Per gentile concessione dell’autore
dal vecchio sito www.studibiblici.it

Alberto Maggi è un noto biblista. Il testo che segue è la trascrizione di alcune conversazioni tenute nel 1995 e non rivisto dall’autore. Si invita pertanto il lettore a tenerne conto, cogliendo il messaggio al di là delle forme e delle modalità con cui è stato trasmesso.
Padre Alberto si esprime in uno stile colloquiale, provocatorio e talvolta ironico. Alcune espressioni e idee possono risultare personali e non sempre condivisibili, ma lasciano comunque trasparire l’amore per la Parola di Dio e la sua freschezza.

Prefazione

Questi incontri che facciamo hanno un filo conduttore negli elementi specifici di ogni evangelista, che naturalmente non si possono esaurire in un incontro annuale. Abbiamo cominciato con Giovanni e nel suo vangelo abbiamo analizzato e visto questa meravigliosa realtà: l’ottimismo di Dio. Sia chiaro che tutti gli evangelisti dicono la stessa cosa, tutti partono dalla grandissima novità che è apparsa con Gesù: Dio è amore. Una novità sconvolgente che ancora, nonostante siano passati 2000 anni, non è stata del tutto compresa; ancora si sentono espressioni che negano la realtà di un Dio che è amore. Si pensa a un Dio minaccioso, a un Dio che castiga, a un Dio che, in qualche maniera, è invidioso della felicità dell’uomo. Un Dio schizofrenico! Da una parte viene presentato come un padre ricco di un amore tenero nei confronti dei suoi figlioli e dall’altra, ancor oggi, viene temuto come un dio geloso della felicità degli uomini. Un Dio che, quando vede una famiglia, o un individuo star bene, è pronto a calare la mannaia della sua “vendetta delle felicità”, che poi viene contrabbandata con il termine “volontà di Dio”, o “la croce”.

Questo, purtroppo, avvelena l’esistenza di tante persone, non soltanto quando le cose vanno male, ma anche quando vanno bene. Ci sono persone che non riescono a star bene neppure quando stanno bene, perché temono sempre che Dio si accorga della loro felicità e che arrivi puntuale mandando una sofferenza. E quando nella vita capitano inconvenienti, momenti difficili, la gente dice: lo sentivo, andava troppo bene, doveva capitare qualcosa. Quindi, un Dio nemico della felicità dell’uomo.

Finalmente con Gesù, 2000 anni fa, si è visto che Dio non è così, Dio è amore. E nel vangelo di Giovanni abbiamo analizzato l’ottimismo di Dio nei confronti dell’uomo; un Dio che è talmente innamorato dell’uomo, che non gli basta averlo creato com’è e dice: è troppo poco, lo voglio innalzare alla mia stessa condizione. Quindi un Dio che invita tutti quanti a raggiungere la sua stessa condizione divina. Mentre nel libro della Genesi c’è un Dio geloso della propria condizione e, quando il signor Adamo e la signora Eva tentano di aver la condizione divina, li caccia, geloso del suo paradiso, nel vangelo di Giovanni no! E’ Dio stesso che dice: è troppo poca la vostra condizione terrena, vi voglio innalzare al mio stesso livello.

Nel vangelo di Marco, poi, abbiamo visto la concretizzazione di questo amore di Dio. Se ricordate, per chi c’era l’anno scorso, abbiamo visto i personaggi anonimi del vangelo di Marco, cioè individui che rappresentano determinate categorie, o atteggiamenti della persona dove questo amore viene concretizzato. E c’era una costante, valida sempre: questo Dio non va cercato, ma accolto. Se uno si mette alla ricerca di Dio, non trova mai il vero Dio, perché se io mi metto alla ricerca di Dio, significa che ho già un’idea su chi è questo Dio che devo cercare, o almeno ho un’immagine, una sembianza di cosa deve essere questo Dio. Quindi cerco un Dio secondo le mie idee, secondo le mie suggestioni. Dio non va cercato, ma va accolto.

Quest’anno vedremo le conseguenze estreme di questa realtà, di un Dio che è amore. Se l’anno scorso abbiamo visto categorie di persone che accolgono questo amore, quest’anno vedremo i lati estremi. Infatti il titolo che abbiamo dato a questi incontri è “gli esclusi nel vangelo di Luca”. Se Dio è amore e ogni suo atteggiamento è amore, questo amore giunge a tutti quanti.

