di Leonardo Lugaresi
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Per gentile concessione della rivista

Come ai tempi in cui Agostino scriveva il De civitate Dei, anche oggi sentiamo di vivere nel pieno della crisi di un mondo, il nostro mondo. Ci sembra che tutto stia crollando, ma non capiamo bene il senso di ciò che accade. Che cosa infatti ci manca, più di tutto, oggi? Direi che ci manca il pensiero, un pensiero che non sia “corto”, rattrappito, asfittico. Ne siamo talmente privi che neppure ce ne rendiamo conto, forse perché non sappiamo neanche più che cosa propriamente voglia dire pensare. Un invito alla lettura dell’opera agostiniana non può dunque che partire da qui: pensare la crisi.

Crisi è una parola ormai onnipresente, un’etichetta ubiqua e sfuggente che si applica alle più diverse situazioni. Ma che significa? È talmente ampio e variegato il suo impiego che ormai ne abbiamo smarrito la definizione. Che cos’è la crisi? Forse potremmo rispondere che per noi “crisi” significa perlopiù «passaggio (rapido) da una situazione positiva a una negativa, rottura di un equilibrio, destabilizzazione, destrutturazione di un sistema». Se guardiamo all’etimologia e alla storia di questa parola, vediamo però che c’è stato uno slittamento semantico su cui occorre riflettere. Crisi, come è noto, viene dal greco κρίσις, un deverbale di κρίνω che significa “giudicare”, “scegliere”. Krisis è dunque il giudizio come distinzione, separazione del bene dal male, del vero dal falso, del bello dal brutto, di ciò che serve da ciò che è inutile. Oggi noi siamo diventati un po’ refrattari a questo modo di procedere e la nostra riluttanza alla krisis ci ha portato, ad esempio, a connotare in modo negativo una parola come “discriminazione”, che di per sé indica semplicemente l’atto del distinguere, ma senza distinzione non c’è ordine.

Come si è passati da krisis come giudizio al nostro concetto di crisi? Non potendo qui fare la storia del termine (studiata in particolare da Reinhart Koselleck), basti dire che all’origine di questo cambiamento c’è l’accezione medica di krisis come momento in cui si determina l’esito fausto o infausto di un morbo. Di lì, la “crisi” è dilagata nei territori dell’economia, della politica, della vita sociale, della psicologia individuale e collettiva e ora tutto è in crisi.

Ma c’è un altro aspetto di cui tenere conto: crisi per noi non vuol dire solo peggioramento, ma ha in sé anche l’idea dell’emergenza e dell’urgenza, il senso di un pericolo imminente da affrontare subito, altrimenti c’è la catastrofe. Nella crisi, quindi, bisogna affrettarsi ad agire, non pensare. Fare qualcosa, pur che sia. È da questa diffusa mentalità che viene la parola d’ordine forse più diffusa e più vuota del linguaggio politico contemporaneo: «Bisogna fare le riforme!». Quali? Non si sa, però bisogna farle. Non c’è tempo per vagliare se sono buone o cattive riforme: bisogna farle! Dunque siamo passati da crisi come giudizio a crisi senza giudizio, o che vieta il giudizio.

Ma c’è di più: per noi la crisi, pur essendo un’emergenza, è ormai continua, permanente: non più congiunturale, ma strutturale. Viviamo in uno stato di perenne crisi emergenziale nel quale non c’è tempo (né capacità) di pensare. Invece, come abbiamo detto, proprio perché c’è la crisi c’è bisogno di krisis, cioè di giudizio. C’è bisogno di pensare la crisi. Ma che cosa significa pensare?

