Ricordiamo il richiamo ai discepoli durante l’ultima cena: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse esigono di essere chiamati benefattori. Tra voi non sia così; ma il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27).

Ora egli non intende affrontare il problema della schiavitù, si serve solo di un esempio per trasmettere il suo messaggio teologico. Vuole correggere il modo fuorviante in cui i farisei (di allora e di oggi) intendevano il rapporto con Dio.

Le guide spirituali di quel tempo predicavano la religione dei meriti. Dicevano: alla fine della vita, Dio retribuirà in base alle prestazioni di ognuno. Da qui la necessità di compiere il maggior numero possibile di opere buone: preghiere, digiuni, elemosine, pratiche religiose, sacrifici, osservanza scrupolosa dei comandamenti e dei precetti. Tutto per avere diritto ad una ricompensa maggiore.

Questo modo di intendere il rapporto con il Signore corrisponde perfettamente alla nostra logica.

Ci sembra giusto immaginare un Dio così: non ci rendiamo conto che stiamo ragionando esattamente come i farisei.

L’uomo – che è polvere e cenere – non può avanzare alcun diritto davanti a Dio, dal quale riceve tutto gratuitamente.

Questa religione dei meriti è deleteria per chi la pratica, instaura rapporti scorretti, improntati ad un sottile egoismo fra gli uomini e deforma il rapporto con Dio.

Non ama realmente colui che compie il bene con l’obiettivo – nemmeno tanto nascosto – di accumulare meriti davanti a Dio. Pone ancora se stesso al centro dei propri interessi, aiuta il fratello per migliorare la propria vita spirituale.

Gesù vuole che il discepolo metta da parte qualunque egoismo, anche spirituale.

Entra nel regno di Dio chi ama in modo incondizionato e gratuito come il Padre che sta nei cieli.

Il guaio maggiore provocato dalla religione dei meriti è un altro: riduce Dio alla stregua del ragioniere incaricato di mantenere in ordine i libri contabili e di segnare accuratamente debiti e crediti di ognuno.

La parabola vuole distruggere questa immagine di Dio.

Non ci piace, ci irrita perfino, perché l’idea che, facendo il bene, acquistiamo meriti davanti a Dio è troppo radicata in noi. È profonda come la radice di un sicomoro!.

Il detto conclusivo – già molto duro – è reso anche più ostico dal testo italiano che, in modo inesatto, parla di servi inutili. Nessun servo solerte e laborioso può essere definito inutile. Meglio tradurre: Siamo semplici servi; non abbiamo fatto altro che il nostro dovere (v.10).

Gesù non intende sottovalutare le opere buone, non disprezza il lavoro dell’uomo né assume un atteggiamento di supponenza nei confronti di chi si impegna a compiere il bene. Cerca piuttosto di liberare i discepoli da una forma di orgoglio pericolosa per loro e per gli altri: l’autocompiacimento per la propria giustizia, l’ostentazione delle propria santità, l’esibizione della propria condotta impeccabile. Vuole purificare i loro cuori dagli impulsi all’emulazione e alla rivalità spirituale.

Non bisogna competere per accaparrarsi le predilezioni e l’amore di Dio: di questo amore ce n’è in abbondanza per tutti.

Gesù vuole far capire che il comportamento del fariseo che fa sfoggio dei suoi meriti è insensato perché il bene non è opera dell’uomo, ma sempre e tutto dono gratuito di Dio. “Che cosa possiedi – dice Paolo – che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).

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