L’anno prossimo, se vorremo ancora continuare, vedremo le modalità pratiche, concrete per completare l’accoglienza di questo amore, trattando il tema delle beatitudini e del Padre Nostro. Dicevamo che Luca porta alle estreme conseguenze questa realtà d’amore; il suo è un vangelo scabroso, l’unico vangelo che venne censurato dalle comunità primitive. Il vangelo di Luca conteneva dei brani, in particolare uno, talmente scabroso, che nessuna comunità lo voleva. Era una sorta di patata bollente che, quando arrivava in una comunità, veniva tagliato; questo gioco è durato per tre secoli, fino a quando è finito nel vangelo di Giovanni, ma non è di Giovanni. Vi parlo del famoso episodio del perdono concesso da Gesù così facilmente e senza apporre nessuna condizione, all’adultera colta in flagrante adulterio. Questo brano nella chiesa primitiva, che era molto severa specialmente per la pratica penitenziale, scandalizzava talmente che nessuna comunità lo voleva. Era scritto da Luca, faceva parte del suo vangelo, (esattamente dopo il versetto 38 del capitolo 21), ma scandalizzava così tanto che Gesù concedesse il perdono ad una adultera colta in flagrante senza porle alcuna condizione, che le comunità erano allarmate. “Se le nostre donne si accorgono che questo Gesù è così di manica larga…dove andremo a finire!?” Pertanto, lo stesso vangelo è stato censurato e per tre secoli passato da una comunità all’altra, finché è finito nelle comunità di Giovanni. Ma il brano della donna adultera, attualmente nel vangelo di Giovanni, dopo il capitolo ottavo, è con certezza, sia per il vocabolario usato, sia per i riferimenti interni, di Luca. Pensate che, fino al dodicesimo secolo, nessun padre greco lo ha mai commentato, tanto era scandaloso.

Cosa c’è di tanto scandaloso in questo Luca? Luca porta alle estreme conseguenze questa enorme novità che si è affacciata nella storia: Dio è amore! Amore per chi, per chi se lo merita? No! Dio è amore soprattutto per chi non se lo merita. Sarà Luca l’unico evangelista (capitolo 6, versetto 35) ad usare questa espressione straordinaria, perché Dio dimostra il suo amore agli ingrati e ai malvagi (Matteo invece scrive: sui buoni e sui malvagi). Quindi un Dio che non punisce, un Dio che non castiga, un Dio che non minaccia, perché, essendo amore, ogni sua manifestazione sarà unicamente d’amore. Ma, se Dio non punisce i malvagi, se Dio non castiga… non c’è più religione! Infatti, finalmente è finita la religione, è finito quell’insieme di atteggiamenti che l’uomo doveva tenere nei confronti di Dio e inizia quella meravigliosa avventura di cosa significa accogliere Dio nella nostra vita: un Dio di amore. Questo lo vedremo in particolare domani mattina.

Questa sera mi preme darvi alcune indicazioni sullo stile di Luca, perché Luca non è facile da leggere; è l’evangelista più lungo di tutti, probabilmente quello che scrive con il greco più raffinato e soprattutto ha un suo stile che, se non viene compreso, rischia di travisare il suo insegnamento.

Qual è lo stile di Luca? Prima ricordo, per prevenire qualche domanda che senz’altro verrebbe fatta, che il vangelo non è stato scritto per essere letto dalle persone comuni, perché la maggior parte di loro era analfabeta. Il vangelo è stato scritto dal letterato di una comunità, un grande letterato, che trasmetteva questo testo ad un’altra comunità, dove un altro letterato lo leggeva e lo interpretava ai fedeli. Quindi il vangelo non è stato scritto per essere letto dalla gente, per questo è così ricco e denso di significati. Molti infatti si domandano: se il vangelo deve essere per tutti, perché è così complicato, così difficile? Appunto perché il vangelo non è stato scritto per essere letto da tutti, ma deve essere interpretato dal letterato della comunità.

