XXVI Domenica del Tempo Ordinario – anno C
Luca 16,19-31


il-ricco-opulone

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il peccato del ricco è l’indifferenza verso il povero
Ermes Ronchi

La parabola del ricco senza nome e del povero Lazzaro è una di quelle pagine che ci portiamo dentro come sorgente di comportamenti meno disumani.
Un ricco senza nome, per cui il denaro è diventato l’identità, la seconda pelle. Il povero invece ha il nome dell’amico di Betania. Il Vangelo non usa mai dei nomi propri nelle parabole. Il povero Lazzaro è un’eccezione, una felice anomalia che lascia percepire i battiti del cuore di Gesù.
Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Perché il ricco è condannato? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi della gola? No. Il suo peccato è l’indifferenza verso il povero: non un gesto, una briciola, una parola. Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza, per cui l’altro neppure esiste, e Lazzaro è nient’altro che un’ombra fra i cani.
Il povero è portato in alto; il ricco è sepolto in basso: ai due estremi della società in questa vita, ai due estremi dopo. Tra noi e voi è posto un grande abisso, dice Abramo, perdura la grande separazione già creata in vita. Perché l’eternità inizia nel tempo, si insinua nell’istante, mostrando che l’inferno è già qui, generato e nutrito in noi dalle nostre scelte senza cuore: il povero sta sulla soglia di casa, il ricco entra ed esce e neppure lo vede, non ha gli occhi del cuore. Tre gesti sono assenti dalla sua storia: vedere, fermarsi, toccare. Tre verbi umanissimi, le prime tre azioni del Buon Samaritano. Mancano, e tra le persone si scavano abissi, si innalzano muri. Ma chi erige muri, isola solo se stesso.
Ti prego, manda Lazzaro con una goccia d’acqua sul dito… mandalo ad avvisare i miei cinque fratelli… No, neanche se vedono un morto tornare si convertiranno!
Non è la morte che converte, ma la vita. Chi non si è posto il problema di Dio e dei fratelli, la domanda del senso, davanti al mistero magnifico e dolente che è la vita, tra lacrime e sorrisi, non se lo porrà nemmeno davanti al mistero più piccolo e oscuro che è la morte.
Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la parola e la carne di Dio (ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che l’avete fatto). Nella loro fame è Dio che ha fame, nelle loro piaghe è Dio che è piagato.
Non c’è apparizione o miracolo o preghiera che conti quanto il loro grido: «Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi» (San Vincenzo de Lellis).
Nella parabola Dio non è mai nominato, eppure intuiamo che era presente, che era vicino al suo amico Lazzaro, pronto a contare ad una ad una tutte le briciole date al povero, pronto a ricordarle e custodirle per sempre.

Avvenire 2016

Dopo la parabola dell’economo ingiusto ascoltata domenica scorsa (cf. Lc 16,1-8), oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza, contenuta sempre nel capitolo 16 del vangelo secondo Luca: la parabola del ricco e del povero Lazzaro.

“C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e bisso, banchettando splendidamente ogni giorno”. Di costui non si dice il nome, ma viene definito dal suo lusso e dal suo comportamento. I ricchi devono farsi vedere, devono imporsi e ostentare: da allora fino a oggi non è cambiato nulla, e chi pensa di essere potente e ricco, anche nella chiesa, vuole esibire i segni del potere e osa addirittura affermare che la porpora è indossata per dare gloria a Dio…

L’altra dimensione con cui i ricchi nell’antichità si facevano vedere era il loro banchettare con ostentazione. Per gli altri uomini la festa è un’occasione rara, per i poveri è impossibile, mentre per i ricchi ogni giorno è possibile festeggiare. Ma festeggiare cosa? Se stessi e la loro situazione privilegiata, senza mai pensare alla condivisione. Questo ricco, in particolare, mai aveva invitato i poveri, mai si era accorto del povero presente davanti alla sua porta, e dunque mai aveva praticato quella carità che la Torah stessa esigeva. Ma qual è la malattia più profonda di quest’uomo? Quella che papa Francesco, in una sua omelia mattutina, ha definito mondanità: l’atteggiamento di chi “è solo con il proprio egoismo, dunque è incapace di vedere la realtà”.

Accanto al ricco mondano, alla sua porta, sta un altro uomo, “gettato” là come una cosa, coperto di piaghe. Non è neanche un mendicante che chiede cibo, ma è abbandonato davanti alla porta della casa del ricco. Nessuno lo guarda né si accorge di lui, ma solo dei cani randagi, più umani degli esseri umani, passandogli accanto gli leccano le ferite. Questo povero ha fame e desidererebbe almeno ciò che i commensali lasciano cadere dalla tavola o buttano sul pavimento ai cani (cf. Mc 7,28; Mt 15,27). La sua condizione è tra le più disperate che possano capitare a quanti sono nella sofferenza. Eppure Gesù dice che costui, a differenza del ricco, ha un nome: ‘El‘azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime veramente chi è questo povero, un uomo sul quale riposa la promessa di liberazione da parte di Dio.

In ogni caso, sia il ricco sia il povero condividono la condizione umana, per cui per entrambi giunge l’ora della morte, che tutti accomuna. Un salmo sapienziale, già citato altre volte, presenta un significativo ritornello: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari, vanno verso il mattatoio” (cf. Sal 49,13.21). Il ricco della parabola non ricordava questo salmo per trarne lezione e neppure ricordava le esigenze di giustizia contenute nella Torah (cf. Es 23,11; Lv,19,10.15.18, ecc.) né i severi ammonimenti dei profeti (cf. Is 58,7; Ger 22,16, ecc.). Di conseguenza, era incapace di responsabilità verso l’altro, di condivisione. Il vero nome della povertà è condivisione, al punto che Gesù si è spinto fino ad affermare: “Fatevi degli amici con il denaro ingiusto, perché, quando questo verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Ma questo ricco non l’ha capito…

Quando muore Lazzaro, il suo nome mostra tutta la sua verità, perché il funerale del povero (che forse non c’è stato materialmente, perché l’avranno gettato in una fossa comune!) è officiato dagli angeli, che vengono a prenderlo per condurlo nel seno di Abramo. La vita di Lazzaro non si è dissolta nel nulla, ma egli è portato nel regno di Dio, dove si trova il padre dei credenti, di cui egli è figlio: colui che era “gettato” presso la porta del ricco, ora è innalzato e partecipa al banchetto di Abramo (cf. Mt 8,11; Lc 13,28). Il ricco invece ha una sepoltura come gli si conviene, ma il testo è laconico, non precisa nulla di un suo eventuale ingresso nel Regno.

