XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Luca 14, 25-33
Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
(Letture: Sapienza 9, 13-18; Salmo 89; Filèmone 9b-10. 12-17; Luca 14, 25-33)

Calcoli necessari
Clarisse di Sant’Agata
Oggi Gesù sembra voler assottigliare le fila delle “molte folle che andavano con lui” (Lc 14,25). Le parole che rivolge loro presentano con forza e durezza cosa comporti il seguire Lui.
Non chiunque può essere “suo discepolo”.
Ma solo chi si confronta con il suo volto rivolto verso Gerusalemme. È interessante infatti il particolare che annota Luca per introdurre le parole di Gesù del vangelo di oggi: “Egli voltatosi disse loro…”. Mentre si segue Gesù è necessario tenere vivo il confronto “faccia a faccia” con il suo volto perché la direzione che egli sta imprimendo al suo cammino è chiara: egli ha indurito il suo volto prendendo la ferma decisione di andare a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51). Se questa è la forza della scelta del Maestro, il suo discepolo non potrà avere minore decisione, né altra direzione. Certo in questo modo molti della folla potranno ritirarsi. Ma la sequela è impresa sostenuta non tanto dalla forza del numero, o dalla buona volontà della nostra decisione, ma dalla radicalità dell’affidamento continuo a Colui che si segue.
Davanti alle esigenze che Gesù pone, sembra quasi di vedere un’altra scena biblica dove Dio chiama Gedeone ad affrontare il suo nemico non tanto appoggiandosi sulla propria forza, ma confidando in Dio che consegna nelle sue mani l’accampamento nemico. Per questo Dio non permette che Gedeone scenda in battaglia con un esercito troppo numeroso, ma lo riduce fino a trecento uomini. In questo modo sarà chiaro che l’esito della battaglia sarà dono di Dio che opera nella debolezza di Gedeone (cfr. Gdc 7,2-22).
Allo stesso modo nel vangelo di oggi Gesù pone condizioni tali a chi lo segue da far emergere la relazione con Lui come unica ragione, forza e meta dell’andare. Solo la scoperta di Lui come unico amore e come unico tesoro della vita fa di noi suoi discepoli (“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. (…)chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”).
Quanta forza in quell’aggettivo possessivo (“non può essere mio discepolo”) per il quale ogni amore diventa relativo e ogni bene diventa irrisorio!
Nella seconda condizione che Gesù pone al suo discepolo, troviamo la chiave per comprendere perché Gesù chieda di essere l’unico amore e l’unico bene del discepolo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. “Portare la croce” e “andare dietro” a Lui imprime al nostro modo di amare e di possedere un tratto particolare: infatti Gesù non sta chiedendo di non amare il “padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e la propria vita” (anche se qui è addirittura usato il verbo “odiare”); e non sta neppure dicendo che il discepolo non deve possedere nulla.
Ma sta dicendo che è “suo” discepolo solo chi ama padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e la propria vita nell’orizzonte del morire a se stessi e solo chi vive il rapporto con ogni cosa nel medesimo orizzonte dell’avere “come se non possedesse” (cfr. 1Cor 7,30). Allora saremo suoi discepoli solo se Lui e la sua Pasqua (“portare la croce”) diventano la misura delle relazioni con la nostra famiglia, con la nostra vita e con tutte le cose.
La grandezza della chiamata ad essere suoi discepoli esige quindi una serietà nel calcolare se siamo in grado di perseverare per portare a termine l’impresa iniziata della sequela! Questo non significa che per iniziare ad essere suoi discepoli occorre avere la certezza matematica che ce la faremo a seguirlo fino alla fine (chi aspetta questa “garanzia” non parte mai!). Si tratta di un calcolo da fare per valutare se abbiamo “i mezzi” per “completare l’opera” e per “vincere” la battaglia della sequela!
Di quale calcolo si tratta?
Mi sembra che le due piccole parabole (che solo Luca narra a questo punto del discorso) facciano allusione all’unico mezzo che dobbiamo avere per finire il lavoro di costruzione e affrontare le grandi opposizioni che incontreremo lungo il cammino: la fede in Colui che ci ha chiamati a costruire e a combattere per edificare la nostra vita in pienezza!