Luca ha una tecnica particolare: fa in maniera che l’uditorio, sentendo descrivere un individuo, o determinati individui, o determinate situazioni, arrivi ad una tale suspense con un “oh…” di sorpresa, di meraviglia e di ammirazione. Ebbene Luca, appena è riuscito a suscitare “l’oh…” di meraviglia, ecco che toglie il piedistallo e l’individuo, o la situazione tanto decantate, crollano a terra. Questo è lo stile di Luca e se non si comprende questo, si rischia di travisare il suo messaggio.

In particolare questa sera vediamo tre aspetti. All’inizio, scrive l’evangelista, al tempo di re Erode, in Giudea, c’era un sacerdote…; quindi Luca inizia il suo vangelo come si deve, cominciando dai preti. Dice: c’era un sacerdote che si chiamava Zaccaria. L’anno scorso abbiamo visto dei personaggi anonimi dei vangeli, che sono personaggi nei quali ognuno si può identificare, mentre questa sera, lo vedremo, abbiamo dei personaggi con un nome. Ognuno di questi nomi ha un significato simbolico che ci fa comprendere l’atteggiamento dell’individuo. Zaccaria, in ebraico, significa “Dio si ricorda” e vedremo, appunto, che Dio si è ricordato di lui.

Quindi Luca ci presenta il suo personaggio “Zaccaria”, un sacerdote della categoria “ottava”. Al tempo di Gesù le famiglie sacerdotali erano suddivise in classi, per un totale di circa 18000 individui. Sapete che, a quell’epoca, il sacerdozio era appannaggio delle famiglie sacerdotali che lo tramandavano di padre in figlio. Le categorie erano 24, e Zaccaria era dell’ottava categoria; quindi una delle categorie più elevate. Vedete la suspense: il messaggio di Gesù che incomincia da un sacerdote di una delle classi più importanti.

Zaccaria aveva per moglie una discendente di Aronne. Qui, cari miei, siamo nel fior fiore dell’aristocrazia sacerdotale. Aronne era il fratello di Mosè e pertanto abbiamo nientemeno che una nipote di Mosè, il fondatore, il legislatore della religione ebraica. Quindi un sacerdote che ha sposato nientemeno che una discendente di Aronne e Mosè. Ma non basta, dice che il suo nome è Elisabetta, che vuol dire, in ebraico, “il Signore ha promesso”. L’evangelista continua dicendo che erano tutti e due “giusti”. Dire “giusti” non era un connotato morale, ma una specie di confraternita che si impegnava ad applicare fedelmente nella vita quotidiana tutti quei precetti che i sacerdoti, una volta all’anno, dovevano osservare nella settimana di servizio al tempio. Tutte quelle particolari regole di purezza, tutte quelle particolari preghiere, tutti quegli atteggiamenti di riverenza e di devozione che il sacerdote osservava una volta all’anno, nella settimana di servizio al tempio, questa categoria di bigotti (ma lì, si chiamavano giusti) si impegnava ad osservarle per tutti i giorni della propria esistenza.

Zaccaria ed Elisabetta erano delle persone “giuste”, cioè perfette devote di tutti i dettagli della legge. Infatti l’evangelista scrive che erano giusti davanti a Dio, perché camminavano in sintonia con tutti i comandamenti di Mosè e soprattutto, in maniera scrupolosa, con tutti i precetti. Ricordo che i precetti, nella legge di Mosè, erano ben 613: 365 proibizioni e 248 comandamenti per un totale di 613. Perché 365 e 248? Perché 365 sono i giorni dell’anno e 248, secondo la cultura ebraica, sono i componenti del corpo umano. Si intendeva dire che tutto l’uomo, per tutto l’anno osservava tutti questi 613 precetti, che prescrivevano e regolavano la vita dell’individuo già dal risveglio e fino alla notte.

Era una vita abbastanza complicata, che sceglievano volontariamente, senza alcun obbligo, cadenzata da preghiere e atteggiamenti riverenziali. C’è addirittura la preghiera con la quale alla mattina si mette il piede per terra e così per tutto l’arco della giornata. ecco che Luca ci fa un ritratto straordinario: un prete, una nipote di Mosè, appartengono alla confraternita dei giusti, cioè dei fedeli osservanti della legge; addirittura non osservano solo i 10 comandamenti, ma osservano in maniera scrupolosa tutti i 613 precetti. L’ascoltatore, di mentalità ebraica, è al massimo della meraviglia, perché veramente abbiamo il fior fiore della religione.