Ecco infatti, puntualmente, una nuova situazione, in cui i destini dei due uomini sono ancora una volta divergenti, ma a parti invertite. Ciò che appariva sulla terra viene smentito, si mostra come realtà effimera, mentre ci sono realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18) e che dopo la morte si impongono: il povero ora si trova nel seno di Abramo, dove stanno i giusti, il ricco negli inferi. Alla morte viene subito decisa la sorte eterna degli esseri umani, preannuncio del giudizio finale, e le due vie percorse durante la vita danno l’esito della beatitudine oppure quello della maledizione. A Lazzaro è donata la comunione con Dio insieme a tutti quelli che Dio giustifica, mentre al ricco spetta come dimora l’inferno, cioè l’esclusione dal rapporto con Dio: egli passa dall’avere troppo al non avere nulla.

Nelle sofferenze dell’inferno, il ricco alza i suoi occhi e “da lontano” vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo, come un figlio amato. Egli ora vive la stessa condizione sperimentata in vita dal povero, ed è anche nella stessa posizione: guarda dal basso verso l’alto, in attesa… Non ha potuto portare nulla con sé, i suoi privilegi sono finiti: lui che non ascoltava la supplica del povero, ora deve supplicare; si fa mendicante gridando verso Abramo, rinnovando per tre volte la sua richiesta di aiuto. Comincia con l’esclamare: “Padre Abramo, abbi pietà di me”, grido che durante la vita non aveva mai innalzato a Dio, “e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché sono torturato in questa fiamma”. Chiede insomma che Lazzaro compia un gesto di amore, che lui mai aveva fatto verso un bisognoso.

Ma Abramo gli risponde: “Figlio, durante la tua vita hai ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro i suoi mali; ora egli qui è consolato, tu invece sei torturato”. Un modo schematico ma efficace per esprimere come il comportamento vissuto sulla terra abbia precise conseguenze nella vita oltre la morte: il comportamento terreno è già il giudizio, da esso dipendono la salvezza o la perdizione eterne (cf. Mt 25,31-46). Così la beatitudine rivolta da Gesù ai poveri e il “guai” indirizzato ai ricchi (cf. Lc 6,20-26) si realizzano pienamente. Poi Abramo continua servendosi dell’immagine dell’“abisso grande”, invalicabile, che separa le due situazioni e non permette spostamenti dall’uno all’altro “luogo”: la decisione è eterna e nessuno può sperare di cambiarla, ma si gioca nell’oggi…

Qui il racconto potrebbe finire, e invece il testo cambia tono. Udita la prima risposta di Abramo, il ricco riprende la sua invocazione. Non potendo fare nulla per sé, pensa ai suoi famigliari che sono ancora sulla terra. Lazzaro potrà almeno andare ad avvertire i suoi cinque fratelli, ad ammonirli prospettando loro la minaccia di quel luogo di tormento, se vivranno come l’uomo ricco. Ma ancora una volta “il padre nella fede” (cf. Rm 4,16-18) risponde negativamente, ricordandogli che Lazzaro non potrebbe annunciare nulla di nuovo, perché già Mosè e i Profeti, cioè le sante Scritture, indicano bene la via della salvezza. Le Scritture contenenti la parola di Dio dicono con chiarezza come gli uomini devono comportarsi nella vita, sono sufficienti per la salvezza. Occorre però ascoltarle, cioè fare loro obbedienza, realizzando concretamente quello che Dio vuole!

Ma il ricco non desiste e per la terza volta si rivolge ad Abramo: “Padre Abramo, se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli, saranno mossi a conversione”. Abramo allora con autorità chiude una volta per tutte la discussione: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se qualcuno risorge dai morti saranno persuasi”. Parole definitive, eppure ancora oggi molti cristiani faticano ad accoglierle, perché sono convinti che le Scritture non siano sufficienti, che occorrano miracoli straordinari per condurre alla fede…

No, i cristiani devono ascoltare le Scritture per credere, anche per credere alla resurrezione di Gesù, come il Risorto ricorderà agli Undici: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Egli stesso, del resto, poco prima aveva detto ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i Profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’. E, cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Non a caso anche nella professione di fede il cristiano confessa che “Cristo morì secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Le Scritture testimoniano ciò che si è compiuto nella vita e nella morte di Gesù Cristo, testimoniano la sua resurrezione. Se il cristiano prende consapevolezza delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6-7) e ascolta le Scritture dell’Antico Testamento, giunge alla fede nella sua resurrezione.

Questa parabola ci scuote, scuote soprattutto noi che viviamo nell’abbondanza di una società opulenta, che sa nascondere così bene i poveri al punto di non accorgersi più della loro presenza. Ci sono ancora mendicanti sulle strade, ma noi diffidiamo delle loro reale miseria; ci sono stranieri emarginati e disprezzati, ma noi ci sentiamo autorizzati a non condividere con loro i nostri beni. Dobbiamo confessarlo: i poveri ci sono di imbarazzo perché sono “il sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), sono il segno della nostra ingiustizia. E quando li pensiamo come segno-sacramento di Cristo, sovente finiamo per dare loro le briciole, o anche qualche aiuto, ma tenendoli distanti da noi. Eppure nel giorno del giudizio scopriremo che Dio sta dalla parte dei poveri, scopriremo che a loro era indirizzata la beatitudine di Gesù, che ripetiamo magari ritenendola rivolta a noi. Siamo infine ammoniti a praticare l’ascolto del fratello nel bisogno che è di fronte a noi e l’ascolto delle Scritture, non l’uno senza l’altro: è sul mettere in pratica qui e ora queste due realtà strettamente collegate tra loro che si gioca già oggi il nostro giudizio finale.