La prima parabola parla della “costruzione di una torre”, un lavoro che inizia con il gettare le fondamenta ma che chiede “mezzi” precisi per essere “portato a termine”. In questo lavoro noi non siamo solo costruttori, ma in quanto “edificio di Dio” (1Cor 3,9-16) che cresce sul fondamento di Cristo Gesù, “veniamo edificati per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,22). Dio è il sapiente costruttore che vuole edificare la nostra umanità compiuta secondo il Suo disegno originario. E noi useremo i mezzi a nostra disposizione per lasciarci costruire fino alla fine? Cioè saremo tanto docili all’azione dello Spirito perché Lui possa portare a compimento l’opera delle sue mani (cfr. Sal 137,8)?
La seconda parabola parla non tanto di una guerra da vincere, ma della possibilità di affrontare in modo appropriato il nemico che ci viene incontro con forze ingenti. La vita del discepolo è sempre una lotta dove siamo minacciati da forze che si oppongono a noi. Solo l’affidamento a Colui che seguiamo ci farà scoprire che siamo fin d’ora “più che vincitori” (cfr. Rm 8,37) in Lui. Rimanendo attaccati a Lui, sperimenteremo che è Lui a combattere, fronteggiare l’avversario e vincere in noi (cfr. 1Tm 4,10).
La vita del discepolo quindi è vita in stato permanente di affidamento a Gesù, tenendo sempre in mano gli attrezzi per costruire e la spada per combattere. Come facevano gli israeliti che ricostruivano le mura di Gerusalemme con la spada in mano per difenderle dal nemico che voleva abbatterle durante la notte (cfr. Ne 4,1-17 in particolare i vv. 10-12).
Se questa sarà la misura e la forza della nostra fede, nulla ci sarà impossibile!
Sorelle Povere di Santa Chiara
http://www.clarissesantagata.it
Si è discepoli di Gesù soltanto se si è capaci di amare
Ermes Ronchi
Gesù, sempre spiazzante nelle sue proposte, indica tre condizioni per seguirlo. Radicali. La prima: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Gesù punta tutto sull’amore. Lo fa con parole che sembrano cozzare contro la bellezza e la forza dei nostri affetti, la prima felicità di questa vita. Ma il verbo centrale su cui poggia la frase è: se uno non mi “ama di più”. Allora non di una sottrazione si tratta, ma di una addizione. Gesù non sottrae amori, aggiunge un “di più”. Il discepolo è colui che sulla luce dei suoi amori stende una luce più grande. E il risultato non è una sottrazione ma un potenziamento: Tu sai quanto è bello dare e ricevere amore, quanto contano gli affetti della famiglia, ebbene io posso offrirti qualcosa di ancora più bello. Gesù è la garanzia che i tuoi amori saranno più vivi e più luminosi, perché Lui possiede la chiave dell’arte di amare.
La seconda condizione: Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me. Non banalizziamo la croce, non immiseriamola a semplice immagine delle inevitabili difficoltà di ogni giorno, dei problemi della famiglia, della fatica o malattia da sopportare con pace. Nel Vangelo “croce” contiene il vertice e il riassunto della vicenda di Gesù: amore senza misura, disarmato amore, coraggioso amore, che non si arrende, non inganna e non tradisce.
La prima e la seconda condizione: amare di più e portare la croce, si illuminano a vicenda; portare la croce significa portare l’amore fino in fondo.
Gesù non ama le cose lasciate a metà, perché generano tristezza: se devi costruire una torre siediti prima e calcola bene se ne hai i mezzi. Vuole da noi risposte libere e mature, ponderate e intelligenti.
Ed elenca la terza condizione: chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo. La rinuncia che Gesù chiede non è un sacrificio, ma un atto di libertà: esci dall’ansia di possedere, dalla illusione che ti fa dire: “io ho, accumulo, e quindi sono e valgo”. “Un uomo non vale mai per quanto possiede, o per il colore della sua pelle, ma per la qualità dei suoi sentimenti “(M. L. King). “Un uomo vale quanto vale il suo cuore” (Gandhi).