Senza alcuna pretesa di sviscerare una questione di questa mole (l’ha già fatto Heidegger!), ma solo per intenderci, possiamo anche qui aiutarci un po’ con l’etimologia: “pensare” viene dall’identico verbo latino pensare, a sua volta un intensivo di pendere, che vuol dire “pesare con cura”. “Pensare” qualcosa, in questo senso, vuol dire assumersene tutto il peso. Un pensiero è veramente tale solo quando “pesa” di ciò che pensa. Capiamo bene, allora, che non tutto quello che abbiamo in mente e sulle labbra corrisponde a un pensiero! Anzi, per la maggior parte le cose le sappiamo “per sentito dire”, senza pensarle. La differenza si capisce bene di fronte alle “grandi cose” della vita: la nascita, l’amore, la morte… Sapere che ci sono e pensarle veramente sono due cose completamente diverse, e lo vediamo quando la loro realtà ci investe: la nascita di un figlio o la morte di una persona amata mettono anche i più ottusi tra noi nella condizione di sentirne il peso e di avvertire, magari solo per un attimo, la distanza tra quel “pensiero pesante” e la semplice conoscenza. Il pensiero, infatti, in quanto pesa ciò che pensa, “pesa” anche nel senso intransitivo, ed è per questo che facciamo fatica a sostenerlo. Oggi è di moda l’elogio della leggerezza (in letteratura l’ha fatto da par suo Calvino) e sia, perché la leggerezza ha i suoi pregi e i suoi vezzi: per una volta, tuttavia, celebriamo la qualità opposta, la pesantezza, figlia un po’ goffa e sgraziata del peso della realtà, dal fascino nascosto che si schiude solo a chi è disposto a fare fatica.

Come Agostino ha pensato la crisi del suo tempo

Qual è la crisi che ha pensato Agostino e che cosa può avere a che fare con la nostra? La Città di Dio è un grande libro nato in una situazione di crisi e composto per aiutare gli uomini a pensare quella crisi, cioè a vivere la crisi come giudizio, con tutta la valenza positiva, anche se drammatica, che il giudizio sempre ha. Rileggerlo oggi può offrirci una preziosa indicazione di metodo per riprendere la via del pensiero di fronte alla nostra crisi. Benché le analogie, in storia, siano notoriamente armi improprie, da maneggiare con prudenza, non è sempre possibile sottrarsi al senso di prossimità che una scienza del remoto, come la storia è per definizione, a volte ci comunica in maniera perfino inquietante: studiamo il passato umano non perché è passato ma perché è umano, e la storia che ne facciamo, come diceva Henri Marrou, altro non è che la risposta che i documenti danno alle domande che noi poniamo loro. Ma le domande ci vengono dall’esperienza del presente, perciò la storia è sempre un rapporto tra passato e presente.

L’evento critico che spinge Agostino a scrivere quel libro è, come tutti sanno, il sacco di Roma, nell’agosto del 410. Ma quel fatto è solo il momento culminante di una drammatica vicenda cominciata più di trent’anni prima, nel 376, con l’arrivo alla frontiera del Danubio di masse di profughi goti che, accolti dapprima come dediticii da un impero romano affamato di uomini da usare come contadini e come soldati, diventano presto un problema che il governo non riesce più a gestire: errori, inefficienze, responsabilità ed egoismi di singoli e di apparati portano a una crescente conflittualità che si protrae per circa due anni, finché l’imperatore Valente non decide di stroncarla manu militari. Il 9 agosto 378, ad Adrianopoli, accade però l’impensabile: l’esercito romano viene sconfitto e l’imperatore ucciso. È un punto di svolta nella storia dell’impero: i romani scoprono che non hanno più la forza per sconfiggere e sottomettere i barbari. Comincia la fase della trattativa politica, la politica di Teodosio e Graziano, successori di Valente, esaltata dalla pubblicistica romana di quegli anni in un’ottica che noi diremmo di integrazione (e di convenienza economica). Così scrive il retore Temistio nel 383: «È meglio riempire la Tracia di cadaveri o di contadini? Di tombe o di uomini vivi? E meglio camminare in una terra selvaggia o coltivata? Contare gli uccisi o i contadini? […] ora il ferro delle spade e delle corazze viene adoperato per fabbricare zappe e falci […] Fra non molto li avremo compagni nel mangiare e nel bere, condivideranno con noi le attività militari e i pubblici incarichi» (or. 17,16-17). In realtà questa politica fallisce, anche perché l’impero è diviso al suo interno: l’ultimo suo grande difensore, Stilicone (un barbaro!), viene assassinato per ordine dell’imperatore Onorio, il 23 agosto del 408, ed esattamente due anni dopo i visigoti di Alarico prendono e saccheggiano Roma.