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Lazzari ed epuloni
Paolo Curtaz

Facciamoci due conti in tasca, così come mettiamo molto impegno nelle cose della terra, e nella gestione dei soldi, in particolare. Investiamo in ciò che davvero può colmare il nostro cuore, senza lasciarci riempire la testa dall’ansia dell’accumulo.
Così diceva la Parola domenica scorsa e oggi, a degna conclusione, Luca ci lascia una tragica parabola che ci scuote nel profondo: la storia di Lazzaro e il ricco epulone (che ho scoperto essere un soprannome che potremmo tradurre: “festaiolo e mangione”). Un storia che potrebbe ben descrivere la stridente contraddizione del nostro mondo attuale, che costringe alla morte per fame centinaia di migliaia di persone, mentre per molti la preoccupazione è quella di perdere di peso…

Nomi
Dio conosce per nome il povero Lazzaro (Il nome in Israele è manifestazione dell’intimo: Dio conosce la sofferenza di questo mendicante!) mentre non ha nome il ricco epulone che – peraltro – non è descritto come una persona particolarmente malvagia, ma solo troppo assorbita dalle sue cose per accorgersi del povero che muore davanti a causa sua…
Dio non conosce il ricco epulone, egli è bastante a se stesso, non ha bisogno di Dio, non si pone, all’apparenza, alcun problema religioso, è saldamente indifferente e si tiene debitamente lontano dalla sua interiorità.
E Dio rispetta questa distanza.
Il cuore della parabola non è la vendetta di Dio che ribalta la situazione tra il ricco e il povero, come a noi farebbe comodo pensare, in una sorta di pena del contrappasso.
Il senso della parabola, la parola chiave per capire di cosa parliamo, è: abisso.

Abissi
C’è un abisso fra il ricco e Lazzaro, c’è un burrone incolmabile.
La vita del ricco, non condannato perché ricco, ma perché indifferente, è tutta sintetizzata in questa terribile immagine: è un abisso la sua vita.
Probabilmente buon praticante (Come causticamente dice Amos condannando i potenti del Regno del sud indifferenti al crollo del Regno del Nord, avvenuto ad opera degli Assiri nel 722 a.C.), non si accorge del povero che muore alla sua porta.
L’abisso invalicabile è nel suo cuore, nelle sue false certezze, nella sua supponenza, nelle sue piccole e inutili preoccupazioni.
In altri tempi, quest’atteggiamento veniva chiamato “omissione”: atteggiamento che descrive un cuore che si accontenta di stagnare, senza valicare l’abisso e andare incontro al fratello.
Abisso di chi pensa di essere sufficientemente buono, e devoto e normale rispetto al mondo esterno, malvagio e corrotto. Di chi pensa di non essere migliore, ma certo non peggiore dei tanti delinquenti che si vedono in giro.
L’obiezione “Che ci posso fare?”, di fronte alle immense ingiustizie dei nostri giorni, qualche offerta caritativa, qualche buona devozione, tacitano e asfaltano le coscienze, intorpidiscono il cuore.
E l’abisso diventa invalicabile. Neppure Dio riesce a raggiungerci.

Di nuovo il sociale
No, non so cosa fare di fronte alle tragedie di questo mondo.
So che non posso rifugiarmi nel caloroso rapporto intimo con Dio; so che se la mia fede non valica la mia devozione personale e diventa servizio, impegno, resta sterile. Come dicevamo domenica scorsa, il Signore loda la scaltrezza, l’arguzia di chi si siede e riflette, cerca soluzioni.
Là dove viviamo siamo chiamati ad amare nella concretezza.
Se abbiamo già compiuto le nostre scelte, lavorative, affettive, siamo chiamati a vivere una cittadinanza consapevole, che si fa carico del proprio vicino, come il Samaritano.
Se sentiamo che questo mondo ci va stretto, che questa vita che altri hanno scelto per noi e che altri dirigono, possiamo avere il coraggio del dono: partire, restare, cambiare, l’importante è agire con amore umile e concreto.

Compassione
Ma, prima dell’impegno, esiste un atteggiamento che, tutti, possiamo avere, anche se non siamo in grado o non possiamo fare nulla di diverso da quello che stiamo già facendo.
Stai serena sorella che lavori e ti occupi di tuo marito e dei tuoi bambini: quella è la tua Nigeria. Stà sereno fratello che stai studiando economia: in quel mondo di squali sei chiamato a disegnare nuovi sentieri di umanizzazione!
Ma tutti, tutti noi, sempre, siamo chiamati a vedere, a capire, a prendere a cuore.
Dio si è chinato sulla sofferenza degli uomini. Prima del ragionamento sociale o politico, prima dell’arrendersi o del rimboccarsi le maniche, prima di tutto, siamo chiamati ad avere compassione. A sentire dentro, a sentire il dolore come Dio lo sente (Quando dolore in Dio! Quanto amore, in lui!). Questo sì, tutti possiamo viverlo.
Un mondo pieno di compassione adulta (non pietistica, non mielosa, non rassegnata) cambierebbe il nostro fragile e incarognito mondo, statene certi.

Soluzioni
Il Vangelo di oggi, concludendo la riflessione di domenica scorsa, ci dice che l’anticonsumismo è la solidarietà, la condivisione. Una condivisione, però, intelligente.
È finito il tempo delle elemosine “una tantum”, dell’euro sganciato per far tacere il fastidio dell’insistenza di chi chiede e la coscienza. Dio chiama per nome Lazzaro, non gli sgancia un euro. Si lascia coinvolgere, ascolta le sue ragioni, non accetta gli inganni, aiuta a crescere. Così la nostra comunità, sempre più, deve lasciare che lo Spirito susciti in mezzo a noi nuove forme di solidarietà che rispondano alle nuove forme di povertà.
La sete del ricco, finalmente sete di chi ha capito, è una sete che fin d’ora percepiamo se abbiamo il coraggio di ascoltarci dentro.
L’ammonimento di Amos che condanna gli “spensierati di Sion”, cioè i superficiali di tutti i tempi, ci aiuta a spalancare gli occhi e vedere i nuovi Lazzaro alla porta.
Infine ci giunge un richiamo forte alla conversione: epulone rimpiange il fatto di avere vissuto con superficialità i tanti richiami che gli venivano fatti, ed invoca un miracolo per ammonire i suoi fratelli. Ma non gli sarà dato alcun miracolo, alcun segno ulteriore: ha avuto sufficienti occasioni per capire. E per cambiare.
I profeti e la Parola del vangelo dimorano abbondanti in mezzo a noi, a noi di accoglierli!