Non lasciarti risucchiare dalle cose: la tua vita non dipende dai tuoi beni. Lascia giù le cose e prendi su di te la qualità dei sentimenti. Impara non ad avere di più, ma ad amare bene.
Gesù non intende impossessarsi dell’uomo, ma liberarlo, regalandogli un’ala che lo sollevi verso più libertà, più amore, più consapevolezza. Allora nominare Cristo, parlare di vangelo equivale sempre a confortare il cuore della vita.
Avvenire 2016
Le esigenze della sequela di Gesù
Enzo Bianchi
Nel chiamare discepoli e discepole dietro a sé Gesù non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade, mette in guardia. Avremmo molto da imparare da questo suo atteggiamento, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliere quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù.
Dopo il pranzo a casa di uno dei capi dei farisei (cf. Lc 14,1-24), Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme, seguito da una folla numerosa. La sua predicazione ha successo, gli ascoltatori pronti ad accompagnarlo lungo la strada sono molti, ma Gesù, che vuole accanto a sé discepoli, non militanti, si volta indietro per guardare quella folla in faccia e rivolgerle alcune parole capaci di fare chiarezza e di non permettere illusioni o addirittura menzogne. Parole dure, che ci urtano e ci dispiacciono perché ci chiedono di combattere contro noi stessi, contro i nostri sentimenti naturali.
Infatti Gesù avverte: “Se uno viene a me, cioè vuole stare con me, e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Gesù mette in contrasto lo stare con lui e l’amore famigliare, nonché l’amore per la propria vita. Perché tanta radicalità? Semplicemente perché egli conosce il cuore umano, conosce il potere dei legami di sangue, conosce la possibilità che la famiglia sia una gabbia, una prigione.
L’intenzione delle parole di Gesù consiste nella liberazione, che egli vuole portare a ogni uomo e a ogni donna, da tutte le presenze idolatriche, tra le quali è possibile annoverare anche legami e affetti di sangue e di famiglia.
Quanto alla paradossale espressione “Se uno non odia…”, essa ha certamente un retroterra semitico, ma va intesa bene. Infatti viene tradotta correttamente: “Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre…”. Negli affetti è questione di ordine. Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah (cf. Es 20,12; Dt 5,16), e Gesù lo conferma (cf. Mc 7,9-13; Mt 15,3-6), ma può succedere che questo amore impedisca l’adesione al Signore, la pratica della sua volontà, la sequela materiale di Gesù. In tal caso i legami con la famiglia che trattengono e imprigionano vanno addirittura odiati!
La storia delle vocazioni cristiane conosce bene questi conflitti, questa sofferenza nelle famiglie, che a volte si ribellano alla vocazione del figlio o della figlia, e conosce bene anche le vocazioni abortite perché il legame con la famiglia è più forte del legame con il Signore che la vocazione richiede. Certo, oggi la mondanità entrata anche nella vita ecclesiale banalizza le relazioni tra chiamato e famiglia, così che non si pone più un aut aut che indichi una rinuncia, una separazione necessaria per seguire con cuore unito il Signore. L’esito è poi quello di chiamati che hanno una vita astenica, che sono “tirati qua e là” (cf. Lc 10,40), mai veramente decisi a compiere un cammino imboccato con tutto il cuore. Misere vocazioni! In verità non possiamo amare tutti nello stesso tempo, ma solo dando ai nostri amori un ordine chiaro sappiamo dov’è il nostro tesoro e dunque il nostro cuore (cf. Lc 12,34).