Ma, ecco lo stile di Luca; quando ha innalzato il suo modello, in un attimo lo sbaraglia! Infatti dice: ma erano senza figli. L’essere senza figli, in quella cultura, significava essere maledetti da Dio. Perché a quell’epoca non era ancora chiara l’idea dell’aldilà e la “retribuzione” di Dio era tutta terrena. Dio premia il buono, il devoto, con lunga vita, moglie feconda, quindi abbondanza di figli e ricchezza. Dio castiga il malvagio con vita breve, moglie sterile e di conseguenza niente figli. C’è quindi una contraddizione: abbiamo una coppia che è il fior fiore della religione, ebbene, scrive l’evangelista, non ha figli.

Ma non basta il fatto che non abbia figli; infatti, scrive Luca che Elisabetta era sterile. Essere sterili era segno di maledizione. E’ scritto nel libro di Giobbe: la generazione dell’empio sarà sterile. Allora qui c’è qualcosa che non quadra. Ma come, con tutta questa religiosità, con tutta questa osservanza, con tutte queste preghiere, tutte queste devozioni, la moglie è sterile e non hanno figli!

Ecco già la prima caratteristica di Luca, il cui vangelo è stato chiamato il vangelo anticlericale per eccellenza; ecco il frutto di una vita religiosa: l’inutilità, la sterilità. Una vita dove l’unica preoccupazione è far contento Dio a forza di osservanze religiose, scrupolose (chissà se oggi ho detto il numero giusto di preghiere, diciamone una in più non si sa mai; chissà se ho osservato tutte quelle pratiche; chissà se ho fatto del bene…) una vita tutta volta a piacere a Dio, agli occhi di Gesù (perché Luca non fa altro che rifletterci l’insegnamento di Gesù), è una vita assolutamente inutile, perché non produce frutto.

Qui siamo alle prime righe con le quali si apre il vangelo, ma Luca porterà avanti questo insegnamento in tutto il suo vangelo. In particolare, più avanti c’è l’episodio di quel signore che, lasciando la casa, affida i suoi beni ai suoi funzionari e ai suoi servi. Quando ritorna, a colui che aveva dato 10, vedendo che ha prodotto altri 10, dice: bene, prendi tutto. Poi arriva ad un altro e vede che questo, per paura di rischiare e di perdere quello che il signore gli aveva affidato, lo ha nascosto sotto un “sudario” (questo è il termine che usa l’evangelista, anche se normalmente viene tradotto con fazzoletto o panno). Sudario era il telo di lino bianco che si metteva sopra il volto del defunto, per non vedere i guasti della putrefazione causati dalla morte.

La denuncia che fa l’evangelista è questa: in quella vita nella quale non si è rischiato, nella quale si ha avuto paura di perdere quello che si possedeva, si ha avuto paura di danneggiarlo e che viene consegnata immacolata, apparentemente verginale a Dio (ecco il sudario che la copre), quando si toglie il sudario si vede la putrefazione di una vita che è stata inutile. Una persona che ha vissuto soltanto per sé, per difendere e salvaguardare la propria integrità, e che non si è donata agli altri, (scrive l’evangelista che esprime il pensiero di Gesù), ha vissuto una vita inutile. Apparentemente c’è il velo bianco del sudario, apparentemente è una vita linda, pulita; togliete il sudario c’è putrefazione e vermi! Perché una vita, o si comunica e si dona agli altri e quindi produce vita, o rimane chiusa in sé stessa e va in putrefazione.

Sarà sempre Luca, unico evangelista che, prendendo di mira proprio questi santoni, questi farisei, questa gente dalla vita tanto devota, dice: attenti, perché “sono sepolcri invisibili, che non si vedono, sopra i quali voi camminando vi renderete impuri”. Mentre Matteo scrive “attenti perché sono sepolcri imbiancati”, ma il sepolcro si vede, proprio perché è imbiancato si vede, Luca è più audace e forza l’immagine. Nel mondo ebraico il cadavere era impuro, il luogo dove veniva seppellito emanava impurità; per cui il sepolcro veniva ben individuato, ecco perché “imbiancato”, veniva ben segnalato, in modo che una persona, inavvertitamente, non potesse toccarlo e diventare impura. Ebbene, scrive l’evangelista, Gesù dice: “State attenti ai farisei, a queste persone che destano la vostra ammirazione per la loro vita di preghiera, per la loro vita di dedizione al Signore, per la loro conoscenza della bibbia, per la loro ostentata santità, state attenti, perché sono dei sepolcri che non si vedono e avvicinandovi voi vi infettate”.

