di Pietro Giordano
28 Agosto 2025
Per gentile concessione di
http://www.vinonuovo.it

C’è un contrasto che accompagna da sempre la condizione umana: da un lato, il profondo senso di giustizia che abita ogni persona, anche la più malvagia; dall’altro, lo spettacolo quotidiano di ingiustizia che il mondo ci restituisce. Jean-Jacques Rousseau lo sintetizzava con forza: “L’uomo nasce libero, ed è ovunque in catene”.
Questa distanza tra ideale e realtà ci ricorda che la giustizia non coincide con i soli tribunali, né può essere ridotta a norme scritte. Il diritto è indispensabile, ma copre soltanto una parte del vasto territorio della giustizia, che abbraccia l’intera vita in comune. Eppure, la tendenza odierna sembra essere quella di trasformare ogni relazione in contratto: un processo di “giuridicizzazione” che, invece di aumentare la giustizia, genera sfiducia e irrigidisce i legami sociali.

La grande lezione dell’umanesimo europeo è che la giustizia non è solo un principio astratto, ma una virtù cardinale: un esercizio interiore che deve essere praticato, vissuto, coltivato. La città giusta nasce da cittadini giusti. I Greci lo sapevano bene, immaginando Dike, la giustizia della polis, come figlia di Themis, la giustizia originaria e universale che precede ogni legge storica. La tragedia di Antigone mostra con chiarezza questa tensione: la legge della città può entrare in conflitto con una giustizia più alta, quella che riconosce la dignità inviolabile dell’essere umano.

Ma anche nella modernità ritroviamo questa consapevolezza: Montesquieu e Filangieri ricordavano che le democrazie non reggono senza cittadini virtuosi. Una legge può essere formalmente corretta, ma se nasce da uomini ingiusti, rischia di tradursi in oppressione.

La Dottrina sociale della Chiesa ha raccolto e approfondito questa intuizione, inserendola in una prospettiva più ampia. Già con Rerum Novarum (1891), Leone XIII denunciava le ingiustizie del lavoro industriale e richiamava il dovere di tutelare la dignità della persona. Con Centesimus Annus (1991), Giovanni Paolo II ribadiva che la giustizia sociale non si riduce alla redistribuzione di risorse, ma implica la partecipazione di tutti alla vita sociale ed economica e il riconoscimento dei diritti fondamentali.

Per la tradizione cristiana, la giustizia non è mai disgiunta dalla carità. Benedetto XVI nella Caritas in veritate scriveva: “La giustizia è inseparabile dalla carità; quest’ultima va oltre, ma mai senza la giustizia”. Papa Francesco, dal canto suo, invitava a unire giustizia e misericordia: non solo punire, ma ricostruire legami, ridare dignità agli esclusi, riparare ferite. E ancora Leone XIV: “Sembra che manchi ancora la consapevolezza che distruggere la natura non colpisce tutti nello stesso modo: calpestare la giustizia e la pace significa colpire maggiormente i più poveri, gli emarginati, gli esclusi”.
La giustizia, illuminata dall’agape, diventa così più di un calcolo: è riconoscimento dell’altro come fratello.

Uno dei campi dove la distanza tra senso di giustizia e realtà appare più evidente è quello economico. L’economia moderna, salvo rare eccezioni come Amartya Sen, ha trattato la giustizia come vincolo esterno, mai come obiettivo intrinseco. Così, norme sul lavoro, tasse o regole ambientali vengono viste come ostacoli alla logica del profitto.

Eppure, la storia europea conosceva un’altra via. Nel Medioevo si parlava di giusto prezzo; Antonio Genovesi, nel Settecento, scrisse un trattato di economia civile ma anche la Diceosina, interamente dedicata alla giustizia come fondamento dell’economia. Il capitalismo contemporaneo, invece, sembra aver smarrito questa eredità, riducendo la giustizia a formalismo legale e alimentando disuguaglianze e speculazioni che spesso distruggono più che creare.

Qui la Dottrina sociale della Chiesa è chiara: un’economia che produce privilegi per pochi e marginalità per molti non è compatibile con la giustizia. L’impresa, ricorda Caritas in veritate, deve essere non solo strumento di profitto, ma luogo di partecipazione e responsabilità sociale.

Come uscire da questo impasse? La risposta richiede tanto un coraggio civile quanto una conversione personale. Da un lato, serve una nuova creatività sociale e politica, capace di immaginare modelli di sviluppo alternativi, come fecero i movimenti cooperativi alle origini del capitalismo. Dall’altro, occorre riscoprire la giustizia come virtù quotidiana: riconoscere i meriti senza favoritismi, rispettare la parola data, dare voce a chi non ce l’ha.

La Bibbia ci ricorda che “beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”. È una beatitudine difficile, perché non si accontenta della giustizia degli scribi e dei farisei, né del rispetto formale delle leggi. Ma è proprio in questa tensione che la giustizia rimane viva: non come un lusso morale, ma come fondamento dell’umano vivere insieme.

La giustizia, virtù fragile e necessaria, continua a giudicare le nostre società e le nostre economie. Eppure, ogni volta che viene praticata, fosse anche solo in un gesto quotidiano, essa apre uno spiraglio di futuro.