D’altronde, anche le dieci parole (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-22) richiedono come prioritario l’amore per Dio, e quando Gesù menziona il comandamento “Onora il padre e la madre”, dal quarto posto lo retrocede all’ultimo (cf. Lc 18,20). Anche i leviti dovevano abbandonare la famiglia per essere assidui al Signore, e la comunità di Qumran richiedeva ai suoi membri la separazione dalla famiglia per essere vigilanti in attesa del giorno del Signore (cf. 4QTestimonia 14-20; cf. Dt 33,8-11). Sì, Gesù chiede un atto, che lui stesso ha compiuto nei confronti della sua famiglia (cf. Lc 8,19-21), chiede una rottura che permetta un amore diverso, esteso, universale, un amore nel quale Dio ha il primato e la famiglia ha il suo posto, ma senza il potere di legare. Nello stesso tempo, amo ricordare che Dio, e dunque Cristo, non è totalitario: non esclude altri amori, come quello coniugale o quello dell’amicizia, ma anche questi vanno vissuti sapendo che l’amore per Cristo è primario, egemonico, e gli altri amori non possono porre ostacoli, dilazioni e tanto meno contraddizioni a quello per il Signore.
Questo regime degli affetti è duro, costa fatica, ma è il “portare la propria croce”, cioè il portare lo strumento di esecuzione del proprio io philautico, egoista. Ognuno ha una propria croce da portare, nessuno ne è esente, ma non si devono fare paragoni. Gesù, infatti, sa che quanti lo seguono fedelmente si troveranno coinvolti anche nella sua passione e morte, quando egli porterà la croce. Si tratterà di imparare da Gesù, quando egli parla, agisce, ma anche quando sarà condannato, torturato e ucciso nell’ignominia della croce. Essere discepoli di Gesù non è l’esperienza di un momento (cf. Mc 4,12-13; Mt 13,20-21), non è un provare per verificare, ma è la decisione di rispondere a una chiamata, è un “amen” che va detto con ponderazione, con discernimento, senza obbedire alle emozioni del momento.
Per questo Gesù annuncia due parabole che suonano come un avvertimento, una messa in guardia: egli non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade… Avremmo molto da imparare da questo atteggiamento di Gesù, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù. Con la prima parabola Gesù avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa, per vedere se ha i mezzi per portare a termine i lavori?”. Seguire Gesù – e si faccia attenzione a una lettura poco intelligente dei racconti evangelici di vocazione! – richiede non il fuoco di un momento, non l’entusiasmo, non solo l’innamoramento, ma anche un tempo di calma, di silenzio, di esame di se stessi. È l’azione del discernimento, difficile ma assolutamente necessaria per percepire la voce del Signore non fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un altro, ma nel nostro cuore più profondo, là dove Dio ci parla personalmente. Ascoltando il profondo, la propria intimità, discernendo la parola di Dio dalle altre parole che ci abitano, guardando con realismo a ciò che siamo e alle nostre possibilità, noi possiamo giungere a una scelta; magari facendoci aiutare da chi è più avanti di noi nella vita secondo lo Spirito, ma sempre coscienti che l’amen può solo essere nostro, personalissimo, e un amen per sempre, non a tempo o con scadenza!
Similmente la seconda parabola avverte che occorre misurare bene le proprie forze, per vincere quello che è un combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo. Perché la sequela di Gesù esige la capacità di fare guerra contro il nemico, il diavolo che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la sequela stessa. Dunque il chiamato lo sa: ascoltata la parola di invito, deve innanzitutto “stare fermo”, rimanere in solitudine e in silenzio (cf. Lam 3,28) per discernere bene cosa ha ascoltato e cosa il cuore gli dice; poi deve consigliarsi (come dice letteralmente il verbo bouleúomai); infine deve pervenire alla decisione personalissima, fidandosi soltanto della grazia del Signore.
Gesù aggiunge poi una parola non presente nel brano liturgico, ma collegata con quanto precede. Egli dice che accade per una storia di vocazione quello che accade per il sale: “Il sale è buono, ma se perde la capacità di salare, a cosa potrà servire? Lo si butta via!” (cf. Lc 14,34-35). Allo stesso modo una vocazione può essere buona, ma nella vita può essere contraddetta, abbandonata, e allora quella resta una vita sprecata.
Diceva il mio padre spirituale: “Quando qualcuno pensa di incrementare il numero di vocazioni nella chiesa, e impone la vocazione agli altri, non crea dei santi ma delle persone miserabili!”.