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Alla porta…
Clarisse di Sant’Agata 

“Ecco sto alla porta” (Ap 3,20)

C’è sempre qualcuno/Qualcuno alla porta della nostra vita, mendicante della nostra attenzione. Oppure noi stessi viviamo alla porta dell’altro, in attesa che si accorga di noi.

Nelle parole di Gesù del vangelo di questa domenica troviamo racchiuso il mistero del bisogno dell’altro/Altro che fa umana la nostra vita. Provocazione a tinte forti per smascherare ogni ricchezza e autosufficienza che rende ciechi di fronte all’esistenza dell’altro o ce lo fa guardare solo come strumento per soddisfare i nostri bisogni.

La parabola narrata oggi da Gesù pone a confronto due uomini, un ricco e un povero, nelle loro sorti rovesciate in questa e nell’altra vita.

Tuttavia il problema sollevato dalla parabola è oltre il contrasto ricchezza-povertà. Anche se collocato alla fine di una serie di detti relativi alla ricchezza e all’uso dei beni, la parabola vuole portare la nostra attenzione sull’atteggiamento di apertura o di chiusura verso l’altro che è vicino a noi. Gesù proseguirà infatti parlando ai suoi discepoli della vita comune e di come è necessario porsi in rapporto ai fratelli più piccoli o ai fratelli che peccano (Lc 17,1-6).

Entriamo nella parabola:

Gesù presenta due mondi chiusi in due scene contrapposte, con i medesimi protagonisti. Nella prima sono presentati i due tipi di uomini coinvolti.

Da una parte c’è l’“uomo ricco” di cui non conosciamo l’identità. Uomo senza nome perché senza volto, tutto ridotto a ciò che si vede del suo “esterno”: di lui sono descritti i ricchi abiti e il comportamento abituale di “darsi a lauti banchetti”. È un uomo chiuso nella sua autosufficienza, che ha posto se stesso come metro di misura della realtà. Questo essere concentrato tutto su di sé e su ciò che è esterno (che la parabola chiama “ricchezza”), non gli permette di vedere l’altro. Quindi l’“uomo ricco” è senza nome perché la sua umanità è sfigurata, avendo perso ogni riferimento con l’altro fuori di sé.

L’altro personaggio, invece, il povero, ha un nome preciso. Si chiama Lazzaro (che significa “Dio aiuta”). Ha un nome conosciuto da Dio e che parla di una realtà non visibile agli occhi: Dio aiuta. Anche se la sua vita sembra non proclamare la verità del suo nome (come sperimenta l’aiuto di Dio questo povero a cui nessuno da nulla?), il suo atteggiamento di radicale apertura/bisogno di ricevere dall’altro parla di “Dio che aiuta”. Solo chi sa e accetta di avere bisogno di ricevere tutto dai fratelli conoscerà che “Dio aiuta”. Di Lazzaro il narratore della parabola ci svela l’“interno”, il suo desiderio: era “bramoso di sfamarsi…”. La sua fame bisognosa di essere soddisfatta e le sue ferite bisognose di cure sono il muto grido che Lazzaro innalza con la sua presenza alla porta del ricco. Solo “i cani” raccolgono questo grido/desiderio, andando a lenire il dolore delle sue ferite: “i cani venivano a leccare le sue piaghe”. Lazzaro, l’affamato, da’ da mangiare ai cani con il suo corpo. Paradosso di chi è nel bisogno che spesso trova spazi per sollevare il bisogno di qualcuno più bisognoso di lui.

A questa scena iniziale che fotografa il ricco e il povero in due posizioni contrapposte, fa da specchio la seconda scena dove troviamo ancora una volta due mondi chiusi: da una parte Lazzaro consolato nel seno di Abramo e dall’altra il ricco tormentato nel regno dei morti. La morte di entrambi è lo spartiacque che segna due destinazioni differenti e contrapposte. Ma la parabola non vuole semplicemente dirci che la nostra condizione nella vita terrena deciderà la collocazione nella vita dopo la morte (legge del contrappasso).

La parabola è più profonda.

Nella seconda parte infatti sviluppa un dialogo “a distanza” fra il ricco e Abramo dove emergono due richieste: la prima di “mandare” Lazzaro “a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnare la lingua” del ricco; la seconda di “mandare” Lazzaro “a casa del padre ad ammonire i suoi cinque fratelli”.

Nessuno stupore nel comportamento del ricco: chi era incapace prima di vedere il bisogno del povero Lazzaro alla porta della sua vita, “solleva gli occhi” ora e lo vede per la prima volta, ma solo come “strumento” per soddisfare il suo bisogno (acqua) o per attenuare le sue paure (che i fratelli condividano la sua sorte). Al centro rimane sempre l’io del ricco che pensa di muovere l’altro e la realtà secondo il suo volere. Sembra che anche nel momento in cui il ricco si apre vedendo Lazzaro, tutto sia ormai chiuso per lui. L’abisso che lo separava da Lazzaro ora appare incolmabile.

Ma la parabola lascia aperto uno spiraglio di speranza per quel ricco (per tutti noi che siamo attaccati al nostro io facendone una forma di ricchezza!).