Non era mai successo, da ottocento anni. Fu il loro 11 settembre? Forse qualcosa di più e qualcosa di meno allo stesso tempo. Di meno per la semplice ma fondamentale ragione che il mondo antico, così poco connesso rispetto al nostro, era in qualche modo “difeso” dalla sua stessa ignoranza: noi le Twin Towers le abbiamo viste crollare in diretta, senza poter fare nulla; il mondo antico le cose le veniva a sapere un po’ alla volta, per sentito dire, quando ormai erano già successe. Nessuna breaking news, allora. Di più, se si considera che Roma simbolicamente era molto più di quello che è New York per noi e se si immagina un Bin Laden che non si limita a colpirla al cuore ma la occupa per tre giorni, la saccheggia e poi se ne va solo perché lo decide lui.

Comunque lo shock in tutto l’impero fu fortissimo, e le reazioni furono quasi tutte nel segno dello sbigottimento, dell’angoscia, del lamento disperato. San Girolamo, per esempio, dice in una sua lettera che stava lavorando al commento a Ezechiele quando gli giunsero le notizie della devastazione di Roma e ne fu così sconvolto da doversi fermare, perché restò letteralmente senza parole (ep. 126,2), e lo stesso Agostino in un primo momento reagì in modo simile, come documenta il suo discorso De excidio urbis Romae. Era la fine del mondo? Poteva sembrarlo. C’era un detto: «Dum Roma stabit, mundus stabit», e certo si poteva avere l’impressione che quel mondo, il loro mondo stesse per finire.

Noi, guardando dall’alto dei secoli quel momento della storia, possiamo facilmente diagnosticare una penosa mancanza di krisis, nello smarrimento dei contemporanei e giudicare che i loro erano “pensieri corti” come i nostri di oggi. Quello che più circolava tra i pagani in quel drammatico anno di inizio del V secolo era che “il cristianesimo non funzionava” ed era meglio il politeismo come mezzo per garantire la pax deorum. Così la pensava un Eunapio di Sardi e così la penserà, ancora alla fine del secolo, lo storico pagano Zosimo. Nella cerchia dei corrispondenti di Agostino, questa tesi era sostenuta da Rufio Antonio Volusiano, un esponente dell’aristocrazia senatoria pagana. Pensiero molto romano, per il pragmatismo che lo ispirava, e anche molto moderno, a ben vedere: immaginiamo gli editoriali e gli interventi dei nostri intellettuali da talk show, e c’è da scommettere che l’hashtag #Cristononfunziona spopolerebbe sul web.

Ecco, in un contesto del genere, Agostino è colui che capisce che rispondere a questa obiezione non basta: occorre un’altra misura di pensiero e per questo appena può si accinge a un opus magnum et arduum che lo tiene occupato (tra mille altre incombenze) per ben quindici anni, dal 412 al 427: dieci libri per svolgere una critica completa del politeismo romano (I-X), sia nella sua pretesa di garantire la prosperità terrena (I-V), sia come mezzo per ottenere il bene dell’anima e la felicità nella vita ultraterrena, seguiti da altri dodici per dimostrare la verità del cristianesimo (XI-XXII). «Di questi dodici libri i primi quattro trattano la nascita delle due città, quella di Dio e quella di questo mondo, i quattro successivi della loro evoluzione e del loro sviluppo, gli altri quattro, che sono anche gli ultimi, dei dovuti fini di ciascuna di esse. Tutti i ventidue libri, pertanto, pur trattando di entrambe le città, hanno mutuato il titolo dalla migliore, la Città di Dio» (Retract. 2,43).