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Croce, ignominia divenuta segno di “gloria”
Fernando Armellini
È famoso il detto di un padre del deserto: “Verrà il tempo in cui gli uomini impazziranno. E al vedere uno che non sia pazzo gli si avventeranno contro dicendo: ‘Tu sei pazzo!’, a motivo della sua dissomiglianza da loro”.
Paolo è passato attraverso questa esperienza: “I giudei domandano miracoli e i Greci cercano la sapienza; ma noi, noi predichiamo un Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani” (1 Cor 1,22-23).
Dove sta la vera sapienza?
La logica della croce non è quella del mondo e l’uomo nasce e cresce assimilando quella del mondo. Quando gli viene annunciata la “ follia della croce” è normale e perfino salutare che esiti, venga colto da dubbi e perplessità e che – come spiega il Vangelo di oggi – si sieda per riflettere sulla scelta da fare.
Noi cerchiamo la vita, non la morte, vogliamo evitare ciò che ci fa soffrire e la croce non evoca, purtroppo, l’idea di salvezza.
Certe forme di mortificazione, di penitenze e di pratiche ascetiche non hanno reso un buon servizio alla comprensione dell’invito fatto da Gesù a prendere la croce.
Il cristiano non aspira al dolore (nemmeno Gesù lo ha cercato), ma all’amore.
Tuttavia, quando l’amore è “vissuto fino alla fine” (Gv 13,1) giunge al dono della vita. Ecco perché la croce, da segno di morte, diviene simbolo di vita.
Fino alla fine del III secolo, i simboli del cristiano erano l’ancora, il pescatore, il pesce, mai la croce. Sarà a partire dal IV secolo, con il celebre ritrovamento dello strumento del supplizio di Gesù da parte di Sant’Elena, che la croce diverrà simbolo di vittoria, non sui nemici di Costantino a Ponte Milvio, ma sulla morte e su tutto ciò che fa morire.
Scegliere la croce è scegliere la vita. Ma non è facile da capire.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Donaci, o Dio, la sapienza del cuore”.
Prima Lettura (Sap 9,13-18b)
13 Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14 I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
15 perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima
e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri.
16 A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi può rintracciare le cose del cielo?
17 Chi ha conosciuto il tuo pensiero,
se tu non gli hai concesso la sapienza
e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?
18 Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito;
essi furono salvati per mezzo della sapienza”.
Il capitolo 9 del libro della Sapienza contiene una stupenda preghiera per chiedere a Dio la sapienza. La lettura ne presenta la terza ed ultima parte.
La sapienza di cui parla la Bibbia non va identificata con l’erudizione, il sapere, l’istruzione ricevuta a scuola.
L’autore del libro della Sapienza era un uomo molto intelligente e preparato: aveva studiato la scienza, l’aritmetica, la fisica; conosceva il movimento delle stelle, il comportamento degli animali, le radici per curare le malattie (Sap 7,16-21). Eppure sentiva il bisogno di chiedere a Dio la sapienza perché essa può essere donata solo da lui.
Come allevare gli animali, come coltivare i campi, quali tecniche impiegare per produrre sempre di più e sempre meglio: sono problemi seri e urgenti, ma non sono i più importanti. Ci sono interrogativi che vanno affrontati perché dalla loro soluzione dipende la riuscita o il fallimento della vita e a questi interrogativi non rispondono i libri di scienza. Che valore dare al denaro, al successo, al prestigio sociale, alla famiglia, alla professione? Possono essere dimenticati, ma anche pericolosamente sopravvalutati.
Per fare scelte giuste e ponderate, è necessaria la “sapienza”, cioè, la luce che viene da Dio, perché – dice la lettura – seguendo i propri impulsi e le proprie intuizioni, l’uomo non arriva a scoprire ciò che è bene. Non è in grado di conoscere il volere del Signore perché i suoi ragionamenti sono incerti. È troppo condizionato dal corpo corruttibile che gli appesantisce la mente. Già fa fatica a capire le cose della terra, come potrà scoprire i pensieri di Dio? (vv.13-16).