Ma come, non ci insegnano che ci dobbiamo avvicinare a queste persone sante per essere contagiate dalla loro santità! Gesù dice “alla larga dai santoni perché, anziché santificarvi, vi infettano, vi rendono impuri”. Queste sono le prime righe del vangelo di Luca, ma continua tutto su questo tono.

Continuando sul brano di Zaccaria e Elisabetta, Dio comunque interviene. Il sacerdote Zaccaria è stato scelto per la settimana di servizio liturgico al tempio. Essendo i sacerdoti 24000, questo compito poteva capitare una volta nella vita, in quanto chi veniva estratto a sorte, non poteva poi essere estratto ancora fino a che tutti gli altri 24000 non avessero esercitato questa funzione. Le cronache del tempo ci parlano addirittura di omicidi di sacerdoti, nei confronti di altri sacerdoti, pur di essere eletti. In nome di Dio si faceva questo ed altro, l’importante era salvaguardare questa settimana.

Allora qui, continua l’evangelista, Zaccaria è stato scelto, estratto a sorte (ma l’estrazione a sorte è sempre segno della volontà di Dio) per stare una settimana nella stanza più segreta del tempio davanti a Dio, per offrire incenso, svolgere le sue preghiere e poi fare da messaggero nei confronti del popolo. Ebbene, leggiamo che mentre era impegnato in questo servizio, vide l’angelo del Signore. Il termine “angelo del Signore” è un’espressione ebraica che intende indicare un intervento di Dio stesso.

L’angelo del Signore gli fa l’annuncio della nascita di un bambino. Dice: “Guarda Zaccaria che ti nascerà un figlio (e questa è già una novità), ma non lo chiamerai Zaccaria”. Nel mondo orientale, ancora oggi, il primogenito porta il nome del padre; anche Zaccaria avrebbe dovuto dare il suo nome al figlio che sarebbe nato. Ma Dio, (l’angelo del Signore), gli dice: ti nascerà un figlio, ma non lo chiamerai Zaccaria, cioè non continuerà questa tua tradizione; lo chiamerai Giovanni. Abbiamo detto che ogni nome ha un suo significato simbolico. Il nome Giovanni significa “Dio è propizio, Dio è favorevole”.

Per dire cosa farà questo figliolo, l’angelo, Dio stesso, gli cita il profeta Malachia, ma amputando una parte del versetto: qui devi condurre il cuore dei padri verso i figli (il cuore significa la mentalità). La citazione dell’antico testamento continuava: “e quello dei figli verso i padri”. Questo per conciliare le generazioni; in ogni generazione c’è un conflitto di mentalità tra i padri che tramandano la tradizione e fanno difficoltà a comprendere la vita, l’atteggiamento dei figli che rompono con questa tradizione e vanno verso il nuovo. Malachia, allora, tentando una riconciliazione dice: “quando verrà l’inviato che precederà il Messia, la sua funzione sarà di ricondurre il cuore, cioè la mentalità dei padri verso i figli e quella dei figli nei confronti dei padri”. L’attività dell’inviato del Signore, che precede Gesù, sarà quella di cercare di far comprendere ai padri la vita dei figli e ai figli di far comprendere l’insegnamento dei padri.

Dio non è d’accordo con questa seconda parte, ma soltanto con la prima. L’inviato del Signore è qui per condurre il cuore dei padri verso i figli, ma non quello dei figli nei confronti dei padri. E’ il passato, l’antico che si deve sforzare per comprendere il nuovo, ma non il nuovo per comprendere l’antico. L’antico è morto, è passato. I genitori hanno fatto la loro esperienza, sarà stata valida per loro, ma non la possono trasmettere ai figli che, usufruendo in parte anche di questa esperienza, ne devono fare una completamente nuova.

Capite allora perché Gesù è stato chiamato “guasta famiglie”, capite perché Gesù mette tra i rischi proprio la vita familiare, quando i genitori tentano di inculcare ai figli quella che è la loro mentalità, la loro tradizione religiosa. No, sono i genitori che si devono sforzare per comprendere il nuovo e non è richiesto questi sforzo ai figli per comprendere il vecchio. Sembra già di sentire: ma allora non c’è più religione! Appunto, non c’è più religione!