Un “pensiero della totalità”, ma non totalitario perché dialogico

Ma c’era bisogno di scrivere così tanto? Non sarebbe stato molto più opportuno ed efficace circoscrivere il tema da trattare e fare un libro più corto e più tempestivo (noi diremmo un instant book)? Su questo oggi convergerebbero, per una volta, le istanze scientifiche (per la conclamata necessità di limitare il campo), quelle propagandistiche (che vogliono discorsi semplici, se no la gente non capisce) e quelle commerciali (perché gli editori amano i libri piccoli, se no non li compra nessuno). Il fatto è che il pensiero, per pensare adeguatamente qualsiasi cosa, deve pensarla tutta, o quantomeno deve pensarla entro un orizzonte che la comprenda tutta. Qualsiasi fatto, in quanto tale, se resta isolato e avulso dalla relazione con tutti gli altri fatti, rimane privo di senso e dunque risulta incomprensibile (in questo senso i fatti sono stupidi, per rubare la frase a Nietzsche). Esso comincia ad acquistare un senso solo attraverso la relazione e tale senso si amplia e si approfondisce quanto più la relazione si sviluppa. Ma il processo delle relazioni è infinito e per questo, come dice Marrou, «ogni problema storico, anche il più limitato, richiede la conoscenza dell’intera storia universale».

Di fronte a questa ineludibile esigenza di fare i conti con la totalità (che è un altro modo di porre la questione della verità), qual è il nostro problema oggi? Quella sorta di evaporazione contemporanea del pensiero a cui accennavo prima non nasce dal nulla, ma segue la crisi di quella che era stata “la via moderna del pensiero”: la via di una riflessività soggettiva, individuale, ultimamente solitaria. Un pensiero che pensa da solo e, da solo, si sobbarca all’impresa eroica di pensare la realtà totale. La filosofia europea dell’età moderna, come è noto, lo sforzo supremo di porsi come filosofia della totalità lo ha fatto con Hegel, ed è stata un’impresa grandiosa e ammirevole, ma purtroppo Hegel non era Dio, e il suo “pensiero della totalità” è apparso, nei suoi sviluppi e soprattutto in certi suoi esiti politici, come un pensiero totalitario. Dei totalitarismi, che hanno condotto l’Europa alla rovina, noi abbiamo fatto una tragica ed esaustiva esperienza nel corso del “secolo breve” e da quella catastrofe in un certo senso non ci siamo ripresi, perché è come se la coscienza europea di oggi fosse stata traumatizzata dal suo stesso pensiero autocratico, titanicamente teso a comprendere e dominare la storia e la natura.

Le veglie della ragione (una ragione autocratica, e perciò incapace di autocritica) hanno prodotto mostri, come diceva Vittorio Strada, e «filosofia della storia» è divenuta per molti una formula inaccettabile per la sua pretesa di sapere dove la storia stia andando (se non di determinare dove debba andare). Finito quel tempo moderno, che cosa è successo dopo? Caduto l’ultimo totalitarismo del Novecento, nel 1989 ci siamo brevemente euforizzati con l’illusione della “fine della storia”, anzi abbiamo pensato che la caduta dell’ultimo totalitarismo “post-hegeliano” novecentesco fosse la vittoria di un Occidente post-moderno privo di Weltanschauung, che aveva rinunciato a prospettive di senso totali per affidarsi al gioco della libera negoziazione di ipotesi di senso limitate e parziali. Poi, repentino, il crollo: quel mondo comincia ad andare in pezzi mentre noi – proprio come i contemporanei di Agostino – non ci stiamo capendo niente, e siamo ormai incapaci di pensare la realtà che ci assedia e ci travolge. La storia non è affatto finita, succedono un sacco di cose terribili, ma noi non sappiamo che senso abbiano (e se ce l’abbiano, un senso).