Prima di tutto nel modo in cui il padre Abramo gli si rivolge: “figlio”. È davvero toccante questo nome con il quale Abramo lo chiama. Sembra quasi che il grido del ricco (“padre Abramo abbi pietà di me!”) abbia risvegliato in lui la sua dignità filiale. Non si è comportato da “figlio” mentre era in vita perché non ha riconosciuto in Lazzaro un fratello, ma c’è ancora un “figlio” in lui. E Dio puo’ restare insensibile di fronte a un figlio che grida a Lui (cfr. Lc 11,5-13)?

Un altro elemento di speranza lo troviamo nell’ultima risposta di Abramo: “hanno Mosé e i profeti: ascoltino loro”. Dio non smette di rivolgere all’uomo una parola che lo possa aiutare ad aprirsi. L’ascolto di una parola vicina (“Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”, Dt 30,14) può ancora aprire l’uomo alla salvezza, cioè a convertirsi dall’attaccamento alle sue ricchezze che lo rendono cieco. È proprio l’ascolto della parola di “Mosé e dei profeti” (cioè di tutta la Scrittura!) che potrà aprire al riconoscimento del Figlio: è Lui infatti che “da ricco che era si è fatto povero” (2Cor 8,9) e che tornando dai morti ha attraversato l’abisso. Sì, ora c’è un ponte aperto fra il regno dei morti e il “seno di Abramo”. Quel ponte è Gesù stesso, Lui che tiene aperta per noi la possibilità di vivere da figli e da fratelli, anche quando la ricchezza del nostro io ci chiude fino a farci morire.

Viviamo quindi nella speranza, tenendo aperto il varco dell’ascolto della Parola. Sarà questa parola ad aprirci le porte del Regno, passando per il mondo dell’altro riconosciuto come fratello!

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Anche questa domenica ritorna il messaggio sferzante di Amos e di Luca sull’uso delle ricchezze. Il profeta Amos (VIII secolo av. C.), in un’epoca di benessere lanciava dure minacce (I lettura) ai ricchi del paese che gozzovigliavano impoltroniti su letti d’avorio, fra banchetti, musiche, vino, unguenti raffinati… (v. 4-6); vivevano da spensierati e dissoluti, incuranti della rovina che incombeva sul paese: i due regni del nord e del sud sarebbero finiti presto in esilio a Ninive e a Babilonia (v. 6-7).

Ritorna ancora nel Vangelo di oggi il giudizio critico e severo di Luca circa il denaro, la ricchezza, l’ingiustizia sociale… Nella parabola di Gesù, il ricco epulone è interessato soltanto a due cose nella vita: vestirsi di lusso e banchettare lautamente ogni giorno (v. 19). Con due pennellate Luca descrive la drammatica differenza fra il ricco e il povero Lazzaro affamato, piagato, leccato dai cani (v. 21-21). C’è solo una cosa in comune fra i due: la morte che arriva inesorabilmente (v. 22). Ma subito emerge una nuova differenza ancora più drammatica, per il destino opposto che li separa irrimediabilmente: il povero è “portato dagli angeli accanto ad Abramo” (v. 22), amico di Dio, mentre il ricco finisce “negli inferi fra i tormenti” (v. 23), incapace ormai di ottenere una goccia d’acqua (v. 24-25), l’annullamento del “grande abisso” (v. 26), un messaggio di ammonimento per i suoi cinque fratelli (v. 28).

Nella parabola l’uomo ricco non ha un nome, mentre Gesù dà un nome al povero: Lazzaro, (Eleazaro, significa “Dio aiuta“) per indicarne la dignità e la certezza che, appunto, “il Signore lo aiuta”. Dio è l’unico che pensa al povero e lo aiuta. La parabola racconta il capovolgimento di due situazioni opposte durante la vita e dopo la morte dei due personaggi, senza emettere un giudizio morale sulla loro condotta, al punto che non si capisce immediatamente per quali motivi il ricco venga condannato, mentre il povero si salva. Non si dice che il povero fosse una persona pia, umile, fedele, lavoratore… Non si dice neppure che il ricco fosse ladro, vizioso, cattivo con i servi, non osservante dei comandamenti… Perché allora quel capovolgimento di situazioni? Perché c’è una situazione che è in se stessa peccaminosa: la disuguaglianza tra ricchi e poveri è contraria al piano di Dio, che vuole, invece, la condivisione dei beni. Il peccato del ricco è l’egoismo, l’indifferenza: “non vede”, non fa nulla per il povero. Il vero discepolo di Gesù non è colui che non fa del male, ma colui che aiuta a vivere, che si fa prossimo di chi è nel bisogno. “Il primo miracolo è accorgersi che l’altro, il povero esiste” (Simone Weil). Infatti, l’odierna parabola di Luca ha una stretta relazione con quella del buon samaritano (cfr. Lc 10,29-37).

Con questa parabola Gesù vuole insegnare che il piano di Dio per la famiglia umana non ammette che ci siano disuguaglianze scandalose: cioè, “che lo straricco possa convivere accanto al miserabile, a patto che non rubi e faccia elemosine. È proprio questa convinzione che Gesù vuole demolire. Nella parabola Egli parla di un ricco che viene condannato non perché cattivo, ma semplicemente perché era ricco, cioè, perché si chiudeva nel suo mondo e non accettava la logica della condivisione dei beni. Gesù vuole fare capire ai discepoli che l’esistenza in questo mondo di due classi di persone -i ricchi e i poveri- è contro il progetto di Dio. I beni sono stati dati per tutti e chi ne ha di più deve condividerli con coloro che ne hanno di meno” (F. Armellini).

S. Ambrogio lo esprime così: “Quando tu dai qualcosa al povero, non gli offri ciò che è tuo, gli restituisci soltanto ciò che è già suo, perché la terra e i beni di questo mondo sono di tutti, non dei ricchi”. Un capovolgimento radicale! Una ventata di speranza per una nuova era della vita sulla terra! Il piano alternativo di Dio è bello e da realizzare nel tempo; è la meta davanti a noi, il traguardo da raggiungere, gradualmente, con metodi pacifici. L’importante è camminare nella giusta direzione: condividere con i fratelli in necessità il tanto o il poco che abbiamo, e diffondere la logica e lo stile dell’autentica solidarietà.