E siamo appena alla prima pagina del vangelo di Luca. Il sogno della vita di ogni sacerdote di allora era di essere scelto per entrare in questa stanza, dove si riteneva ci fosse la presenza di Dio; finalmente Zaccaria realizza questo sogno. Dio gli parla e…. Zaccaria non ci crede: “questo non è possibile, mia moglie ed io siamo vecchi, per di più mia moglie è sterile”. Questo uomo tutto dedito a incensare il Dio della sua religione, il Dio che aveva studiato nei libri del catechismo e della teologia, quando Dio gli si manifesta, non ci crede!

Ecco perché, come vedremo tra poco, da questo momento in poi, quando Dio si deve rivolgere all’umanità eviterà accuratamente le persone religiose. E’ tempo perso, perché, o non gli credono, o gli sono ostili.

La punizione per Zaccaria è di essere muto, ma non è una punizione da parte di Dio, è una conseguenza. Qui c’è un sacerdote che, essendo sordo alle novità che Dio gli propone, è pure muto; ma, ed è quello che è tragico, nonostante sia muto, rimane in servizio tutta la settimana. Ecco una liturgia fatta di riti che non dicono niente, né all’individuo nell’occasione che aspettava da tutta la sua vita, né alla gente che aspettava fuori.

Un altro brano che si collega a quello che stiamo dicendo, questo stile di Luca, lo prendiamo al capitolo terzo. E’ un inizio solenne, pomposo: “Nell’anno decimo quinto dell’impero di Tiberio Cesare, essendo governatore di Giudea Ponzio Pilato, essendo tetrarca di Galilea Erode, e Filippo, suo fratello, tetrarca di Iturèa e della Traconìtide e Lisania tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio si rivolse…(ecco la suspense).

Luca, in una maniera evidentemente artificiale, crea una situazione con sette personaggi. Sapete che il numero sette significa la totalità, e mette tutte le possibili persone che, essendo in qualche maniera di rango, di categoria divina, o rappresentanti di Dio, sono i portavoce di Dio. Dovete sapere, per comprendere bene questo brano, che in quell’epoca gli imperatori si consideravano di natura divina; ogni imperatore era un dio, il sommo sacerdote era il portavoce di Dio. Ebbene, Luca ci presenta i massimi potenti sia dal punto di vista civile, sia dal punto di vista della religione. Parte da Tiberio che era imperatore, arriva a Ponzio Pilato, poi i vari tetrarchi della Galilea e addirittura, per fare il numero sette, ad Anna, (Analia) che era il sommo sacerdote dell’epoca e ci aggiunge pure Caifa che era quello che era stato destituito.

E’ un crescendo di suspense, …a chi tra questi personaggi si rivolgerà Dio? All’imperatore? Può darsi, perché già Dio, nell’antico testamento, aveva parlato ai potenti. Ciro, l’imperatore della Persia, era stato uno strumento di Dio, Dio si era rivolto a Ciro. Oppure al sommo sacerdote? Dio parlava ai sommi sacerdoti. Luca crea suspense, abbiamo i massimi vertici del potere civile e religioso. La parola di Dio si rivolse a… nessuno di questi! Dio, quando deve parlare, evita accuratamente i palazzi del potere e i luoghi e le persone religiose. C’è totale incompatibilità tra Dio e il potere, sia civile che religioso e c’è totale incompatibilità tra Dio e i luoghi e le persone religiose.

La parola di Dio si rivolge a un certo Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Nel deserto, non a Gerusalemme, a Gerusalemme dove c’è il tempio, la casa di Dio, non è lì che Dio si rivolge. Dio, quando parla, va al di là delle istituzioni, salta il fiume Giordano e si rivolge ad un certo Giovanni il Battista, nel deserto. Perché? Perché Dio sa che è fatica inutile parlare ai potenti e ai preti. Gli uni non lo ascoltano, non gli credono e gli altri travisano e manipolano a proprio uso e consumo le ispirazioni che Egli rivolge loro.