Per esempio, l’enorme, spaventoso fatto del fondamentalismo di matrice islamica, che si presenta come un “antipensiero” apparentemente fortissimo, sappiamo che dobbiamo combatterlo e respingerlo, ma come si fa a combattere ciò che non si comprende? E come si comprende ciò che non si “pensa”? Sembra che noi ci rifiutiamo di farlo e preferiamo rifugiarci in una bambagia di retorica, di buone parole che non spiegano nulla. Quando qualcuno ci ha provato, come Benedetto XVI nel famoso discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, non gli è andata bene. In quella circostanza venne offerta dal Papa all’Occidente l’indicazione di una via per pensare la crisi. Non pretendeva certo di essere accettata da tutti, ma chiedeva di essere presa sul serio e seriamente discussa. Invece fu sommersa da un boato di urla indignate, o piuttosto di ragli: in tanti si stracciarono le vesti perché «il Papa aveva offeso i musulmani», senza sforzarsi neppure di capire che cosa aveva detto; tanti presunti intellettuali fecero battute e sorrisetti, tanti uomini di Chiesa si eclissarono, non so se per viltà o per insipienza… ma in quel momento non si trattava di difendere il Papa, si trattava di difendere il pensiero. Eppure, l’appello di Ratisbona era un’occasione preziosa perché era la proposta di un pensiero riflessivo che chiamava in causa contemporaneamente sia l’islam sia l’Europa. Non si può, infatti, pensare l’altro se non in maniera riflessiva, cioè incorporando nel giudizio noi stessi e la nostra relazione con l’altro, giacché, per definizione, l’alterità assoluta non sarebbe neppure pensabile. L’altro, io lo posso pensare solo se lo penso in rapporto a me; ma pensarlo riflessivamente significa che pensando l’altro penso anche me stesso nella relazione con lui, penso cioè in maniera relazionale (Donati). Il discorso di Ratisbona era importante perché chiedeva di ripensare la ragione greca in relazione alla krisis della cultura islamica.

Ecco dunque perché Agostino può servirci: perché ci indica la via per un “pensiero della totalità” che non sia però un pensiero totalitario. Da lui può venirci il suggerimento che forse esiste un’altra modalità di pensiero, diversa da quella del pensiero solitario ed egemonico dell’Io moderno, ma anche da quella delle effimere “opinioni negoziate” dell’Io post-moderno: ed è la via di un pensiero essenzialmente dialogico, relazionale, in quanto non parte da sé ma dall’Altro, non parte da Io, ma parte da Tu, perché sa che «l’identità non è uno, ma due», come diceva Michel de Certeau.

Il nostro invito alla lettura della Città di Dio vuole essere appunto una scommessa che tale diversa qualità del pensiero in Agostino ci sia e che la sua teologia (non filosofia) della storia possa presentarsi a noi come un’ipotesi di superamento di due rischi opposti in cui altrimenti saremmo forzati a cadere: da una parte l’illusione di dominare e conoscere tutto della storia (rispetto alla quale la prospettiva agostiniana fungerebbe semmai da viatico a una “filosofia critica della storia”), dall’altro la miseria, ultimamente nichilistica, della mancanza di un senso ultimo della storia, sia pure unita al tentativo di fare bricolage con dei significati parziali, relativi e provvisori per tentare di mantenere in piedi i nostri precari equilibri sociali e politici. Ipotesi di senso parziali, fluide, sempre negoziabili, la cui plausibilità è affidata in ultima analisi a un’etica del discorso (Habermas), cioè a una modalità corretta con cui avvengono gli scambi: sembra che di questo ci dobbiamo accontentare. E in tempi normali, di ordinaria amministrazione forse… ma quando c’è la crisi? Quando i goti saccheggiano Roma, e i vandali sono a Ippona, fuori dalla porta dello studio di Agostino?

La Città di Dio è un libro aperto alla totalità del reale, e di qui deriva il suo carattere enciclopedico, che può sconcertare a volte o perfino infastidire. Non cercherò di sostenere che questa non sia una difficoltà per il lettore moderno, né posso negare che vi sia qualcosa di farraginoso nella sua forma, cosa del resto del tutto comprensibile se pensiamo alle condizioni in cui è stato scritto, ma tante “digressioni” che a una prima lettura ci possono lasciare perplessi, quando approfondiamo la conoscenza dell’opera si rivelano genialmente pertinenti al suo disegno fondamentale. Qui, per ragioni di spazio, dobbiamo limitarci a indicare una sola chiave di lettura, generalissima, che è nulla rispetto alla straordinaria ricchezza del libro; ma il nostro in fondo vuol essere solo un teaser, come oggi si direbbe, che faccia venir voglia di “andare a vedere il film”.