Utopia? Gli ultimi pontefici non esitano a riproporre con forza nelle loro encicliche sociali il piano alternativo di Dio circa la fame e le disuguaglianze: Giovanni XXIII (Pacem in Terris, 1963), Paolo VI (Populorum Progressio, 1967), Giovanni Paolo II (Sollicitudo Rei Socialis, 1987), Benedetto XVI (Caritas in Veritate, 2009), Papa Francesco (Laudato Si’, 2015). Questi documenti sociali hanno una straordinaria forza missionaria in ordine a quella trasformazione del mondo secondo il piano di Dio, che è l’obbiettivo del Vangelo. Il messaggio è sublime. Non va indebolito con cedimenti sulla dottrina e nella prassi, con sconti, lentezze e concessioni; va vissuto come profezia e con esperienze di frontiera. Dove trovare la forza necessaria per realizzare questo radicale progetto di Dio? La parabola odierna ci rimanda per due volte alla Parola: ascoltare Mosè e i Profeti (v. 29.31). La Parola -il Vangelo- è l’unica forza per la conversione personale e la trasformazione del mondo. Per noi oggi quella Parola è vicina, si è fatta carne e salvezza per tutti; è Gesù, come ricorda S. Paolo a Timoteo (II lettura).

Vi fu un tempo in cui Dio sembrava alleato dei ricchi: il benessere, la fortuna, l’abbondanza di beni erano considerati segni della sua benedizione.

La prima volta che nella Bibbia compare la parola ebraica kesef (che significa argento o, più comunemente, denaro) è riferita ad Abramo. Egli “era molto ricco in bestiame, argento e oro” (Gen 13,2); Isacco “fece una semina e raccolse in quell’anno il centuplo. Il Signore, infatti, lo aveva benedetto. Divenne ricco e crebbe tanto in ricchezza da divenire ricchissimo” (Gen 26,12-13); Giacobbe possedeva innumerevoli “buoi, asini e greggi, schiavi e schiave” (Gen 32,6). Anche il Salmista non sa promettere di meglio al giusto; dice: “Abbondanza e ricchezza saranno nella tua casa” (Sal 112,3).

La povertà era un disonore. Si riteneva fosse conseguenza della pigrizia, dell’ozio e della sregolatezza: “Un po’ dormire, un po’ sbadigliare, un po’ incrociare le braccia per riposare e intanto arriva, passeggiando, la miseria” (Prv 24,33-34).

Con i profeti avviene un capovolgimento di prospettiva: si comincia a capire che i beni accumulati dai ricchi non sono sempre frutto del loro onesto lavoro e della benedizione di Dio, ma spesso il risultato di imbrogli, di violazioni dei diritti dei più deboli.

Anche i sapienti d’Israele ne denunciano i rischi: “La sazietà del ricco non lo lascia dormire” (Qo 5,11); “L’oro ha corrotto molti” (Sir 8,2).

Gesù considera sia l’avidità dei beni di questo mondo, sia la ricchezza onestamente guadagnata come ostacoli quasi insormontabili all’entrata nel regno dei Cieli. L’inganno della ricchezza soffoca il seme della Parola (Mt 13,22), tende a conquistare progressivamente tutto il cuore dell’uomo e a non lasciare più alcuno spazio né per Dio né per il prossimo.

Beato è chi si fa povero, chi non si affanna più per quello che mangerà o berrà, chi non si preoccupa per il vestito e non s’inquieta per il domani (Mt 6,25-34). Beato è chi condivide tutto ciò che possiede con i fratelli.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi”.

Prima Lettura (Am 6,1a.4-7)

Così dice il Signore onnipotente:
1 “Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
4 Essi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
5 Canterellano al suono dell’arpa,
si pareggiano a David negli strumenti musicali;
6 bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
7 Perciò andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei buontemponi”.

Abbiamo visto domenica scorsa qual era la situazione economica e sociale in Israele al tempo di Amos. C’erano benessere, pace, prosperità, ma anche tante ingiustizie.

Il profeta ha alzato la voce contro i mercanti che estorcevano e truffavano i poveri. La lettura di oggi ci propone un altro brano dello stesso profeta e questa volta ad essere attaccati sono i capi politici e gli aristocratici che abitano in lussuosi palazzi “in pietra squadrata” (Am 5,11) nella città di Samaria (v.1).

Il contadino Amos non sopporta la vista di questi fannulloni che poltriscono, banchettano, organizzano feste e si sollazzano mentre i braccianti sfruttati faticano dall’alba al tramonto nei loro campi per una paga irrisoria. Amos, il pecoraio rude, abituato a dormire all’addiaccio, sente ripugnanza per queste gozzoviglie.

La satira che fa dei crapuloni di Samaria è viva, efficace e dettagliata: hanno letti d’avorio, si sdraiano su soffici materassi, i loro cibi sono gustosi e prelibati, mangiano solo carni tenere di capretti e di vitelli che non hanno ancora assaggiato l’erba, che hanno succhiato soltanto latte (v.4). Suonano, danzano, si esibiscono come cantautori, sembrano voler competere con Davide (v.5). Bevono vini dei migliori e si ungono con profumi di alta qualità e non si preoccupano della rovina che sta per colpire l’intera nazione (v.6).

La lettura si conclude con una minaccia terribile: ancora pochi anni e verranno i nemici, gli Assiri, che bruceranno i palazzi e distruggeranno la città. I capi indolenti saranno strappati dai loro molli divani e saranno trascinati schiavi a Ninive. Così finirà – promette Amos – l’orgia dei buontemponi (v.7). Parole terribili contro i ricchi e i potenti! Parole mai udite prima in Israele.

Seconda Lettura (1 Tm 6,11-16)

11 Tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. 12 Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
13 Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, 14 ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, 15 che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori, 16 il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Chi scrive a Timoteo, vescovo di Efeso, è preoccupato perché nelle comunità cristiane si stanno infiltrando dei “falsi maestri” che diffondono strane dottrine che fanno deviare i cristiani dalla verità.

