Mascolinità tossica e virilità: tra sovrapposizioni e differenze, per una rinnovata visione femminista

di Sara Giorgini
8 Settembre 2025
Per gentile concessione di
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Da più di un quarantennio in ambito accademico si parla di virilità tossica, quest’ultimo aggettivo ha screditato la categoria di virilità a livello tout court. Ma siamo sicuri che la virilità sia intrinsecamente negativa e davvero noi donne vogliamo rinunciare agli uomini virili? Perché sono i comportamenti tossici, la violenza e gli abusi ad essere negativi, la virilità è una caratteristica che può essere impiegata per il bene o per il male.
L’antitesi del maschio virile è il maschio improduttivo e, visto che colui che non produce è spesso in balia di una regressione psichica, questa regressione è in grado di minacciare il pieno sviluppo dell’uomo. Ora è opportuno chiedersi se l’uomo virile sia davvero destinato ad essere un mito e come tale, essere soppiantato da nuovi modelli sociali.
Molto hanno detto sociologi e filosofi sulla contraddizione dell’età moderna e sulla percezione esistenziale dell’uomo e non si ritiene che la soluzione al problema della violenza o di una deviata virilità consti nell’eleggere a modello un uomo debole nella determinazione dei propri obiettivi. Sarebbe interessante riflettere, se il diffondersi delle mode di uomini dai cosiddetti tratti femminili, sia un’altra manifestazione della “crisi della virilità”. Come se l’uomo si fosse stancato della competizione femminile e arretrasse a un livello che di fatto ha tutte le parvenze di una rinuncia identitaria a una sana mascolinità.
Legare la virilità ai caratteri più integralmente maschili non è senza conseguenze, così come negarla. Essa è destinata a trovare modalità inedite, affinché l’uomo possa operare quel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, attraverso il quale l’uomo diviene propriamente tale.
Il filosofo Harvey C. Mansfield ritiene che la virilità sia «una qualità ambivalente e indiscussa dell’anima umana»[1]. La definisce come una proprietà dalla duplice connotazione morale, in quanto può esprimere gesti dignitosi e nobili, ma può anche insidiarsi in azioni abusanti e violente. Proprio per questa intrinseca ambiguità, la categoria di virilità ha costituito una provocazione all’etica fin dai tempi più remoti, interrogando la filosofia e la teologia.
Da circa un trentennio la discussione si è focalizzata sulla disparità uomo-donna. Nell’opinione pubblica l’uomo virile è concepito come una figura ieratica, autoritaria e sicura di sé, che prende parte alla vita pubblica e difende le persone che gli sono affidate nella compagine domestica. I critici della virilità invece antepongono a questa tipizzazione ben altri tratti dispostici: quelli di un uomo prepotente e dominante.
È in virtù di queste cornici archetipiche che l’operato femminista radicale ritiene la virilità (e la stessa identità maschile) un prodotto storico, abilmente ideato ed impiegato da una certa egemonia per sottomettere donne o uomini “meno virili”[2]. Eppure Mansfield nota che la nozione di virilità richieda una presa di posizione: il sapersi schierare dalla parte di chi tutela i valori, o al servizio di chi non può farsi forza da solo o che, pur tentandolo, non ottiene i risultati sperati[3].
Educare alle virtù contrasta visioni di maschilità egemoniche, perché le virtù educano a alla non violenza, al rispetto e alla giustizia, compresa quella di genere.
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[1] Cf. H. C. Mansfield, «Virilità», in J. Noriega ‒ I. Ecochard ‒ R. Ecochard (edd.), Dizionario su sesso, amore e fecondità, Cantagalli, Siena 2019, 1009.
[2] Cf. H. C. Mansfield, «Virilità», 1009-1010.
[3] Cf. Ibid., 1011-1012.