Una chiave di lettura: la questione delle due città

Nell’apparente sfacelo della politica e della storia, la buona notizia è che di città ce ne sono due. Questa è un’idea nuova, che segna una svolta epocale nel pensiero politico. Il mondo antico, a ben vedere, era abituato a pensare nei termini di una sola città, sia essa la polis del particolarismo greco (certo, in quel mondo di poleis ce ne sono tante, ma ognuna è, per i suoi cittadini, “la” città e solo a quella si pensa); o la città-impero dell’universalismo romano (in cui, senza negare le mille identità municipali, tutti partecipano di un unico spazio politico, una supercittà di cui, a partire quantomeno dall’editto di Caracalla, tutti sono cittadini); o la cosmopoli stoica o perfino la città ideale immaginata da Platone. Anche noi, oggi, siamo tornati a pensare che di città ve ne sia una sola, nel senso che l’orizzonte politico è unico ed esclusivo. Agostino invece ci annuncia che di città ce ne sono due: «Una è degli uomini che intendono vivere secondo la carne, l’altra di coloro che intendono vivere secondo lo spirito, ciascuna nella pace del proprio stile di vita; e quando conseguono il fine a cui tendono, vivono, ciascuna, nella pace del proprio stile di vita» (XIV,1).

È essenziale capire che queste due città si distinguono non come due entità che stanno sullo stesso piano, nella forma della divisione dello spazio politico; né in quella della contrapposizione tra un vecchio ordine e uno nuovo che lo soppianta (successione nel tempo). La distinzione tra le due città non viene posta da Agostino in nessuna delle forme conosciute dal pensiero e dalla prassi politica. Anzi, egli chiarisce subito che «queste due città sono certamente confuse e unite insieme in questo mondo, finché non le separi l’ultimo giudizio» (Perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque permixtae, donec ultimo iudicio dirimantur) (1,35).

Le due città non sono quindi due entità empiriche, due luoghi fisici, due regni terreni tra cui si possa dare quel tipo di contrapposizione tra Stati che è propria dell’ordine politico. Il criterio che le distingue è un altro, ed è la scelta tra l’amore di sé e l’amore di Dio. «Due amori quindi hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste» (XIV,28). Non si tratta però di un criterio moralistico o confessionale: non si gioca la partita dei buoni contro i cattivi, e neppure il match tra cristiani e pagani, intesi in termini di appartenenza “anagrafica”. L’opposizione agostiniana tra le due città può essere meglio compresa come opposizione tra un sistema chiuso, autoreferenziale, perché fondato sull’amor sui, come è appunto quello della città terrena, e un sistema costituzionalmente “aperto” in quanto fondato sulla relazione con l’Altro (Dio), che è quello proprio della città di Dio. Vivere secondo la carne, infatti, significa vivere secondo l’uomo, cioè secondo la propria misura, che è però menzognera, «e questo non perché l’uomo stesso sia menzogna, giacché suo artefice e creatore è Dio che certamente non è artefice e creatore di una menzogna, ma perché l’uomo è stato creato irreprensibile per vivere non secondo se stesso ma secondo colui dal quale è stato creato, cioè per fare la volontà di Lui e non la propria. Non vivere secondo la norma con cui si è ordinati a vivere, questo appunto è la menzogna» (XIV,4,1).

Per questo – ed è una implicazione decisiva – la città terrena è schiava della libido dominandi, la cui logica è universale perché domina ugualmente i dominanti e i dominati: «nei suoi capi e nei popoli che sottomette, è dominata dalla passione del potere» (XIV,28). Questo è un punto che andrebbe ulteriormente approfondito: se di città ce n’è una sola, perché esiste solo quella terrena, l’unicità di orizzonte, che è essenziale al pensiero politico, rende l’ordine politico sempre, almeno potenzialmente, assolutistico. Per quanto il potere possa mostrarsi attento alle differenze e alle articolazioni interne allo spazio politico, per quanto possa fare affidamento su metodi di deliberazione democratici e pluralistici, se pensa entro l’orizzonte dell’unica città, costruirà sempre un sistema chiuso e, in definitiva, autoreferenziale. Quindi, almeno potenzialmente, sempre violento. La sovranità che è il principio fondamentale dell’ordine politico, se tale ordine è concepito come unico (una sola città superiorem non recognoscens) non può non produrre, come sua almeno possibile conseguenza ultima, l’oppressione della società e l’emarginazione della persona. Nemici della “società aperta” non sono solo Platone e tutti i suoi seguaci, come dice Popper, perché anche una politica democratica, se si muove entro un orizzonte che pretende esclusivo, è in definitiva egualmente assolutista (quanto meno nella forma della “dittatura del relativismo”). L’alternativa non c’è, in quanto la via d’uscita dall’unico ordine politico esistente, infatti, è per definizione solo impolitica o antipolitica. Con l’affermazione delle due città, invece, la prospettiva cambia radicalmente, perché il desiderio della città celeste, per quanto “antipolitico” nei confronti della città terrena, è di per sé “politico” perché legato a un’altra città.