Nell’ultima parte della lettera vengono descritti i vizi di queste persone: sono accecate dall’orgoglio, non comprendono nulla, perdono tempo in discussioni vane e, ciò che è peggio, considerano la religione come una fonte di guadagno. L’attaccamento al denaro – dichiara – “è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,3-10).

A questo punto della lettera inizia il brano che è riportato dalla lettura di oggi. L’Apostolo raccomanda a Timoteo di fuggire questi mali e di coltivare la giustizia, la pietà, la fede, la carità, la pazienza e la buona disposizione nei confronti di tutti (v.11).

Questo elenco di virtù è proposto ad ogni cristiano affinché rifletta sulla sua situazione spirituale. È soprattutto chi presiede una comunità che deve meditare su di esse. I fedeli, infatti, guardano a lui come ad un modello da imitare.

Nell’ultima parte della lettura (vv.12-16) l’autore ritorna di nuovo sul problema che più lo preoccupa: le false dottrine che possono infiltrarsi nella comunità cristiana. Per questo scongiura Timoteo di conservare, irreprensibile e senza macchia, il Vangelo che gli è stato annunziato.

Vangelo (Lc 16,19-31

Cari poveri, in questo mondo la vostra vita è dura e, a volte, sembra davvero un inferno: abitate in baracche, soffrite la fame, vi coprite di stracci, siete pieni di piaghe. I ricchi invece dimorano in splendidi palazzi, sperperano denaro in feste, ville lussuose, vestono abiti firmati. Ma non prendetevela! Nell’altro mondo le condizioni saranno capovolte: voi gioirete mentre essi soffriranno. È solo questione di avere un po’ di pazienza e Dio tramuterà i loro piaceri in atroci tormenti!

Intesa così, la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro diviene “oppio del popolo”: serve a tenere buoni i poveri alimentando in loro il sogno di un avvenire migliore. Va bene anche ai ricchi i quali, senza angosciarsi troppo per l’inferno nell’aldilà, cominciano a godersi il paradiso nell’aldiqua.

Le grandi sperequazioni erano praticamente inconcepibili nell’antico Israele dove non era possibile arricchirsi a scapito degli altri. All’arrivo dell’anno giubilare, infatti, tutto doveva tornare ai legittimi proprietari (Lv 25). Ma le leggi possono sempre essere aggirate e chi non ha paura dei castighi di Dio ha cominciato già al tempo dei profeti ad aggiungere casa a casa e a unire campo a campo (Is 5,8). Le piccole proprietà familiari sono state gradualmente assorbite dai latifondisti e le terre sono finite nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di persone.

Al tempo di Gesù si attendeva un rovesciamento di questa situazione. Si diceva tra la povera gente: “Un giorno i potenti saranno consegnati nelle mani dei giusti; questi taglieranno loro la gola e li uccideranno senza pietà”. “Coloro che non valgono nulla domineranno sui potenti e i poveri regneranno sui ricchi”.

La parabola che leggiamo nel Vangelo di oggi è nata in questo contesto.

Per comprenderla cominciamo a identificare i personaggi.

Uno che non viene nominato: è colui che, nell’altro mondo, a mettere a posto ciò che in questo mondo non è andato bene, è Dio. I suoi pensieri e le sue decisioni sono posti sulla bocca di Abramo al quale, dunque, spetta il ruolo di protagonista.

Poi viene il ricco che pure recita una parte importante: il suo dialogo con Abramo occupa due terzi del racconto (vv.24-31).

Infine Lazzaro, che rimane sempre nell’ombra. Non dice nemmeno una parola, non fa assolutamente nulla, non muove un dito, non fa un passo. Egli sta sempre seduto: in terra alla porta del ricco, in cielo in braccio ad Abramo e, durante il viaggio, è trasportato dagli angeli.

Se volessimo dare un titolo alla parabola, sarebbe scorretto chiamarla: la parabola del povero Lazzaro (che non è il protagonista), oppure: la parabola del cattivo ricco. Il messaggio centrale del racconto riguarda il giudizio di Dio sulla distribuzione della ricchezza nel mondo.

In nessun’altra parabola Gesù assegna un nome ai personaggi. Solo in questa si dice che il povero si chiamava Lazzaro.

In questo mondo chi “ha un nome”? A chi sono dedicate le prime pagine dei giornali? Ai ricchi, a chi ha avuto successo. Per Gesù succede il contrario.

Per lui il ricco è un tale, mentre il povero ha un nome molto espressivo, si chiama Lazzaro che vuol dire Il Signore aiuta.

Dopo aver elencato i personaggi concentriamo l’attenzione su ognuno, cominciando dal ricco che è stato condannato, anche se, a dire il vero, non si capisce bene il perché. Non ha fatto niente di male: non si dice che rubasse, che non pagasse le tasse, che strapazzasse i suoi servi, che bestemmiasse, che fosse un dissoluto, che non fosse un religioso praticante.

Forse era insensibile ai bisogni degli altri, non aiutava i poveri e dunque commetteva un grave peccato di omissione. Ma anche questo non sembra vero: se Lazzaro stava alla sua porta e non andava da un’altra parte, vuol dire che qualche briciola la rimediava. La condizione in cui veniva lasciato era disumana: doveva accontentarsi della mollica con cui i commensali si pulivano la dita (in quel tempo non si usavano posate) e il dettaglio dei cani conferisce un impareggiabile realismo alla scena.

E il ricco? Faceva la sua vita, gozzovigliava, si vestiva all’ultima moda, ma sempre spendendo del suo. Dunque – almeno secondo il modo corrente di pensare e di giudicare – aveva un comportamento morale ineccepibile.

Del resto quando Abramo gli nega la goccia d’acqua, non gli rinfaccia alcuna colpa. Si limita a ricordargli che egli è stato ricco e in terra ha goduto, mentre Lazzaro ha sofferto. Poi in cielo le cose si sono capovolte. Ma non viene spiegato il perché. Meglio dunque non parlare del “cattivo ricco”.

C’è chi tende a demonizzare i ricchi, a considerarli sempre e comunque colmi di nequizia e ad esaltare i poveri, erigendoli a modelli di ogni virtù. Lazzaro ne sarebbe il prototipo, l’ideale.

