Per gentile concessione di
Mortimer Potts
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Leggendo di cose monastiche medioevali (ma non solo) è impossibile non imbattersi in lei, la Periculoso, la famigerata costituzione del 1298 con la quale Bonifacio VIII stabilisce l’obbligo della clausura perpetua per tutte le monache (quella che nel tempo prenderà il nome di «clausura papale»). L’avrò trovata citata decine e decine di volte, ma non l’avevo mai letta. Finalmente l’ho fatto (con la solita cautela circa la piena comprensione del latinorum).

È un testo piuttosto breve – un paio di cartelle, non di più –, suddiviso in un’introduzione (che sancisce la clausura vera e propria) e quattro paragrafi (che aggiungono dettagli – uno in particolare non secondario –, eccezioni e sanzioni) chiaro e circoscritto, anche se non privo di certe tortuosità che direi tipiche da decretale. Anzitutto «pericoloso» (e «detestabile») è il comportamento di alcune monache cui la Santa Sede ha deciso di porre rimedio. Tali monache, dimentiche della modestia che si addice al loro stato e alla verecondia che dovrebbe adornare il loro sesso, «si aggirano talvolta fuori dai loro monasteri nelle abitazioni di persone secolari, e frequentemente ammettono persone sospette all’interno degli stessi monasteri». Pertanto, affinché «completamente separate dagli sguardi del mondo, possano servire Dio più liberamente e, rimossa l’occasione di lascivia, custodire più diligentemente i loro cuori e i loro corpi in piena santità», il papa stabilisce che non possano più uscire dai loro monasteri, se non in caso di malattia grave o di altra causa ragionevole e manifesta e con speciale licenza. E questo vale e varrà per sempre, per qualunque monaca presente o futura, di qualsiasi ordine, in qualunque parte del mondo si trovi («universas et singulas moniales, praesentes atque futuras, cuiuscunque religionis sint vel ordinis, in quibuslibet mundi partibus exsistentes»). In sostanza la clausura è introdotta per il bene delle monache, per allontanarle da tentazioni e occasioni di peccato.

Il primo, breve e appunto non secondario paragrafo stabilisce che nelle comunità non vengano accolte nuove sorelle, a meno che il monastero non disponga di mezzi di sostentamento adeguati. Sono esclusi da questa prescrizione i conventi degli ordini mendicanti. Il secondo paragrafo, altrettanto breve, dispone un’eccezione per le badesse che, in virtù del feudo che il monastero detiene in dipendenza da qualche principe o signore temporale, debbano uscire per rendere omaggio e prestare fedeltà. Che si tratti di uscita breve, però, e in compagnia onesta e decorosa.

Il terzo paragrafo si dilunga invece sulla richiesta a principi e signori («chiediamo, preghiamo e imploriamo i principi e gli altri signori temporali, per le viscere della misericordia di Gesù Cristo») di permettere a badesse, priore e varie altre monache che gestiscono gli affari del monastero («abbatissas ipsas et priorissas ac moniales quascunque, monasteriorum suorum curam, administrationem negotiave gerentes») di affrontare nelle corti le questioni che lo riguardano per tramite di procuratori, in modo da non essere costrette a uscire. E se non vorranno permetterlo, che incorrano nella «censura ecclesiastica» per mano degli ordinari del luogo. «Ingiungiamo inoltre ai vescovi e agli altri prelati superiori e inferiori di trattare e risolvere i casi o le questioni che le suddette monache dovessero affrontare davanti a loro o nei loro tribunali, siano essi omaggi, giuramenti di fedeltà, cause legali o quant’altro, per tramite dei loro procuratori.»

Il quarto paragrafo, infine, «poiché sarebbe inutile stabilire leggi se non ci fossero coloro che le facessero osservare debitamente», impone a primati, arcivescovi e vescovi (e un po’ a tutto il clero coinvolto), di adoperarsi concretamente affinché nei monasteri femminili a loro soggetti sia messa in atto la suddetta clausura, a spese dei monasteri medesimi e grazie alle elemosine dei fedeli. Lo facciano appena possibile («quam primum commode») se vogliono evitare la durezza del giudizio divino e del papa («si divinae ac nostrae indignationis voluerint acrimoniam evitare»). Nel caso che si manifestino opposizioni («contradictores atque rebelles»), potranno minacciare la censura ecclesiastica e invocare, se necessario («si opus fuerit»), l’intervento del braccio secolare.

E di contradictores atque rebelles ce ne saranno eccome, almeno per due secoli e mezzo, fin dopo il Concilio di Trento…

(Il testo si può leggere nel Corpus Iuris Canonici, a cura di E.L. Richter e E.A. Friedberg, seconda parte, Akademische Druck- U. Verlaganstalt 1959, coll. 1053-1054.)