Toppi fattori imponderabili condizionano i ragionamenti e le scelte dell’uomo: l’educazione ricevuta, le tradizioni assimilate, i persuasori occulti, la propaganda di chi detiene il potere, l’opinione dominante. Non è facile decidere in modo libero e saggio, camminare per sentieri diritti, se Dio non invia dall’alto la sua luce, se non comunica la sua sapienza (vv.17-18).
I pensieri degli uomini sono spesso deboli, fragili, inconsistenti. Non dobbiamo meravigliarci se la parola di Dio tante volte li contraddice.
Seconda Lettura (Fm 9b-17)
9bIo, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; 10 ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, 11 Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. 12 Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore.
13 Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. 14 Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. 15 Forse per questo è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; 16 non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore.
17 Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso.
Se i Colossesi hanno conservato con devozione questo biglietto, indirizzato da Paolo a un cristiano della loro comunità, significa che, nonostante la sua brevità, è stato ritenuto prezioso. L’episodio che l’ha originato è commovente. Se ad esso si aggiunge il tono affettuoso, delicato e dolce con cui Paolo lo ha redatto (basta considerare le parole con cui inizia il nostro brano: “Io, Paolo, vecchio e ora anche prigioniero”), si comprende la ragione dell’amore di cui è sempre stato circondato. Veniamo alla vicenda.
Passando per la provincia dell’Asia, Paolo ha incontrato e convertito a Cristo un giovane e ricco commerciante di Colossi di nome Filemone. Costui diviene un cristiano esemplare. Paolo lo chiama “nostro caro collaboratore” (Fm 1) e ne fa un notevole elogio: “sento parlare della tua carità per gli altri” (Fm 5); “la tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione, fratello, perché il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua” (Fm 7).
Filemone è sposato (Appia che viene citata al v.2 è probabilmente sua moglie), ha al suo servizio operai, domestici ed è proprietario di una casa sufficientemente grande da accogliere tutta la comunità per gli incontri e la celebrazione settimanale dell’eucaristia (Fm 2). Un giorno uno dei suoi schiavi, un certo Onesimo (che significa “utile”!), gli ruba un bel gruzzolo e scompare.
Schiavi che fuggono ce ne sono parecchi. In genere finiscono per mimetizzarsi in una grande città, vivendo di espedienti, di elemosine o di furti, cercando di non farsi riconoscere perché chi viene riportato dal padrone rischia la pena capitale.
Non sappiamo come quest’uomo sia arrivato a incontrare Paolo; visto che l’Apostolo si trovava ad Efeso in prigione, si può supporre che i fatti si siano svolti, più o meno, in questo modo: Onesimo, giunto nella più grande metropoli dell’Asia, si caccia in qualche affare losco, viene scoperto e finisce in galera. Lì incontra l’Apostolo.
Passati i primi giorni di reciproca diffidenza, i due si raccontano le loro storie e scoprono di conoscere le stesse persone a Colossi. Divengono amici e Paolo parla ad Onesimo del Signore Gesù. Dopo alcuni mesi, Onesimo chiede di essere battezzato e quando viene rimesso in libertà vorrebbe tornare dal suo padrone, ma gli manca il coraggio. L’Apostolo allora gli consegna una lettera di presentazione da consegnare a Filemone e a tutta la comunità.
Questa è l’origine della breve e stupenda Lettera a Filemone che oggi ci viene proposta.
Paolo invita l’amico e i cristiani di Colossi a non lasciarsi guidare da considerazioni umane e a supporre che Onesimo si sia convertito per opportunismo. Questi ragionamenti spesso sono il sintomo di un meschino desiderio di vendetta. L’Apostolo raccomanda che Onesimo venga accolto bene: come se fosse suo figlio (v.10), come il suo stesso cuore (v.12), come un fratello carissimo (v.16). Cos’è mai la perdita di un po’ di soldi, paragonata alla gioia di ricevere un fratello? (vv.17-18). Chi ha sbagliato non può essere guardato con sospetto per tutta la vita.