Ma siamo così sicuri che Lazzaro fosse buono? Cosa ha fatto per meritarsi il paradiso? Nulla. Lo abbiamo notato: durante tutta la sua vita non ha mosso un dito. Non si dice che era umile e educato, che andava a pregare nella sinagoga, che era stato un padre di famiglia laborioso ed esemplare e che era diventato povero perché colpito dalla sventura. Chi ci assicura che non fosse un fannullone, uno che aveva sperperato tutti i suoi beni? E le sue piaghe, non potrebbero essere la conseguenza di malattie contratte con una vita dissoluta? Di lui si sa solo che sulla terra era povero e che la sua situazione era poi cambiata. Ma non ne viene spiegata la ragione.

Che dire infine dell’atteggiamento di Abramo?

A nessuno di noi – credo – questo personaggio risulta simpatico. In Israele si riteneva che egli, essendo il padre del popolo e l’amico di Dio (Dn 3,35), potesse, con la sua intercessione, togliere i suoi figli perfino dall’inferno. Bene, egli nega una goccia d’acqua ad un povero disgraziato. Si può essere a tal punto senza cuore? Il ricco manifesta sentimenti migliori: pur nei tormenti, si preoccupa dei suoi fratelli.

Mettendo insieme tutti questi elementi possiamo già trarre una prima conclusione: la parabola non vuole dare un giudizio sul comportamento morale del ricco e del povero. Non vuole dire che chi si comporta bene va in paradiso e chi fa il male va all’inferno, perché – risulta chiaro – il ricco non ha commesso colpe e Lazzaro non ha compiuto opere buone.

E allora? Semplice: vuol dire che la parabola ha un altro messaggio. Cerchiamo di approfondire.

Nell’antichità circolavano storie simili alla nostra, dove i ricchi andavano sempre a finir male. Si raccontava ad esempio di un ricco che aveva sfruttato i poveri e che, dopo la sua morte, era stato cacciato nel luogo del castigo. Lì era stato collocato sotto una porta e gli era stato infilato nell’occhio il chiodo sul quale la porta ruotava, così, ogni volta che qualcuno entrava o usciva, lui pativa… le pene dell’inferno.

I predicatori del tempo di Gesù usavano spesso tali immagini colorite; parlavano volentieri di castighi crudeli perché erano convinti che queste minacce servissero a far rinsavire le persone.

Anche Gesù usava queste immagini, comprese quelle terribili: parlava di banchetti, di corsi d’acqua fresca, ma anche di fiamme che torturano, di stridore di denti e di un invalicabile abisso che separa i giusti dai malvagi (v.26). Si tratta delle classiche immagini create dalla fervida fantasia degli Orientali per rappresentare l’aldilà. Sarebbe ingenuo ricavarne conclusioni teologiche riguardo all’inferno, ai castighi e al fuoco eterno e sarebbe del tutto fuorviante attribuire a Dio il comportamento severo, spietato, quasi crudele di Abramo nei confronti di un peccatore pentito.

Il “grande abisso” vuole solo ricordare al discepolo una verità fondamentale, questa: il destino dell’uomo si gioca tutto in quest’unica, irrepetibile vita.

Veniamo al messaggio della parabola.

Abbiamo una distinzione che a molti pare logica e naturale, quella fra ricchi buoni e ricchi cattivi: viene così mantenuta la convinzione che possano continuare ad esistere in questo mondo le disuguaglianze e che lo straricco possa convivere accanto al miserabile, a patto che non rubi e che faccia elemosine.

È proprio questo modo di pensare che Gesù considera pericoloso. È questa convinzione che egli vuole demolire. Nella parabola egli parla di un ricco che viene condannato non perché cattivo, ma semplicemente perché era ricco, cioè, perché si chiudeva nel suo mondo e non accettava la logica della condivisione dei beni.

Gesù vuole fare capire ai discepoli che l’esistenza in questo mondo di due classi di persone – i ricchi e i poveri – è contro il progetto di Dio. I beni sono stati dati per tutti e chi ne ha di più deve condividerli con coloro che ne hanno di meno o non hanno nulla, in modo che ci sia uguaglianza (Cf. 2 Cor 8,13). Così, prima che qualcuno possa concedersi il superfluo, è necessario che tutti abbiano soddisfatto i bisogni più elementari.

Commentando questa parabola, Sant’Ambrogio diceva: “Quando tu dai qualcosa al povero, non gli offri ciò che è tuo, gli restituisci soltanto ciò che è già suo, perché la terra e i beni di questo mondo sono di tutti, non dei ricchi”.

L’ultima parte della parabola (vv.27-31) sposta l’attenzione sui cinque fratelli del ricco che continuano a vivere in questo mondo e che corrono il rischio di rovinarsi facendo cattivo uso dei beni. Rappresentano i discepoli delle comunità cristiane (il numero cinque indica tutto il popolo d’Israele) i quali sono tentati di attaccare il cuore alla ricchezza.

Come possono essere distolti dalla seduzione che essa esercita in modo così irresistibile? Il ricco epulone ha una sua proposta e la ripete con insistenza, per due volte, perché gli pare l’unica capace di raggiungere l’obiettivo, di provocare la conversione, di portare al ravvedimento dei cinque fratelli. Supplica il padre Abramo di far giungere prodigiosamente – mediante una visione o un sogno – un messaggio dall’oltretomba.

La risposta di Abramo a questa fiducia nella capacità persuasiva dei miracoli è ferma e chiara: l’unica forza capace di staccare il cuore del ricco dai suoi beni è la parola di Dio. “Mosè e i Profeti” era la formula con cui, al tempo di Gesù, si indicava tutta la sacra Scrittura. Solo questa Parola può compiere il prodigio di fare entrare un ricco nel regno dei cieli. Sì, perché occorre proprio un miracolo, un miracolo difficile quanto quello di far passare un cammello attraverso la cruna di un ago (Lc 18,25). Chi non si lascia scalfire dalla parola di Dio è certamente impermeabile e refrattario a qualunque altra argomentazione.

Per gentile concessione di
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