Terminiamo con la fine del vangelo di Luca, l’ascensione di Gesù, tanto per far comprendere questi schemi interpretativi. Dicevo, che bisogna scavare il testo per leggerlo correttamente. Ogni evangelista arricchisce gli avvenimenti di Gesù con un insegnamento teologico, che sia valido per le comunità di ogni tempo. Per questo ogni evangelista presenta scene e insegnamenti differenti, ma tutti ricongiungibili ad un unico fattore: quello di un Dio che è amore.

Se voi leggete le finali del vangelo di Matteo, o di Giovanni, o di Luca, vedete che non sono uguali. Gesù, nel vangelo di Giovanni muore a Gerusalemme, risorge a Gerusalemme, i discepoli sono chiusi nel cenacolo a Gerusalemme e Gesù va e appare loro. Se prendiamo il vangelo di Matteo, troviamo che Gesù muore a Gerusalemme, risorge a Gerusalemme, ma non appare ai discepoli, dice loro che, se lo vogliono vedere risorto, devono andare in Galilea. Questo è strano, perché devono fare quasi 200 chilometri per vederlo risorto. Ma non lo possono vedere lì? Ripeto che non sono indicazioni storiche, ma teologiche, valide pure per noi. Che diritto in più aveva la comunità primitiva dei credenti di avere una esperienza palpabile della resurrezione di Gesù, diritto che non abbiamo noi? Come la prima comunità ha avuto la possibilità di fare un’esperienza di Gesù risorto, noi abbiamo gli stessi diritti di quella comunità.

Vediamo allora che l’evangelista scrive: “Se mi vogliono vedere risorto, che vadano in Galilea”. E continua: “e gli undici se ne andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Ma Gesù non aveva loro indicato nessun monte! Qual è questo monte? E’ il monte dell’insegnamento di Gesù, il monte chiamato delle beatitudini. Cosa vuol dire? Se vogliamo fare l’esperienza che Gesù è risorto (che è possibile in tutte le epoche), poniamoci su questo monte, cioè pratichiamo integralmente il suo messaggio e questo è possibile in ogni generazione.

Luca, invece, termina in una maniera diversa. Scrive che Gesù spinge i discepoli fuori di Gerusalemme. Gerusalemme è la città assassina, Gerusalemme è il covo di briganti che in nome di Dio hanno ucciso il Dio che si è manifestato. E Gesù, scrive l’evangelista nelle ultime righe del suo vangelo, spinge i suoi fuori di Gerusalemme, perché soltanto allontanandosi da Gerusalemme si può fare l’esperienza che Gesù è risorto. Gerusalemme rappresenta l’istituzione religiosa. Nell’episodio precedente, quello dei discepoli di Emmaus, soltanto quando i discepoli abbandonano Gerusalemme possono fare l’esperienza che Gesù è vivo. Quindi, Gesù spinge i discepoli fuori di Gerusalemme, li spinge verso il villaggio di Betania, ma nel finale del vangelo si legge che tornarono indietro verso Gerusalemme, cioè presero la direzione contraria a quella che Gesù aveva loro indicato. Tornano verso Gerusalemme, la città dalla quale Gesù li voleva staccare, con grande gioia e stanno sempre nel tempio a lodare Dio…

Se uno fa una lettura semplice, letterale, può dire: guarda che bravi! Ma il finale del vangelo di Luca non è elogiativo. Egli sta scrivendo: non avevano capito assolutamente niente! Non avevano capito che Gerusalemme non aveva più nessun significato, non avevano capito che il tempio non era più la casa di preghiera, ma come Gesù lo aveva denunciato “una spelonca di ladri”. Nonostante gli sforzi di Gesù i discepoli, attaccati all’insegnamento della tradizione, fanno il percorso esattamente contrario, hanno difficoltà ad accogliere il nuovo che Gesù ha loro indicato. E ci vorrà del tempo.

Luca continua il suo vangelo con gli atti degli apostoli e vedremo che non basta la Pentecoste, ma ci vorrà la prima persecuzione per convincere i discepoli a lasciare Gerusalemme. Ecco, non ci tratteniamo più, perché queste erano soltanto alcune indicazioni sullo stile di Luca, che approfondiremo domani. Naturalmente, potremo prendere in esame soltanto alcuni brani di Luca. Faremo l’analisi di quelle categorie che vengono considerate come escluse in nome di Dio, in nome della morale, in nome della religione. Proprio i personaggi di queste categorie, sono quelli preferiti dall’evangelista.

15-09-95