Com’è finita la storia di Onesimo? Non abbiamo notizie sicure, ma tutto lascia supporre che egli sia stato accolto molto bene perché, pochi anni dopo, nella lettera ai Colossesi, Paolo parla ancora di “Onesimo, il fedele e caro fratello che è dei vostri” (Col 4,9). Cinquant’anni più tardi, Ignazio di Antiochia ricorda un certo Onesimo, vescovo di Efeso. Potrebbe trattarsi della stessa persona.
Vangelo (Lc 14,25-33)
Nel campo religioso, le statistiche, le percentuali, le proiezioni, i rilevamenti sono utili se aiutano a riflettere sulle proprie responsabilità e stimolano a rivedere le scelte ecclesiali alla luce del Vangelo. Sono opinabili e tendenziosi invece quando portano a scaricare sull’edonismo, sul laicismo, sul secolarismo… tutte le colpe degli insuccessi. Sono addirittura deleteri se inducono ad interpretare l’aumento degli adepti come un motivo di orgoglio, di vanità, di autocompiacimento.
Di fronte ai “grandi numeri”, alle “folle oceaniche” Gesù, invece di rallegrarsi, si preoccupa. Immagina i suoi discepoli come un “piccolo gregge” (Lc 12,32), come un po’ di “sale” (Mt 5,13) o di “fermento” (Mt 13,33), come “un granello di senape” (Mt 13,31). Non dobbiamo meravigliarci se – come accade nel Vangelo di oggi – egli rimane stupito al vedere che “era molta la gente che andava con lui” (v.25). È colto dal dubbio che ci sia stato un equivoco, che le folle abbiano frainteso le sue parole. Si volta e comincia a spiegare cosa comporta la scelta di essere suoi discepoli (v.25).
Gesù fa tre richieste, molto dure, che si concludono con il medesimo, severo ritornello: non può essere mio discepolo! (vv.26.27.33). Sembra quasi che voglia allontanare le persone, più che attirarle.
Il brano è stato applicato spesso alla vocazione monastica. In realtà è diretto alle folle che vanno con lui, è rivolto a tutti coloro che vogliono essere cristiani.
Iniziamo con una precisazione: Se uno viene a me – dice Gesù – non “se uno vuole venire dietro a me” (v.26). È una differenza sottile, ma significativa perché rivela l’intenzione dell’evangelista. Luca vuole indirizzare le parole di Gesù ai numerosi convertiti delle sue comunità i quali sono attratti dal Maestro, provano simpatia per lui e per il suo messaggio, ma sono anche tentati di “addomesticare” il Vangelo, di renderlo più abbordabile.
Le condizioni che Gesù pone sono chiare e non sono trattabili.
La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (v.26).
Quando presenta i requisiti della vocazione cristiana, Gesù usa sempre immagini molto forti. Non vuole che qualcuno si faccia delle illusioni. Lo abbiamo sentito qualche domenica fa dichiarare a chi lo voleva seguire: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo… Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Lc 9,57-62). In un’altra occasione ha parlato della necessità di cavare l’occhio e di tagliare la mano e il piede che scandalizzano (Mc 9,43-47). Tuttavia non era mai arrivato ad affermare che è necessario odiare i propri familiari e addirittura la propria vita. Com’è possibile? Il cristiano è colui che ama tutti, anche i nemici.
Qualcuno risolve la difficoltà sostenendo che, nella lingua di Gesù, il verbo odiare significa anche: “amare di meno”, “porre in secondo piano”. È vero, ma forse non è questa la soluzione giusta. Anzitutto l’amore non ha limiti e più si ama, meglio è. Dio non è geloso e considera come rivolto a sé tutto l’amore che è donato all’uomo (Mt 25,40). Non bisogna aver paura di esagerare. Inoltre, ridurre le parole severe del Maestro ad una banale questione di quantità: “amare di più – amare di meno”, vuol dire non capirle.