La Città di Dio è anche una miniera di spunti per descrivere in modo straordinariamente acuto e attuale la fenomenologia della città terrena. Senza bisogno di aspettare Marx, Agostino vi descrive la riduzione di tutta la vita della città a economia, o meglio registra la riduzione dell’economia da sistema di produzione a sistema di consumo, in cui non la ricchezza ma il benessere è l’obiettivo ultimo, e assai prima di Debord mostra che l’esito finale del processo di alienazione è la spettacolarizzazione: la centralità e l’assoluta indispensabilità dei ludi nel meccanismo della città terrena descritta da Agostino sta appunto a indicare che il destino della vita umana ridotta a merce è quello di essere mostrata, esibita, rappresentata.

Com’è invece l’altra città? Questa città che non ha una localizzazione geografica né mai conosce una realizzazione storica completa, ma non è un sogno, perché esiste veramente, anche se in una forma del tutto sui generis. È, come dicevamo, un sistema aperto. Non si cristallizza in una forma chiusa perché, fintanto che è pellegrina sulla terra, viene continuamente messa in crisi dall’Altro a cui va il suo amore. Perciò non coincide con la Chiesa in quanto istituzione, né con alcun regime cristiano. La posizione di Agostino è storicamente importante perché rappresenta il definitivo superamento della teologia politica eusebiana, con la sua pretesa che una volta diventato cristiano l’impero, la storia fosse arrivata al suo compimento. Per questo, riecheggiando Erik Peterson, si potrebbe dire che la riflessione agostiniana decreta la fine di ogni teologia politica. «Lo stesso Dio che ci ha dato Costantino, ci ha dato Giuliano», nota Agostino (V,21).

Ma al di là di queste pur importanti contingenze storiche, il punto fondamentale per lui è che la relazione con l’Altro è per essenza una relazione “critica” nel senso che opera una krisis permanente di ogni sistema che su di essa si fonda. La città di Dio, perciò, nel suo pellegrinaggio lungo la storia, è sempre “messa in crisi” in quanto è sottoposta al continuo giudizio di Qualcuno che è altro da lei. Forzando solo un po’ questo concetto, si potrebbe arrivare a dire che in fondo la città di Dio esiste nel mondo come desiderio, cioè come presenza di un’assenza. Agostino, infatti, dice delle due città che quella terrena «è nella realtà di questo mondo, l’altra è nella speranza di Dio» (XV,21), e che noi «abbiamo appreso che esiste una città di Dio di cui ci fa desiderare ardentemente d’essere cittadini quell’amore che ci ha ispirato il suo fondatore» (XI,1). La città di Dio viene per seconda, quasi come correttivo della prima: infatti prima nacque Caino e poi Abele, i progenitori ideali delle due città (XV,1,2). Dunque il desiderio che Dio, creandoci, ci ha instillato è politico. È desiderio di cittadinanza. Noi desideriamo la felicità “in forma civile” cioè in una dimensione relazionale. Desideriamo una città.

Leonardo Lugaresi

Leonardo Lugaresi, studioso di storia del cristianesimo antico, ha insegnato Letteratura cristiana antica all’Università di Bologna e Storia del cristianesimo all’Università di Chieti. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui l’edizione commentata delle “Orazioni” IV e V di Gregorio Nazianzeno contro l’imperatore Giuliano (1993 e 1997), quella della “Vita di Mauro” di Pier Damiani (2002) e un’ampia monografia sul problema del giudizio cristiano sugli spettacoli: “Il teatro di Dio. Il problema degli spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo)” (2008). Assieme ad altri studiosi di diverse discipline ha dato vita al gruppo di ricerca «Patres: studi sulle culture antiche e il cristianesimo dei primi secoli».