Quando Gesù parla di odio, si riferisce ai tagli netti che è necessario fare quando si tratta di rimanere fedeli al Vangelo. Odiare significa avere il coraggio di rompere anche i legami più cari, quando costituiscono un impedimento a seguire lui. È l’invito rivolto ai cristiani delle comunità di Luca a dissociarsi, a opporsi in tutti i modi a ciò che è contrario al Vangelo, anche quando questo significa porsi in disaccordo con un amico, urtare la sensibilità di qualche familiare, rinunciare a scelte di compromesso. Questi distacchi, queste prese di posizione possono venire classificati come “odio”, ma sono gesti coraggiosi di autentico amore.
La seconda condizione: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (v.27).
Questa frase viene interpretata spesso come un invito a sopportare con pazienza le contrarietà, le piccole o grandi sofferenze della vita. Altre volte è intesa come un invito a mortificarsi, a fare dei sacrifici.
Gesù non fa una richiesta di rassegnazione, ma di disponibilità a testimoniare, anche con la vita, la propria fede. Il martirio è una eventualità da mettere in conto perché la proposta di vita nuova – quella delle Beatitudini – è sconvolgente, scatena reazioni. Chi non la capisce o la ritiene pericolosa per il buon ordine sociale o religioso, farà certamente ricorso a qualche forma di violenza. Magari si tratterà solo di violenza verbale (insulti, ingiurie, diffamazioni, derisioni), ma può manifestarsi in discriminazioni, nell’emarginazione sociale o religiosa, nella messa al bando. Può giungere addirittura alla violenza fisica, come è accaduto con Gesù.
Questa è la croce che deve aspettarsi il discepolo.
Prima di introdurre la terza richiesta, Gesù racconta due brevi parabole. La prima parla di un uomo che, volendo proteggere i raccolti dai ladri e dagli animali, decide di costruire una torre nel suo campo per mettervi una guardia. Non inizia i lavori senza aver prima calcolato la somma necessaria per portare a termine l’opera. Ne va della sua reputazione (vv.28‑30).
La seconda parabola narra di un re che vuole intraprendere una guerra. Anch’egli si siede e valuta le forze del suo esercito (vv.31‑32). C’era un detto: prima di andare a caccia di leoni, prendi la tua lancia e conficcala per terra. Se non riesci a farla penetrare in profondità, rinuncia al tuo progetto: i leoni sono troppo forti per te!
Le due parabole sembrano un invito a rinunciare alla vocazione cristiana. In realtà l’obiettivo è richiamare la serietà e l’impegno che comporta questa scelta.
Chi ha ascoltato il Vangelo non può illudersi di essere già divenuto discepolo; non sono sufficienti gli slanci e l’entusiasmo iniziale, occorre costanza e forza per perseverare.
La terza condizione: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (v.33).
Non si tratta di dare qualche spicciolo in elemosina. Bisogna rinunciare a tutto. Non è uno scherzo!
Per rendere praticabile questa richiesta è stata escogitata una infelice soluzione. Si è cominciato a parlare di istituti di perfezione (i religiosi, i monaci, le suore) che – prendendo i voti – si impegnano a praticare integralmente ciò che Gesù esige. I cristiani semplici possono invece continuare a possedere e amministrare i loro beni, ma devono rassegnarsi ad essere cristiani imperfetti. Insomma, la rinuncia ai beni non sarebbe un precetto per tutti, sarebbe un di più proposto ad alcuni eroi, decisi a praticare anche le parti “facoltative” del Vangelo.
Si tratta di un trucco maldestro. La richiesta di rinuncia totale ai beni non è rivolta solo a qualcuno, ma a chiunque viene a Gesù.
Affinché non sorgessero dubbi, Luca ha riferito più volte questa condizione posta dal Maestro (Lc 12,33; 18,22…).
Non è facile avanzare proposte concrete. Luca ha presentato negli Atti la comunità in cui nessuno era povero perché tutti avevano messo in comune i loro beni (At 2,44‑45; 4,32-35).
Certo è che la scelta di seguire Cristo comporta un rapporto completamente nuovo anche nei confronti dei beni di questo mondo.
Per gentile concessione di
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